Corte d'Appello Bari, sentenza 11/07/2024, n. 985

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Sul provvedimento

Citazione :
Corte d'Appello Bari, sentenza 11/07/2024, n. 985
Giurisdizione : Corte d'Appello Bari
Numero : 985
Data del deposito : 11 luglio 2024

Testo completo

N. R.G. 624/2023
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE di APPELLO di BARI
Prima Sezione Civile
Riunita in persona dei signori Magistrati:
Dott.ssa M M Presidente
Dott. M P Consigliere
Dott. G L Consigliere rel. ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Ex art. 350 bis c.p.c. e 281 sexies c.p.c. nella causa civile in grado di appello iscritta al nr. R.G. 404/2024, promossa da
rappresentato e difeso dall'avv. Ersilio L C ed Parte_1 elettivamente domiciliato presso il suo studio, ammesso al gratuito patrocinio con delibera del COA n. 3653/2023;

- appellante - contro
, rappresentata e difesa dall'avv. G P ed Controparte_1 elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. G C
- Appellata -
Controparte_2 Controparte_3
- Appellate contumaci - avverso la sentenza del Tribunale di Foggia n. 1015/2023 pubblicata il 13.4.2023
Oggetto: appello avverso sentenza ex art. 433 c.c.
Conclusioni delle parti: come da note scritte di cui al verbale di udienza svolta in modalità cartolare del 20.5.2024.
Fatto.
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Con atto di citazione in appello ritualmente notificato, premesso: Parte_1
- che aveva contratto matrimonio con e che, nel corso del rapporto Controparte_1 matrimoniale, erano nate due figlie, e ;
CP_2 Controparte_3
- che, con sentenza non definitiva n. 1201/2022, il Tribunale di Foggia aveva pronunciato la separazione personale dalla e, con sentenza definitiva (n. CP_1
1990/2017), aveva accertato la rinuncia reciproca al mantenimento;

- che era affetto da moltissimi anni da problemi di natura psichiatrica (psicosi schizofrenica cronica), oltre che da peritonite diffusa da ulcera duodenale perforata, Org_ come da verbale del 9.6.2014;

- che, in un momento di totale incoscienza ed incapacità di intendere e volere, aveva donato alla moglie il diritto di ½ di comproprietà su un appartamento in Foggia alla via
F. Maria (ex casa coniugale);

- che si ritrovava privo di qualsiasi dimora e in evidente stato di bisogno;

- che, tenuto conto della prestazione assistenziale percepita e del numero degli obbligati, nonché delle proprie gravi condizioni di salute, chiedeva il diritto a percepire, in solido dai convenuti, una prestazione alimentare di € 600,00 mensili;
- che il Tribunale di Foggia aveva rigettato la domanda, rilevando: che, pur volendo dare rilievo alle condizioni di salute dell'attore, riconosciuto invalido civile per la percentuale del 75%, nulla escludeva che potesse in qualche modo svolgere una attività produttiva di reddito;
che lo stesso attore aveva prodotto il verbale di separazione nel quale aveva riconosciuto di essere economicamente indipendente;
che non risultava depositato nel giudizio alcuna certificazione fiscale che attestasse
l'attualità dello stato di bisogno, posto che solo nel 2016 era documentato che non avesse prodotto alcun reddito;
che aveva venduto un bene di valore nel 2020;

- che il giudice aveva compiuto un malgoverno delle risultanze istruttorie, posto che: la riconosciuta invalidità al 75% per gravi patologie psichiatriche, unitamente all'età, lo rendevano del tutto inabile all'attività lavorativa;
che, quanto all'accordo di separazione, esso era del 2017 e, quindi, precedente all'introduzione del giudizio;
che, in tale ottica, la decisione di rinunciare al mantenimento in sede separativa non poteva costituire un surrettizio motivo di rigetto dell'assegno alimentare;
che, quanto alla certificazione fiscale, il giudice aveva del tutto ignorato il certificato dell'agenzia delle entrate attestante i redditi (pari a zero) del 2018;
che, al momento dell'introduzione del giudizio, non percepiva alcun reddito di cittadinanza;
che non vi era alcuna prova della vendita del bene di ingente valore;

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tanto premesso, chiedeva che venisse riconosciuto il suo stato di bisogno e, per
l'effetto, che le convenute venissero condannate, in solido, al pagamento di una somma pari ad € 600,00 mensili ovvero alla somma, maggiore o minore, ritenuta di giustizia.
S costituiva la , che resisteva all'appello deducendo che era nulla la CP_1 procura rilasciata al difensore, posto che non v'era alcun riferimento al luogo in cui era stata rilasciata;
in via pregiudiziale, eccepiva l'inammissibilità dell'appello in quanto non erano specificate le parti della sentenza che si intendevano appellare, nè le ragioni di fatto e di diritto a base dell'impugnazione;
nel merito, evidenziava che il aveva venduto, unitamente ai suoi fratelli, un bene per complessivi € Pt_1
130.000,00 in data 31.3.2016, e beneficiava di assegni pensionistici;
che, in sede di divorzio, il giudice aveva rigettato pure la domanda di assegno divorzile.
Tanto premesso, chiedeva il rigetto dell'appello.
Senza lo svolgimento di alcuna attività istruttoria, la causa è stata rinviata all'udienza del 9 luglio per discussione ex art. 350 bis c.p.c., con concessione del termine per il deposito di conclusionali e repliche.
Diritto.
Preliminarmente, va dichiarata la contumacia di e Controparte_2 [...]
figlie dell'attore, ritualmente citate in giudizio e non costituitesi, Controparte_3 già contumaci in primo grado.
Sempre in via preliminare, va disattesa l'eccezione di nullità della procura, posto che la procura è stata rilasciata su supporto cartaceo per proporre appello avverso la sentenza del tribunale di Foggia n. 1015/2023, risulta autenticata dal difensore ed è digitalizzata nel fascicolo informatico, per cui è del tutto equiparata alla procura redatta in calce all'appello stesso;
il testo attualmente vigente dell'art. 83 cod. proc. civ. prevede anche, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009, due diverse possibilità di conferimento della procura: a) la procura redatta su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia;
aa) nonché la procura conferita su supporto cartaceo, che il difensore trasmette in copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica.
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Ne consegue che, secondo la normativa regolamentare sul PCT, la procura (rilasciata su supporto cartaceo e successivamente digitalizzata mediante estrazione di copia informatica autenticata con firma digitale) è considerata apposta in calce, se allegata al messaggio di posta elettronica certificata (PEC) con il quale l'atto è notificato ovvero se inserita nella "busta telematica" con la quale l'atto è depositato, come è avvenuto in concreto.
Ne consegue che il requisito della "congiunzione materiale" è soddisfatto, con
l'inserimento del documento contenente la procura speciale nel messaggio PEC con cui si procede alla notifica dell'atto cui si riferisce ovvero nella busta telematica con la quale si procede al deposito del medesimo atto.
Pertanto, in caso di appello nativo digitale, notificato e depositato in modalità telematica, l'allegazione mediante strumenti informatici - al messaggio di posta elettronica certificata (PEC) con il quale l'atto è notificato ovvero mediante inserimento nella "busta telematica" con la quale l'atto è depositato - di una copia, digitalizzata, della procura alle liti redatta su supporto cartaceo, con sottoscrizione autografa della parte e autenticata con firma digitale dal difensore, integra l'ipotesi, ex art. 83, terzo comma, c.p.c., di procura speciale apposta in calce all'atto, con la conseguenza che la procura stessa è da ritenere valida.
Venendo adesso all'omessa indicazione del luogo in cui essa è rilasciata, va detto che la giurisprudenza citata dall'appellata si riferisce alle ipotesi in cui la procura è conferita in un luogo diverso da quello indicato nell'atto, posto che l'art.
83, comma 3, c.p.c. attribuisce al difensore il potere di certificare l'autografia della sottoscrizione della parte soltanto in relazione alla formazione di uno degli atti in cui si esplica l'attività difensiva, rispetto ai quali, pertanto, è necessario che l'autenticazione da parte del procuratore sia contestuale;
viceversa, non essendo nella specie indicato il luogo in cui è stata redatta, essa deve ritenersi necessariamente collegata all'atto e quindi necessariamente "apposta in calce o a margine" dell'atto di appello, coincidendo con esso.
Ne deriva che l'omessa indicazione della località in cui è stata rilasciata e della data non integra, nel caso di specie, alcuna nullità, essendo la procura apposta in calce all'atto di appello, redatto in Napoli.
Sempre in via pregiudiziale, deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità dell'appello per difetto di specificità.
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Sul punto va chiarito, al fine di evitare di ricadere in pronunce di tipo esclusivamente formalistico, che occorre che il giudice verifichi in concreto il rispetto della norma di cui all'art. 342 c.p.c.
In particolare, secondo quanto impartito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte
(Cass. S.U. n.27199/2017) gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.
Resta tuttavia escluso che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.
Tale orientamento, invero, era stato affermato anche nel previgente regime normativo da numerose pronunce della Suprema Corte che, con diversità di accenti, avevano posto in luce che l'appello è una revisio prioris instantiae e non un novum iudicium, e che la necessità dell'indicazione, da parte dell'appellante, delle argomentazioni da contrapporre a quelle contenute nella sentenza di primo grado serve proprio ad incanalare entro precisi confini il compito del giudice dell'impugnazione, consentendo di comprendere con certezza il contenuto delle censure;
con la conseguenza che la mancanza di specificità conduce all'inammissibilità dell'appello (sentenze 21 gennaio
2004, n. 967).
Tutto questo, però, senza inutili formalismi e senza richiedere all'appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, le sentenze 31 maggio 2006, n.
12984, 18 aprile 2007, n. 9244, 17 dicembre 2010, n. 25588, 23 ottobre 2014, n.
22502, 27 settembre 2016, n. 18932, e 23 febbraio 2017, n. 4695;
tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze delle Sezioni Unite 25 novembre 2008, n.
28057, e 9 novembre 2011, n. 23299;
sentenza 30 luglio 2001, n. 10401).
Sulla scorta dei rilievi che precedono, l'appello deve essere dichiarato ammissibile, risultando rispettato il disposto dell'art.342 c.p.c., dal momento che l'appellante ha indicato chiaramente e specificamente le parti della sentenza che intendeva censurare
e le ragioni per le quali riteneva di non condividere l'assunto del primo Giudice, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che ha confutato e contrastato le ragioni addotte dal primo giudice.
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Venendo adesso al merito dell'appello, esso si è incentrato sul malgoverno delle risultanze istruttorie, posto che il primo Giudice aveva ritenuto che l'invalidità al 75%, determinata da malattia psichiatrica conclamata e da altra grave patologia non escludesse comunque l'abilità al lavoro;
per converso, la gravità della patologia Org_ (documentata da verbale , l'età dell'avente diritto (nato il 1950) e la percezione di un assegno di invalidità di € 313,91 mensili rendevano invece del tutto evidente che il primo Giudice avesse errato nel ritenere sussistente una sia pur minima capacità lavorativa.
A parere del Collegio, il motivo non coglie nel segno.
Sul punto, vale la pena ricordare che l'art. 438 c.c., nello stabilire che
"gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento", impone al giudice di valutare, in ordine all'an di tale corresponsione, gli imprescindibili presupposti sia dello stato di bisogno sia della impossibilità di mantenersi” (cfr. Cass. n. 25248 del 2013;
Cass. n.
21572 del 2006).
In altri termini, il diritto agli alimenti è legato alla prova dello stato di bisogno e dell'impossibilità, da parte dell'alimentando, di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento per la mancanza di mezzi sufficienti al soddisfacimento delle sue necessità primarie (cfr. Cass. n. 25248 del 2013), sicché "deve essere rigettata la domanda di alimenti ove l'alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica, e la impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un'occupazione confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali" (cfr.
Cass. n. 1099 del 1990;
Cass. n. 31071 del 2022;
Cass. n. 28462 del 2021;
Cass. n.
25343 del 2021;
Cass. n. 4226 del 2021;
Cass. n. 395 del 2021;
Cass. n. 27909 del
2020;
Cass. n. 4343 del 2020;
Cass. n. 27686 del 2018).
Nella specie, il primo Giudice dopo aver preso in esame il verbale di invalidità al 75%, si è limitato ad affermare che “non può astrattamente escludersi che il Pt_1 possa in qualche modo reperire una attività produttiva di reddito”, a tanto aggiungendo che era stato lo stesso ricorrente ad allegare nel giudizio di separazione di essere “economicamente indipendente”.
Ne deriva che l'affermazione secondo cui i problemi di salute, se erano tali da ridurne Org_ notevolmente l'attitudine al lavoro (cfr. la certificazione redatta dal verbale con il quale il è stato riconosciuto invalido con riduzione permanente della capacità Pt_1 lavorativa nella misura del 75%) comunque potevano, in astratto, denotare il
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permanere, in capo al richiedente, di una (sia pur limitata) capacità di applicazione nel lavoro, è in line di principio corretta, stante il fatto che il riconoscimento di una invalidità nella misura del 75% non è tale da escludere del tutto, sia pure solo in via parziale, lo svolgimento di attività lavorativa con la quale concorrere, anche se in modo limitato, al proprio sostentamento.
Peraltro, tale affermazione non ha affatto costituito il nucleo centrale della motivazione di rigetto, che si è incentrata piuttosto sulla percezione, da parte del
di un reddito complessivo - costituito dalla pensione di invalidità e dal Pt_1 reddito di cittadinanza - pressochè equivalente a quello della ex moglie, unitamente al fatto che risultava incontestata la circostanza che il avesse venduto (poco Pt_1 prima della introduzione del giudizio) un bene immobile pervenutogli in successione di valore, oltre al fatto che non risultava chiaramente esplicitato se il avesse Pt_1 donato alla ex moglie il 50% della ex casa coniugale (perché la moglie era proprietaria dell'altro 50%), ovvero fosse rimasto comproprietario del restante 50%.
In sede di appello, il ha osservato che, al momento del ricorso ex art. 446 Pt_1
c.c., non percepiva ancora il reddito di cittadinanza, che peraltro risulta essere stato abrogato (cfr. legge 197/22), per cui il giudice aveva errato nel considerare quale reddito del la somma complessiva di € 1.230,00. Pt_1
Ora, reputa la Corte che il rilievo sia del tutto infondato, posto che nulla impediva di considerare, quale circostanze sopravvenuta al ricorso ex art. 446 c.c., la percezione del reddito di cittadinanza da parte del facendo corretta applicazione del Pt_1 principio giurisprudenziale (v. Cass. 40882/2021) secondo cui l'accertamento dell'impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari “non può prescindere dalla verifica dell'accessibilità dell'alimentando a forme di provvidenza che consentano di elidere, ancorché temporaneamente, lo stato di bisogno (sì pensi, oggi, al reddito di cittadinanza di cui al D.L. n. 4 del 2019, convertito dalla L. n. 26 del 2019)”.
Difatti, nella partita del diritto agli alimenti, la colpevole mancata fruizione di tali apporti gioca lo stesso ruolo dell'imputabile mancanza di un reddito di lavoro;
nell'uno
e nell'altro caso, si delinea l'insussistenza di quell'impedimento oggettivo ad ovviare al lamentato stato di bisogno che è condizione per l'insorgenza del diritto in questione
(cfr. sempre cit. sentenza).
Ora, la percezione del reddito di cittadinanza (che il non ha comprovato Pt_1 essergli stato revocato) e della pensione di invalido civile al 75%, per un totale di circa
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€ 1.300,00, elidono completamente il lamentato stato di bisogno, che va inteso come incapacità della persona di provvedere alle fondamentali esigenze di vita ed esprime, dunque, l'impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l'abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell'alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (v. Cass. 8 novembre 2013, n. 25248).
Peraltro, parte appellata ha altresì dedotto – senza che tale circostanza sia stata adeguatamente contrastata, né in primo né in secondo grado - che in data 31.3.2016 il aveva alienato, per atto notarile, unitamente ai germani, un cespite Pt_1 pervenuto per via ereditaria, per un totale di € 136.000,00.
A fronte di tale allegazione, competeva all'attore dimostrare l'infondatezza dell'assunto ovvero il mancato incameramento di qualsivoglia somma da tale alienazione.
A tanto, però, l'appellante non ha minimamente adempiuto.
Anche sotto profilo, pertanto il motivo di appello (secondo cui “… trattasi di circostanza solo dedotta da controparte e non provata nonostante i registri immobiliari siano pubblici e facilmente documentabili”) è inconsistente.
Quanto al fatto che il primo giudice non ha correttamente valutato la circostanza che Pa l'attore vive presso un'opera ed è costretto a pagare una retta mensile di circa €
360,00, pur non trattandosi di una circostanza esaminata in primo grado, va detto che trattasi di argomentazione che, semmai, corrobora la tesi che il possa Pt_1 mantenersi autonomamente, dato che non risultano protesti o inadempimenti rispetto al pagamento della retta mensile, per cui anche sotto profilo, non è stato dimostrato che, al momento della decisione, il non fosse capace a provvedere in tutto o Pt_1 in parte al proprio sostentamento.
Ad ulteriore riprova dell'assenza dello stato di bisogno, vi è poi il provvedimento
Presidenziale concernente il rigetto della domanda di assegno divorzile da parte del
motivato sul presupposto che “non vi era alcuna sperequazione tra i redditi Pt_1 delle parti”.
Ne consegue che anche tale circostanza depone nella direzione della insussistenza dello stato di bisogno, posto che l'assegno alimentare costituisce un "minus", ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge, rispetto al quale il tribunale avrebbe pur dovuto valutare
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le prospettate condizioni di indigenza rilevanti ai fini della sussistenza quantomeno del diritto a ricevere gli alimenti (essendo il primo fra gli obbligati a prestarli il coniuge, anche se legalmente separato come nel caso in esame).
Infine, pur avendo il depositato i modelli di dichiarazione dei redditi (730) Pt_1 della , nulla è stato depositato circa i propri redditi, ma solamente una CP_1 certificazione rilasciata dall' in cui si certifica che, pur non Organizzazione_2 risultando redditi nel 2018, i termini per la presentazione della dichiarazione dei redditi del 2018 non erano ancora scaduti, sicchè nulla esclude che il non Pt_1 avesse ancora presentato la dichiarazione dei redditi per il 2018.
In conclusione, l'appello è da rigettare in quanto infondato, e la sentenza va integralmente confermata.
Le spese seguono la soccombenza, nella misura liquidata nel dispositivo.
Deve darsi atto, infine, ai sensi dell'art. 13 co. 1-quater Tusg, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell'appellante, dell'ulteriore importo dovuto a titolo di contributo unificato a norma dei co. 1 e 1-bis dello stesso art. 13.
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