Corte d'Appello Roma, sentenza 13/06/2024, n. 2225

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Sul provvedimento

Citazione :
Corte d'Appello Roma, sentenza 13/06/2024, n. 2225
Giurisdizione : Corte d'Appello Roma
Numero : 2225
Data del deposito : 13 giugno 2024

Testo completo


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI ROMA IV Sezione Lavoro La Corte composta dai signori Magistrati:
dott. A N Presidente dott.ssa G P Consigliere dott.ssa A L Consigliere rel.
il giorno 4.6.2024 ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
nella causa civile in grado di appello n. 3698/2021 Registro Generale Lavoro, vertente
TRA

in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa, anche Parte_1
disgiuntamente, dagli avv. A M, E M, R R, F R
B, come da procura in atti appellante

E

, , Controparte_1 Controparte_2 Controparte_3 CP_4
, , rappresentati e difesi, anche disgiuntamente, dagli avv.
[...] Controparte_5
S P e F T, come da procura in atti appellati
E


CP_6
appellato contumace

Oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 5808/2021 pubblicata il
14.6.2021
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1
Con ricorso depositato in data 4.3.2020, gli odierni appellati agivano in giudizio lamentando
l'inadempimento della società alla sentenza n. 5163/2015 del 16.6.2015, con Parte_1
cui la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva respinto il ricorso), aveva dichiarato la nullità, a decorrere dall'1.5.2010, della cessione di ramo di azienda
(denominato e del loro contratto di lavoro effettuata della alla società Org_1 Pt_1 [...]
Org_ ( dichiarando la giuridica prosecuzione del loro rapporto di lavoro, Organizzazione_3 con ordine, per l'effetto, a di riammetterli in servizio. Parte_1
Allegavano, in particolare, che, nonostante le richieste di immediato ripristino del rapporto di lavoro con offerta delle proprie prestazioni lavorative, la aveva provveduto a reintegrarli nel Pt_1
posto di lavoro solo in data 1.1.2017, prestando, pertanto, servizio presso la società (già Org_4
. Org_2
Concludevano chiedendo di : " riconoscere il diritto dei ricorrenti a percepire da la Parte_1 retribuzione nel periodo in cui, nonostante quanto statuito dalla Corte d'Appello di Roma, non sono stati reintegrati nel posto di lavoro (1 agosto 2015/ 31 dicembre 2016) e condannare
[...]
al pagamento delle seguenti somme in favore di: 1) Parte_1 Controparte_1
complessivamente euro 65.484,46 2) complessivamente euro 54.936,91 Controparte_2
3) complessivamente euro50.950,07 4) complessivamente Controparte_3 CP_4
euro 46.446,09 5) complessivamente euro 53.565,61 6) CP_6 Controparte_5
complessivamente euro 48.323,46. Oltre rivalutazione ed interessi dalla maturazione del diritto al saldo. Con vittoria delle spese".
Si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso in quanto infondato in Parte_1
fatto e in diritto.
Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Roma accoglieva il ricorso e condannava al pagamento delle seguenti somme relative al periodo 1.8.2015-31.12.2016: Parte_1
€ 65.484,46, € 54.936,91, € 50.950,07, Controparte_1 Controparte_2 Controparte_3 CP_4
€ 46.446,09, € 53.565,61, € 48.323,46, oltre interessi
[...] CP_6 Controparte_5
legali e rivalutazione monetaria come per legge;
condannava al pagamento Parte_1
delle spese di lite.
Accertata, alla stregua dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, la natura retributiva dei crediti oggetto di rivendicazione, in quanto riferiti ad un periodo successivo alla pronuncia giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro e alla messa in mora da parte dei lavoratori, affermava
l'impossibilità per l'odierna appellante di opporre utilmente in compensazione le somme erogate ai lavoratori dalla società cessionaria.
2
Quantificava le somme dovute sulla base dei conteggi allegati al ricorso, in quanto privi di errori contabili e contestati in maniera del tutto generica dalla società.
Avverso tale sentenza la ha proposto tempestivo appello affidato a quattro Parte_1
motivi.
Con un primo motivo, citando giurisprudenza di merito (in particolare la sentenza dalla Corte di
Appello di Trento n. 59/2020), ha contestato i principi giurisprudenziali posti dal giudice di prime cure a fondamento della propria decisione in ordine alla permanenza dell'obbligo retributivo in capo al cedente ove il lavoratore abbia continuato a prestare la propria attività in favore del cessionario.
Con il secondo motivo ha contestato, altresì, l'erroneità della sentenza gravata nella parte in cui non avrebbe colto le molteplici differenze tra la vicenda oggetto della presente controversia e le cessioni dei rami d'azienda analizzati dalla giurisprudenza della S.C., atteso che i lavoratori de quibus avevano continuato a lavorare, anche successivamente alla cessione di azienda dell'1.5.2010, alle medesime condizioni, all'interno del gruppo . Pt_1
Con il terzo motivo, l'appellante ha censurato la gravata sentenza nella parte in cui ha omesso di motivare in ordine alla rilevanza del contratto di appalto stipulato tra la cedente e la Parte_1
Org cessionaria (poi e all'applicazione dell'art. 27, comma 2, D.lgs. 276/2013 (oggi Org_4
art. 38, comma 3, D.lgs. 81/2015).
Ha evidenziato, in particolare, come la cessione di ramo di azienda dichiarata nulla facesse parte di una operazione più vasta che comprendeva anche la stipula di un contratto di appalto tra e Pt_1
Org_
e come dalla stessa sentenza della Corte di Appello fosse emerso come l'attività svolta dai dipendenti della suddetta società cessionaria non fosse altro che un mero segmento del ciclo del software di e che si svolgeva sotto il controllo dei settori rimasti presso la cedente. Parte_1
Quest'ultima doveva, pertanto, essere considerata l'unico soggetto che aveva effettivamente utilizzato le prestazioni dei lavoratori, tenuta in quanto tale, nel caso di accoglimento della domanda degli appellati, a retribuire per due volte gli stessi lavoratori (una prima volta per la prestazione di lavoro da essi effettuata in favore, formalmente, della cessionaria e una seconda volta per effetto della condanna giudiziale) a fronte di un'unica prestazione lavorativa.
Ha affermato l'applicabilità al caso di specie dell'efficacia liberatoria prevista, per i pagamenti effettuati dal formale titolare del rapporto di lavoro, dall'art. 27, comma 2, D.lgs. 276/2003 (oggi art. 38, comma 3, D.lgs. 81/2015), nel caso di appalto illegittimo ex art. 29, comma 1, D.lgs.
276/2003, illegittimità che l'appellante sostiene evincersi, con riferimento al contratto stipulato con Org la cessionaria , dallo stesso tenore della sentenza n. 2933/2015.
3
Con il quarto motivo, l'appellante ha contestato l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha omesso di motivare in ordine alla inidoneità della intimazione formulata dai lavoratori a metterla in mora e, in ogni caso, a determinare il diritto dei lavoratori alla controprestazione retributiva, evidenziando, a tale proposito, come al momento della effettuazione della offerta delle proprie prestazioni lavorative gli appellati stessero lavorando presso il soggetto cessionario venendo retribuiti in misura non inferiore agli emolumenti che avrebbe dovuto erogare . Pt_1
Si sono costituiti in giudizio , Controparte_1 Controparte_2 Controparte_3 CP_4
resistendo al gravame e chiedendone il rigetto. Controparte_5
Nonostante la regolarità della notifica, è rimasto contumace. CP_6
All'udienza del 4.6.2024, all'esito della camera di consiglio, la causa è stata decisa come da separato dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I motivi di appello possono essere analizzati congiuntamente, in quanto tra loro connessi poiché finalizzati a contestare la gravata sentenza, sotto diversi profili, nella parte in cui, in ragione della natura retributiva dei crediti oggetto della domanda, ha ritenuto l'irrilevanza, ai fini della determinazione delle somme dovute ai lavoratori, delle retribuzioni da questi ultimi percepite dalla cessionaria nel periodo oggetto di causa (1.8.2015 – 31.12.2016).
Le suddette doglianze sono infondate, come ha già avuto modo di ritenere questa Corte con la sentenza n. 1960/2022 (passata in giudicato, avendo la Corte di Cassazione, con ordinanza n.
30021/2023, dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360 bis, n. 1,
c.p.c.), nonché con le sentenze n. 4665/2022, n. 106/2023, n. 1407/2023.
In punto di fatto, è incontestato tra le parti: 1) che gli originari ricorrenti sono stati dipendenti della società appellante fino 30.4.2010, allorquando, per effetto di un'operazione di trasferimento di ramo
d'azienda ex art. 2112 c.c., sono passati alle dipendenze della , Controparte_7
denominata, poi, con decorrenza 1.5.2010;
2) che Controparte_8
la Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 5163 del 16.6.2015 - riformando la sentenza del
Tribunale di Roma n. 16385 dell'11.10.2012 - ha dichiarato la nullità della cessione del contratto dei lavoratori, con prosecuzione giuridica del rapporto di lavoro di questi ultimi alle dipendenze di
3) che, nonostante la richiesta di reintegrazione formulata dagli odierni Parte_1
appellati, la società appellante non ha ripristinato il loro rapporto di lavoro;
4) che gli stessi lavoratori, per effetto dell'incorporazione, da parte di , della società cessionaria Parte_1 con decorrenza dall'1.1.2017, sono nuovamente transitati presso l'odierna appellante (tanto che il
Supremo Collegio, con sentenza n. 32590 del 17.12.2018, ha dichiarato inammissibile il ricorso per
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cassazione avanzato dalla società per sopravvenuto difetto di interesse ad agire dei lavoratori, ferme per il resto le statuizioni del giudice distrettuale).
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha evidenziato che la declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato comporta, nell'ipotesi in cui, per fatto imputabile al datore di lavoro, non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora, decorrente dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost. (v. Cass. S.U. n.
2990/2018;
v. anche Cass. n. 21947/2018 in materia di invalidità del termine apposto al contratto di lavoro).
Successivamente, la Corte Costituzionale (v. sentenza n. 29/2019), nel pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'Appello di Roma - la quale dubitava della legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il
4/11/1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4/8/1955, n. 848, e censurava le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che limitassero la tutela del lavoratore ceduto al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che avesse accertato l'illegittimità o l'inefficacia del trasferimento del ramo di azienda - ha evidenziato che sul tema del decidere, così definito, incideva la sentenza 7/2/2018, n. 2990, pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite sopra citata;
le
Sezioni Unite avevano preso le mosse proprio dall'orientamento che si era dapprima formato in tema di conseguenze della nullità del trasferimento d'azienda, per essere successivamente esteso alla fattispecie dell'interposizione illecita di manodopera;
le Sezioni Unite avevano puntualizzato che la qualificazione risarcitoria dell'obbligazione del cedente, tanto consolidata da avere indotto la Corte
d'Appello di Roma a sollevare questioni di legittimità costituzionale della normativa così intesa, si fondava sul principio di corrispettività che permea di sé il contratto di lavoro;
alla stregua di tale principio, al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal contratto, il diritto alla retribuzione sorgeva soltanto quando la prestazione lavorativa fosse stata effettivamente resa, laddove, in caso contrario, sussisteva, in capo al datore di lavoro, soltanto un obbligo di risarcire il danno;
secondo le Sezioni Unite, una prospettiva costituzionalmente orientata imponeva di rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di
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ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta;
il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria avrebbe diminuito, difatti, l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento apprestava per il lavoratore;
sul datore di lavoro che persistesse nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continuava dunque a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione;
nella ricostruzione delle
Sezioni Unite, la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascriveva all'area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configurava in termini derogatori e peculiari;
acquistavano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303/2011 della
Corte Costituzionale, relative alle conseguenze dell'illegittima apposizione del termine (art. 32 della legge 4/11/2010, n. 183);
come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rilevava il vizio della pattuizione del termine e instaurava un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro era tenuto a corrispondere al lavoratore, “in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva” (sentenza n. 303/2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto);
da tali princìpi le Sezioni Unite evincevano, in questa prospettiva, un ruolo primario dell'accertamento del giudice, che ristabiliva la lex contractus, accertamento che non poteva essere sminuito nella sua forza cogente dal protrarsi dell'inosservanza;
al profilo processuale faceva riscontro, sul versante sostanziale, la particolare pregnanza dei diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro;
tali diritti non si esaurivano nel rimedio risarcitorio, ma includevano anche il diritto alla controprestazione, in consonanza con i princìpi generali del diritto delle obbligazioni, che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguivano anche in quest'ambito un'essenziale funzione di tutela;
l'indirizzo interpretativo, indicato come diritto vivente allorché erano state proposte le questioni di legittimità costituzionale, risultava disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni Unite, successiva all'ordinanza di rimessione;
tale pronuncia mirava a ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro e consentiva di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati.
I giudici della Consulta ne hanno pertanto desunto, come diritto vivente, la qualificazione retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro moroso, dichiarando non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206,
1207 e 1217 c.c., sollevate dalla Corte d'Appello di Roma, Sezione lavoro, in riferimento agli artt.
3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4/111950, ratificata e resa esecutiva con legge 4/11/1955, n. 848.
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La Corte di Cassazione ha, quindi, ulteriormente confermato che, in tema di cessione di ramo
d'azienda, ove ne venga accertata l'illegittimità, permane in capo al datore cedente, che, nonostante
l'offerta della prestazione, non abbia ottemperato al comando giudiziale di ripristino del rapporto lavorativo, giuridicamente rimasto in vita, l'obbligo di pagamento delle retribuzioni;
sancita la natura retributiva e non risarcitoria delle somme da erogarsi ai lavoratori da parte del cedente inadempiente, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno, su cui si fonda la detraibilità di quanto altrimenti percepito (in applicazione del suddetto principio, la
Suprema Corte ha escluso la detraibilità dalle poste retributive dell'indennità di mobilità: v. Cass. n.
2160/2019;
v. anche Cass. n. 21158/2019, ed altre).
Accertata la nullità della cessione, il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto, laddove sussiste un solo rapporto giuridico ancora in essere, e cioè quello con il cedente (sebbene quiescente di fatto per effetto dell'illegittima cessione fino alla declaratoria di nullità della stessa).
In sintesi, il trasferimento del rapporto si determina quando si perfeziona la fattispecie traslativa legale e, conseguentemente, nel caso di nullità della cessione legale (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 c.c.) e di non configurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), è preclusa la sussistenza della vicenda traslativa, con ripristino del rapporto di lavoro originario tra cedente e lavoratore (v.
Cass. n. 5998/2019).
Alla qualificazione retributiva dell'obbligazione del datore di lavoro moroso, in caso di pronuncia di invalidità di trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda - qualificazione che va operata dal giudice sulla base delle allegazioni delle parti - consegue, dunque, che nulla può essere detratto a titolo di aliunde perceptum o di aliunde percipiendum, ivi compresi gli ammortizzatori sociali percepiti in costanza di rapporto di lavoro con il cessionario (v. Cass. n. 26760/2019).
E', altresì, da escludere che la prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo precluda l'offerta di prestazione all'originario datore (v. Cass. n. 9747/2019), atteso che, una volta che l'impresa cedente, costituita in mora, rimuovesse l'ostacolo all'espletamento della prestazione lavorativa in suo favore, rendendola quindi possibile mediante la manifestazione della volontà di accettarla, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa (v. Cass. n. 21160/2019), essendo venuta meno l'impossibilità - unica rilevante nella specie - cagionata dal comportamento del datore di lavoro cedente.
Acclarato che, dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d'azienda, in uno alla messa in mora operata dal lavoratore, vi è l'obbligo dell'impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che
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consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell'impresa originaria destinataria della cessione.
L'esistenza di un debito proprio, generato dall'obbligo di retribuire le prestazioni del lavoratore ceduto di cui ha concretamente fruito, esclude in radice la possibilità di configurare un adempimento in qualità di terzo da parte del destinatario dell'originaria cessione;
in relazione all'adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., infatti, si è ritenuto che deve mancare nello schema causale tipico la controprestazione in favore di chi adempie, pagando il terzo per definizione un debito non proprio e non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione patrimoniale a suo favore (v. Cass. S.U. n. 6538/2010;
Cass. n. 4454/2016;
Cass. n. 23439/2017), mentre nella specie il non più cessionario compensa un'attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell'impresa di cui
è titolare (v. Cass. n. 16760/2019).
Parimenti, non sono applicabili le disposizioni contenute nel D.lgs. n. 276/2003, laddove all'art. 27, il comma 2 - previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall'art. 29, comma 3-bis, in tema di appalto illecito - stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.
Il meccanismo che consente l'incidenza liberatoria degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o dall'appaltatore è stato richiamato da Cass. S.U. n. 2990/2018 limitatamente ai
“pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione” (v.
Cass. n. 27976/2018);
il testo della disposizione, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell'appalto, non ne consente l'applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d'azienda.
Peraltro, la sentenza n. 5163/2015 della Corte d'Appello di Roma - con la quale, in riforma della sentenza impugnata, si è dichiarata la nullità della cessione del contratto di lavoro dei lavoratori con decorrenza 1/5/2010, con la giuridica prosecuzione dei rapporti di lavoro degli stessi alle dipendenze di - non verteva in alcun modo sull'appalto, bensì esclusivamente Parte_1 sulla cessione suddetta (pag. 3: “i motivi di gravame … attengono all'interpretazione ed applicazione della disciplina dettata dall'art. 2112 c.c. ed alla riconducibilità della vicenda in esame al trasferimento del ramo di azienda …”).
Né si è ivi ritenuto che l'appartenenza al medesimo gruppo delle imprese coinvolte facesse venire meno la loro distinta soggettività giuridica e, quindi, il presupposto del trasferimento di ramo
d'azienda;
trasferimento che era oggetto della decisione;
in particolare, la mancanza di autonomia
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funzionale è riferita in sentenza al ramo d'azienda ceduto (rectius, alla struttura aziendale) e non alla società cessionaria.
La soluzione della questione devoluta è l'inevitabile approdo di un coerente percorso logico- giuridico di effettività del dictum giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge
(art. 101, comma 2, Cost.), che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare o affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell'inosservanza senza reali conseguenze.
Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, né tanto meno veicolare strumenti di coercizione indiretta - neppure applicandosi, per espressa previsione, alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolati dall'art. 409 c.p.c., l'art. 614-bis c.p.c., come novellato dall'art. 13 del decreto-legge n. 83/2015, convertito con modificazioni dalla legge n. 132/2015, che ne ha mutato la rubrica originaria con quella di “Misure di coercizione indiretta”, ampliandone l'àmbito applicativo, ricomprendendovi, oltre agli obblighi di fare infungibile, anche gli obblighi di fare, non fare e di dare, diversi dal pagamento di somme di denaro - finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte di un esercizio improprio delle prerogative datoriali.
A tali considerazioni giuridiche - e ad ulteriore confutazione degli assunti difensivi della società, ad avviso della quale, per un verso, i lavoratori de quibus avrebbero sempre lavorato nell'àmbito del gruppo , e, per altro verso, si registrerebbe un appalto fittizio con la sempre al Pt_1 Org_2
fine di sostenere la compensazione con le retribuzioni percepite dagli stessi lavoratori attraverso la cessionaria - si aggiungono sul versante fattuale, rispettivamente, le seguenti precisazioni. Org In primo luogo, aveva ceduto, nel 2010, i lavoratori alla , ossia a una Società Parte_1
estranea al gruppo , tanto che questa cessione è stata dichiarata illegittima;
solo Pt_1 successivamente ha “acquistato” SSC, mutandone la denominazione in e, dal gennaio 2017, Org_4
ha incorporato tale Società, ormai facente parte del gruppo ;
ne consegue che gli stessi Pt_1
Org lavoratori sono rientrati in un'azienda a partecipazione dopo anni dalla cessione alla e Pt_1 dopo che il contenzioso sull'illegittimità della stessa era ancora in corso: invero, i lavoratori non sono stati reintegrati in in esecuzione dell'ordine della Corte territoriale capitolina emesso Pt_1
nel luglio 2015, ma due anni dopo e solo perché le vicende societarie di hanno fatto sì che Pt_1
la cessionaria venisse incorporata dalla cedente.
Org In secondo luogo, i lavoratori erano stati ceduti alla , la quale ha sempre dedotto di avere una propria organizzazione e di operare in piena autonomia rispetto alla cedente;
gli originari ricorrenti non avevano, quindi, impugnato la legittimità dell'appalto, bensì la mancanza di una “identità” del
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ramo d'azienda ceduto ai sensi dell'art. 2112 c.c. (trattandosi di cessione di contratto individuale che avrebbe necessitato del loro assenso);
in ordine alla legittimità dell'appalto, non si era mai sviluppato tra i contendenti alcun contraddittorio, né vi erano state pronunce: si rivela, pertanto, tardivo l'aspetto qui introdotto, relativo alla costituzione del rapporto di lavoro con l'appaltatore perché fittiziamente costituito con l'appaltante, poiché il punto nodale della presente controversia concerne solo l'illegittima cessione del ramo e le conseguenze in capo alla cedente Org_1
inottemperante alla statuizione giudiziale di reintegrazione.
Ne deriva la correttezza della declaratoria del diritto dei lavoratori alla retribuzione per il periodo in esame, stante l'intervento, nel luglio 2015, della costituzione in mora (all. n. 4 fascicolo di primo grado di parte ricorrente), la cui sussistenza non è stata specificamente contestata in comparsa di risposta, essendosi ivi argomentato soltanto in ordine alla sua valenza giuridica, mentre, in questa sede, non si rinvengono specifiche censure sulla quantificazione delle somme dovute, i cui conteggi sono stati elaborati sulla base della retribuzione lorda riportata, per ciascun ricorrente, nelle rispettive buste paga (all. da n. 8 a n. 14 fascicolo di primo grado di parte ricorrente).
2. Per quanto fin qui esposto, l'appello non merita accoglimento, con conseguente conferma della gravata sentenza (in linea con tale soluzione, v., da ultimo, tra le altre, Cass. n. 6653/2023;
n.
6668/2023;
n. 6670/2023).
3. Le spese di lite del grado seguono la soccombenza e vengono liquidate, in favore degli appellati costituiti, come in dispositivo, in relazione ai parametri indicati dalle vigenti tariffe forensi nonché in considerazione del valore della causa e dell'attività processuale svolta.
Nulla sulle spese di lite nei confronti di rimasto contumace. CP_6
Deve, infine, darsi atto della sussistenza in capo alla società appellante delle condizioni oggettive, richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento dell'ulteriore importo del contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso.
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