Corte d'Appello Roma, sentenza 22/07/2024, n. 2174

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Sul provvedimento

Citazione :
Corte d'Appello Roma, sentenza 22/07/2024, n. 2174
Giurisdizione : Corte d'Appello Roma
Numero : 2174
Data del deposito : 22 luglio 2024

Testo completo


REPUBBLICA ITALIANA
In Nome del Popolo Italiano
LA CORTE DI APPELLO DI ROMA
- Sezione Lavoro e Previdenza –

composta dai Signori Magistrati
Dott. G R - Presidente –
Dott.ssa F D V A - Consigliere-
Dott.ssa B M S - Consigliere est. -
all'esito dell'udienza del 30 maggio 2024 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 1128 del Ruolo Generale Affari Contenziosi del
2022, vertente
TRA
, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa Parte_1
dall'avv. I B, elettivamente domiciliata come in atti;

Appellante
E
, rappresentata e difesa dall'avv. V P, elettivamente Controparte_1
domiciliata come in atti;

Appellata
Oggetto: appello avverso la sentenza n. 3150/2022 del Tribunale di Roma, sezione lavoro, pubblicata
in data 06/04/2022.
Conclusioni: come da rispettivi atti RAGIONI DELLA DECISIONE

La società - premesso che con decreto ingiuntivo, emesso in data 17/12/2021, Parte_1
notificato in data 11/1/2022, il Tribunale di Roma aveva ingiunto alla società di pagare in favore di la somma di € 1.999,13, oltre accessori di legge e spese legali, a saldo del TFR Controparte_1
richiesto dalla lavoratrice a seguito di cessazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti;
che tale decreto ingiuntivo era stato richiesto ed emesso n base ad una pretesa illegittima non essendo il credito certo, liquido ed esigibile, avendo la società datrice di lavoro onorato il preteso credito ingiunto a mezzo di assegno bancario depositato presso lo studio del conciliatore al quale la società si era rivolta al fine di definire la posizione mediante conciliazione sindacale ex art. 410 e 411 c.p.c., e mai ritirato dalla lavoratrice;
che dopo la notifica del decreto ingiuntivo e contestuale atto di precetto la società opponente inviava con raccomandata alla l'assegno rimasto giacente presso il conciliatore;
CP_1 che l'obbligazione doveva ritenersi estinta dal 14.9.2021 non avendo la lavoratrice mai provveduto al ritiro dell'assegno senza un giustificato motivo- proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 7740/201 e conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, formulando le seguenti conclusioni: “ in via preliminare, pregiudiziale Controparte_1
sospendere anche inaudita altera parte la provvisoria esecuzione ex art. 649 c.p.c. del D.I. opposto
n. 7740/21 emesso dal Tribunale di Roma Sezione Lavoro per i gravi motivi tutti spiegati in narrativa;
nel merito revocare e/o dichiarare nullo o privo di efficacia l'opposto decreto ingiuntivo R.G. n.

28959/2021 n. 7740/2021 emesso dal Tribunale di Roma Sezione Lavoro in data 17/12/2021;
accertare la violazione dell'art. 96 c.p.c. in relazione alla condotta dell'odierno opposto circa

l'abuso dello strumento processuale perpetrato dalla Sig.ra con condanna alle spese e al CP_1 risarcimento danni. Con vittoria di spese e competenze di lite, oltre accessori come per legge.”
Si costitutiva in giudizio chiedendo, preliminarmente, di dichiarare cessata la Controparte_1 materia del contendere, con il favore delle spese di lite, avendo l'opponente provveduto al pagamento della somma ingiunta, quanto a sorte capitale, successivamente alla notifica del D.I. opposto e, nel merito concludeva per il rigetto dell'opposizione, con vittoria delle spese di lite.
Il Tribunale di Roma, con la sentenza impugnata, ha così disposto: “Revoca il D.I. n. 7740/2021 del
Tribunale di Roma sez. Lavoro;
Rigetta nel resto il ricorso in opposizione;
Condanna “ Parte_1
” a rifondere alla parte opposta le spese di lite, che liquida in € 1.360,00
[...] Controparte_1
per compensi di avvocato, oltre rimborso spese generali del 15%, IVA e CPA. Condanna altresì
al pagamento in favore della parte opposta della somma di € 200,00 per Parte_1 responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 comma 3 cpc”.
Il primo giudice ha argomentato che: i) doveva essere disattesa l'istanza della parte opposta di dichiarare cessata la materia del contendere non avendo l'opponente aderito a tale richiesta;
ii) era documentalmente provata la durata e la natura subordinata del rapporto di lavoro intervenuto tra le parti dal 19.01.2021 al 30.06.2021, ed altresì incontestata era la busta paga di agosto 2021 emessa dalla parte opponente relativa alle spettanze di fine rapporto maturate dalla lavoratrice pari ad €
2.950,08, corrispondenti ad € 1.999,13 netti;
iii) non risultava alcuna l'offerta reale di pagamento ex art. 1208 e art. 1209 c.c., per cui non era fondata la richiesta della parte opponente di ritenere provato il pagamento sin dal 14.9.2021;
iv) la parte opponente aveva invece inviato alla lavoratrice, a mezzo raccomandata, l'assegno bancario, privo di data, solo dopo la notifica del d.i. opposto, per cui
l'effettiva data di pagamento era quella di avvenuto incasso (dopo il 28.1.2022) dell'assegno da parte della ;
v) non era condivisibile l'assunto di parte opponente secondo cui il tardivo pagamento CP_1
delle somme era imputabile alla lavoratrice che non aveva voluto sottoscrivere un accordo conciliativo, essendo piuttosto censurabile il comportamento della parte datoriale che aveva voluto subordinare il pagamento di una somma dovuta per legge, quale il tfr, alla sottoscrizione di un accordo conciliativo;
vi) la società opponente aveva agito con colpa grave e doveva, pertanto, essere condannata ex art. 96 comma 3 c.p.c. al pagamento della somma di € 200,00 in favore della parte opposta a titolo di risarcimento.
Avverso la detta pronuncia ha proposto appello la società censurando la Parte_1
sentenza impugnata per:1) erroneità nella parte in cui attesta la mancanza di responsabilità in capo alla lavoratrice per il tardivo incasso delle somme alla stessa spettanti, imputandolo integralmente all'odierna appellante;
2) erroneità per avere condannato la parte opponente alla refusione delle spese di lite nei confronti del convenuto, non considerando il principio in virtù del quale l'accoglimento parziale della domanda determina una soccombenze reciproca;
3) erroneità della sentenza nella parte in cui riconosce la colpa grave in capo alla società opponente invece che in capo alla lavoratrice che aveva fatto ricorso immotivatamente ed illegittimamente al procedimento monitorio sapendo che le somme a lei dovute erano state da tempo messe a sua disposizione da parte del datore di lavoro;
4) erroneità della sentenza per non essersi pronunciata in ordine all'ammissione dei mezzi istruttori richiesti dall'opponente.
Ha, pertanto, chiesto l'accoglimento dell'appello con condanna della parte appellata al risarcimento dei danni ex art. 96, comma 3, c.p.c. e alle spese di lite del procedimento di primo grado reiterando, in via istruttoria, la richiesta di ammissione della prova per testi.
Si è costituita , resistendo al gravame, e chiedendone il rigetto. Controparte_1
All'odierna udienza, all'esito degli adempimenti previsti dall'art. 437 c.p.c., la causa è stata decisa come da dispositivo.
L'appello non è fondato mentre le conclusioni cui è pervenuto il giudice di prime cure sono meritevoli di conferma anche nella presente fase di impugnazione.
Con il primo motivo di gravame l'appellante critica la sentenza impugnata per non avere ritenuto responsabile del ritardo nel pagamento delle somme a lei dovute la stessa lavoratrice che non si era presentata all'incontro per definire in sede conciliativa ogni questione economica intercorrente tra le parti. Sostiene che dalla documentazione depositata in primo grado, in particolare la Pec del
30/9/2021, si evinceva sia la volontà del datore di lavoro di voler adempiere al proprio debito sia il rifiuto ingiustificato della a voler concludere definitivamente senza possibilità di CP_1
impugnativa il rapporto di lavoro. Afferma, quindi, che il ritardo nel pagamento delle somme di cui
è causa era imputabile esclusivamente alla lavoratrice che, con il suo comportamento scorretto, avrebbe posto ostacoli inutili all'adempimento della prestazione da parte del datore di lavoro.
Il motivo è infondato.
Risulta documentalmente ed è incontestato che abbia lavorato alle dipendenze della Controparte_1
società dal 19/1/2021 al 30/06/2021 e che alla lavoratrice, essendo Parte_1
intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro, spettavano le somme indicate nella busta paga di agosto 2021 che, secondo i conteggi effettuati dalla società datrice di lavoro, erano pari ad € 2.950,08, corrispondenti ad € 1933,13 netti.
Dai documenti allegati alla comparsa di costituzione in primo grado della parte opposta, e riprodotti come allegato n. 3 della memoria di costituzione in appello, emerge chiaramente che la lavoratrice, con Pec del 27.9.2021, aveva richiesto il pagamento a mezzo di bonifico bancario delle somme alla stessa spettanti a titolo di TRF, come risultanti dalla busta paga di agosto 2021;
che il suo legale con comunicazione di ottobre 2021 aveva formalmente diffidato la società alla corresponsione del TFR ai sensi dell'art. 2120 c.c. e, avendo la società imputato il ritardo nel pagamento alla mancata sottoscrizione da parte della lavoratrice del verbale di conciliazione in sede sindacale (incontro fissato per il 15 settembre 2021, cui la lavoratrice comunicava di non poter presenziare), lo stesso legale rappresentava l'illegittimità della pretesa datoriale, non essendovi alcuna controversia da conciliare avendo la lavoratrice il diritto a vedersi corrisposto il TFR ai sensi dell'art. 2120. Seguivano ulteriori comunicazioni via Pec per sollecitare il pagamento delle somme maturate dalla lavoratrice, con la fissazione del termine ultimo del 25 ottobre 2021 entro il quale la società avrebbe dovuto adempire a mezzo di bonifico bancario. In mancanza di spontaneo adempimento, in data 2 novembre 2021
[...]
depositava telematicamente il ricorso per decreto ingiuntivo, emesso dal Tribunale di CP_1
Roma il 17/12/2021, e notificato all'ingiunto in data 11/1/2022. La società Parte_1
provvedeva dopo la notifica del decreto ingiuntivo, in data 28.1.2022, ad inviare a mezzo raccomandata al domicilio della l'assegno bancario n. 1115611713, privo di data (doc. sub. CP_1
1 fascicolo primo grado parte opposta).
Il Tribunale, esaminata la documentazione prodotta dalle parti, ha correttamente ritenuto che non poteva essere condiviso quanto sostenuto dalla società opponente sia in merito all'asserito pagamento delle somme vantate dalla lavoratrice a far data dal 14.9.2021, con la consegna dell'assegno al conciliatore, sia all'imputabilità alla lavoratrice medesima del tardivo pagamento, non avendo quest'ultima inteso sottoscrivere l'accordo conciliativo.
Rileva il Collegio, quanto al primo aspetto, che con motivazione pienamente condivisibile il giudice di prime cure ha ritenuto che il debitore non aveva provato di avere provveduto al pagamento di quanto da lui dovuto sin dal 14 settembre 2021, non essendo documentata alcuna offerta reale del pagamento ex art. 1208 e 1209 c.c., non avendo adempiuto l'obbligazione al domicilio del creditore.
Quanto al ritardo imputabile, secondo l'appellante, al comportamento scorretto della parte appellata che non si era presentata all'incontro per la conciliazione in sede sindacale, osserva la Corte che il pagamento delle somme maturate dalla lavoratrice e che la stessa aveva diritto a percepire a seguito della cessazione del rapporto di lavoro subordinato, assolutamente incontestate anche nel quantum, non poteva essere condizionato alla sottoscrizione di un accordo conciliativo, di cui non ricorrevano, tra l'altro, neppure i presupposti in difetto di una controversia tra le parti, che non avevano necessità di riconoscersi reciproche concessioni e rinunce.
Il primo motivo di appello è, quindi, infondato.
Con il secondo motivo di impugnazione l'appellante lamenta l'errata applicazione, da parte del giudice di prime cure, dell'art. 91 c.p.c., avendo condannato la società opponente al pagamento delle spese di lite senza considerare che erano state disattese entrambe le richieste della parte opposta, sia quella di dichiarare cessata la materia del contendere sia quella formulata in via principale di conferma del decreto ingiuntivo opposto.
Anche il secondo motivo non è fondato.
Il Tribunale ha, infatti, disatteso la richiesta della di dichiarare cessata la materia del CP_1 contendere a seguito dell'intervenuto pagamento della sorte successivamente alla notifica del decreto ingiuntivo, solo per non avervi aderito la parte opponente, presupponendo tale pronuncia che le parti sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice.
Il giudice di prime cure ha richiamato i principi costantemente affermati dalla Suprema Corte (ex multiis Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11962 del 08/06/2005, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21757 del
29/07/2021), secondo cui la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice, potendo al più residuare un contrasto solo sulle spese di lite, che il giudice con la pronuncia deve risolvere secondo il criterio della cosiddetta soccombenza virtuale;
diversamente, nel caso in cui la sopravvenienza di un fatto, che si assume suscettibile di determinare la cessazione della materia del contendere, sia allegato da una sola parte e
l'altra non aderisca a tale prospettazione, l'apprezzamento di tale fatto non può concretarsi in una pronuncia di cessazione della materia del contendere bensì: a) o in una pronuncia dichiarativa dell'esistenza del diritto azionato e di sopravvenuto difetto di interesse ad agire dell'attore in ordine ai profili non soddisfatti da tale dichiarazione, ove abbia determinato il soddisfacimento del diritto azionato con la domanda dell'attore;
b) o in una pronuncia da parte del giudice sul merito dell'azione nel senso della declaratoria della sua infondatezza, ove, invece, si sia sostanziato nel riconoscimento da parte dell'attore della infondatezza del diritto da lui azionato.
Tanto premesso non può certo ritenersi che nel caso in esame, in cui non è stata dichiarata cessata la materia del contendere per non avervi aderito parte opponente, ed in cui la revoca del decreto ingiuntivo è stata determinata unicamente dall'avvenuto pagamento della somma ingiunta dopo la notifica del decreto medesimo, ricorra l'ipotesi di una soccombenza reciproca che, secondo
l'appellante, avrebbe dovuto condurre ad una compensazione delle spese di lite.
Il pagamento della somma ingiunta comporta, infatti, che il giudice dell'opposizione, revocato il decreto ingiuntivo, debba regolare le spese processuali, anche per la fase monitoria, secondo il principio della soccombenza virtuale, valutando la fondatezza dei motivi di opposizione con riferimento alla data di emissione del decreto (Cass. Sez. 2, sentenza n. 8428/2014,
Cass. N. 17469/2007).
Il Tribunale, con motivazione esente da censure, ha ritenuto fondata nel merito la pretesa azionata con il ricorso monitorio, censurando anche il comportamento della parte opponente che aveva
tentato di condizionare il pagamento di una somma non contestata e dovuta per legge, quale il tfr, alla sottoscrizione di un accordo conciliativo”;
ed ha pertanto condannato l'opponente al pagamento delle spese processuali facendo corretta applicazione del principio della soccombenza ex art. 91 c.p.c.
Destituito di fondamento è, infine, il terzo motivo di gravame, con cui l'appellante lamenta l'erroneità della condanna inflitta nei suoi confronti ai sensi dell'art. 96 c.p.c.
Afferma, in particolare, la parte appellante che nella vicenda in esame unico comportamento scorretto
e pretestuoso sarebbe stato quello della parte appellata che avrebbe fatto ricorso immotivatamente ed illegittimamente al procedimento monitorio, a fronte di una condotta “estremamente conciliativa” posta in essere dalla società datrice di lavoro.
Osserva la Corte che, come argomentato nell'analisi del primo motivo di impugnazione, la società opponente, pur risultando documentalmente provato e non contestato il rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti e l'entità della somma maturata dalla lavoratrice, nonostante solleciti e diffide non aveva adempiuto spontaneamente all'obbligazione avente ad oggetto il pagamento del tfr, pretendendo di condizionarlo alla sottoscrizione di un verbale di conciliazione, rendendo così necessario il ricorso della alla procedura monitoria. D'altro canto, in epoca recente la CP_1
Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che “La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile
d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale;
la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente
” (Cass. Sez. L,
Sentenza n. 3830 del 15/02/2021), ragion per cui è del tutto sufficiente la valutazione della pretestuosità della condotta tenuta dalla società opponente (Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 20018 del
24/09/2020), come correttamente accertato dal giudice di prime cure.
Infondato è, infine, il quarto motivo di impugnazione con cui l'appellante censura la gravata sentenza per non essersi pronunciata in ordine all'ammissione della prova per testi formulata nel ricorso in opposizione.
La lettura degli atti smentisce l'assunto.
Il Tribunale, infatti, all'udienza del 6 aprile 2022, dopo avere esperito il tentativo di conciliazione con esito negativo, ha deciso in merito alle richieste istruttorie delle parti rigettandole “perché superflue essendo la causa istruita documentalmente”;
giudizio di superfluità pienamente condivisibile stante l'esaustività dei documenti prodotti ai fini della decisione.
Alla stregua delle considerazioni espresse l'appello non è meritevole di accoglimento con integrale conferma della sentenza impugnata.
Le spese del grado, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
In considerazione del tenore della decisione ricorrono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 112/2002 per il versamento da parte dell'appellante dell'ulteriore importo del contributo unificato, se dovuto.
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