Corte d'Appello Messina, sentenza 06/06/2024, n. 8

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Sul provvedimento

Citazione :
Corte d'Appello Messina, sentenza 06/06/2024, n. 8
Giurisdizione : Corte d'Appello Messina
Numero : 8
Data del deposito : 6 giugno 2024

Testo completo

CORTE DI APPELLO DI MESSINA
Prima Sezione Civile
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME del POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Messina, prima sezione civile, composta dai signori magistrati:


1. dr.ssa M P L Presidente


2. dr. A S Consigliere


3. dr.ssa A A Consigliere relatore ha pronunciato la seguente
SENTENZA nella causa civile in secondo grado iscritta al n. 1579/2022 R. V. G., vertente tra
nato a Messina il 25 settembre 1986, c. f.: , quale Parte_1 CodiceFiscale_1 figlio ed erede legittimo di (nata a Messina l'8 maggio 1963, ivi deceduta il 12 Persona_1
settembre 2020), elettivamente domiciliato in Messina, via Oratorio S. Francesco n. 4, presso lo studio dell'avv. C S (con PEC indicata), che lo rappresenta e difende per procura con atto cartaceo separato, trasmessa ex art. 83 c. p. c., ammesso al patrocinio a spese dello Stato con delibera del C. O. A. di Messina del 16 febbraio 2022 su istanza del 7 febbraio 2022,
RICORRENTE contro
nato a Messina il 31 luglio 1953, c. f.: Controparte_1 CodiceFiscale_2
elettivamente domiciliato in Messina, via Lenzi n. 5, presso lo studio dell'avv. G Z (con
PEC indicata), che lo rappresenta e difende per procura in calce alla memoria di costituzione nel presente grado,
RESISTENTE
e nei confronti di
nato a Messina il 18 settembre 1990, c. f.: , quale Controparte_2 CodiceFiscale_3
erede legittimo di (nata a Messina l'8 maggio 1963 e ivi deceduta il 12 settembre Persona_1
2020), elettivamente domiciliato in Messina, via S. Domenico Savio is. 255/b, presso lo studio dell'avv. Gianluca Currò (con PEC indicata) che lo rappresenta e difende per procura rilasciata con atto cartaceo separato e trasmessa ex art. 83 c. p. c.,
1
CHIAMATO per integrazione contraddittorio
e con l'intervento del Pubblico Ministero - Sede, in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. f.
Lima,
________________
Oggetto: Impugnazione della sentenza emessa dal Tribunale di Messina – prima sezione civile il 4 gennaio 2022 nel proc. n. 811/2021 R. V. G. in materia di attribuzione al coniuge divorziato di quota di indennità di fine rapporto lavorativo.
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CONCLUSIONI delle PARTI
Per il ricorrente n. q.: “Si insiste (…) in tutte le domande difese ed eccezioni formulate nell'atto di impugnazione”.
Per il resistente: “Si insiste (…) per il rigetto del ricorso in appello e per la condanna del ricorrente
a spese e compensi di lite da corrispondersi in distrazione in favore del sottoscritto procuratore che dichiara di avere anticipato le prime e non riscosso i secondi.
Per l'interveniente: “si riporta alla memoria di conclusione ed insiste”.
SVOLGIMENTO del PROCESSO
Con ricorso depositato il 19 marzo 2022 nella qualità di figlio ed erede Parte_1 legittimo di (deceduta il 12 settembre 2020) - la cui domanda diretta ad ottenere Persona_1
l'attribuzione di una quota del trattamento di fine rapporto quale diritto maturato in capo alla defunta madre , ex coniuge di trasmesso agli eredi, è stata rigettata Persona_1 Controparte_1 dal Tribunale di Messina con la sentenza indicata in oggetto per le ragioni di cui si dirà - ha proposto
“reclamo” avverso detta decisione, contestandola per i motivi che appresso si esporranno, ed ha chiesto che, in riforma della stessa, fosse ritenuto e dichiarato il diritto della a ottenere il 40% Per_1 dell'indennità di fine rapporto e di ogni altro emolumento accessorio liquidati dall' al CP_3 coniuge divorziato riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso Controparte_1 con il matrimonio (dal 23 giugno 1984 fino al 4 febbraio 2019), per un credito quantificato in €
13.572,76, con conseguente declaratoria del suo trasferimento per successione mortis causa, in parti uguali, agli unici eredi legittimi della donna, e , e con Parte_1 Controparte_2 condanna di al pagamento, in favore dell'istante, della somma di € 6.786,38, Controparte_4 quale erede legittimo dell'avente diritto, e della rimanente metà in favore dell'altro erede
. Controparte_2
Con vittoria di spese e compensi di causa.
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Disposta l'instaurazione del contraddittorio, si è costituito con memoria Controparte_1 depositata il 2 maggio 2022 resistendo all'avversa impugnazione, di cui ha contestato i motivi, e chiedendone il rigetto e la condanna di controparte al pagamento di spese e compensi di difesa da distrarre in favore del difensore dichiaratosi anticipatario.
Dopo un rinvio interlocutorio per acquisire il parere del P G., con ordinanza del 3 marzo 2023 è stata disposta la regolarizzazione del contraddittorio nei confronti di , già intervenuto Controparte_2 in primo grado, il quale, a seguito della disposta notifica del ricorso introduttivo, si è costituito con comparsa depositata il 6 giugno 2023 chiedendo che, in caso di accoglimento del gravame proposto da n. q., gli effetti della decisione fossero estesi anche a lui, quale erede Parte_1 legittimo di . Persona_1
Il P. G. ha apposto il visto.
All'udienza dell'11 dicembre 2023, svoltasi in modalità cartolare ai sensi dell'art. 127 ter c. p. c., dopo un rinvio dovuto al carico di ruolo, stanti le note di trattazione scritta depositate dalle parti, la
Corte ha assunto la causa in decisione.
MOTIVI della DECISIONE
Preliminarmente va evidenziato che il provvedimento conclusivo del procedimento instaurato in primo grado da nella qualità di erede di , con ricorso Parte_1 Persona_1 depositato il 20 marzo 2021, ha assunto la forma di sentenza, non incompatibile con il rito camerale, ma anzi ad esso conforme in subiecta materia analogamente a quanto espressamente prevede l'art. 9, ultimo comma, della stessa legge n. 898/1970 (e s. m. i.) per la quota della pensione di reversibilità, rispetto alla quale la fattispecie in esame presenta evidentemente molteplici aspetti di somiglianza, mutatis mutandis (cfr. Cass. Civ. n. 30200/2011).
Tale è, perciò, doverosamente anche la forma della presente decisione sull'impugnazione proposta dal , nella qualità di erede di , che, per vero, avrebbe dovuto essere Parte_1 Persona_2 introdotta con appello, dato (tra l'altro) il principio di diritto vivente cd. dell'apparenza secondo il quale le parti devono orientare la scelta circa le modalità attraverso le quali impugnare la decisione sfavorevole sulla base della forma in concreto adottata dalla decisione, avuto riguardo alle regole che sono state seguite nella conduzione e decisione della controversia (tra le tante v. Cass. Civ. nn.
6892/2024, 20791/2022, 26083/2021).
L'inosservanza del suddetto principio da parte dell'impugnante – che ha interposto il presente gravame mediante “reclamo ex art. 739 c. p. c.” (così testualmente l'intestazione del ricorso) - non ne ha determinato comunque, in sé, l'inammissibilità in quanto quest'ultima, siccome sanzione tipica, non può essere applicata fuori dei casi espressamente previsti, dovendo il giudice verificare in concreto se, per effetto di un simile errore “in procedendo”, l'impugnazione sia (o meno) tardiva e/o
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priva dei requisiti funzionali di attivazione di una qualunque forma di contraddittorio, potendo ogni altra nullità essere sanata dal raggiungimento dello scopo (ex multis v. Cass. Civ. nn. 4217/2014;

In virtù di tale principio, l'irritualità dell'impugnazione (proposta nella specie con ricorso per
“reclamo”) non ne ha determinato alcuna tardività, dal momento che l'appello avrebbe dovuto essere proposto, comunque, mediante ricorso (trattandosi di impugnazione da trattare con rito camerale come per il procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio e simili) e considerato che
l'atto di “reclamo” è stato depositato in cancelleria il 19 marzo 2022, evidentemente ben entro il termine cd. lungo di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata – avvenuta il 4 gennaio
2022 -, la quale non risulta notificata ai sensi dell'art. 285 c. p. c., cosicché trova applicazione il disposto dell'art. 327 c. p. c., valevole pacificamente anche per le sentenze in materia di separazione
e/o divorzio (e simili), così come l'art. 325 c. p. c. (si vedano Cass. Civ. nn. 403/2019;
21161/2011
).
Non rileva in senso contrario il nomen iuris (“reclamo”) usato dalla parte ricorrente dato che l'atto contiene all'evidenza una precisa esposizione dei motivi di critica avverso la decisione impugnata e tutti i requisiti contenutistici e funzionali alla corretta instaurazione del contraddittorio, tale da potersi convertire agevolmente, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c. p. c., in un valido ed efficace atto di appello, di cui possiede, come detto, tutti gli elementi di sostanza oltre che di forma (al di là del nome usato dalla parte impugnante), avendo raggiunto concretamente lo scopo cui è stato destinato, né essendo derivato (da detta irregolarità) alcun pregiudizio per ciascuna delle parti, relativamente al rispetto del contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, a quanto possa avere impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nell'appello.
Tanto premesso e venendo al merito del gravame, con un unico motivo variamente articolato
quale erede di , critica la decisione di prime cure per avere Parte_1 Persona_1 il Tribunale indebitamente scisso il momento della maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto da quello in cui il titolare ha incassato le somme dovute in forza della contribuzione previdenziale accumulatasi nel corso della sua vita lavorativa, conferendo poi a quest'ultimo rilevanza decisiva.
Evidenzia a sostegno della censura che, nell'evoluzione normativa dell'istituto, anche le indennità di fine rapporto del settore pubblico sono state ricondotte al paradigma della retribuzione differita con la funzione precipua di accompagnare il lavoratore, sia esso pubblico o privato, nella fase di cessazione della vita lavorativa attiva, rappresentando perciò, in questa prospettiva, il frutto dell'attività lavorativa prestata facente parte integrante del patrimonio del beneficiario.
Deduce quindi l'importanza che assume, in siffatta prospettiva, l'individuazione del momento in cui il diritto al trattamento di fine rapporto sorge e si consolida, evidenziando che, se nel settore privato
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la disposizione di cui all'art. 2120 c. c. prevede chiaramente che esso viene ad esistenza nel momento in cui il rapporto lavorativo cessa per qualunque causa, ad analoga conclusione dovrebbe giungersi con riguardo ai rapporti di pubblico impiego.
Nel settore pubblico – aggiunge - la normativa rinvia però nel tempo l'esigibilità dell'emolumento, seppure il relativo diritto insorga comunque al momento della cessazione del rapporto, regime che, sottoposto al vaglio del Giudice delle leggi, è stato ritenuto pienamente legittimo con
l'argomentazione che l'oggettiva lesione del diritto del lavoratore pubblico ad ottenere il pagamento tempestivo delle indennità di fine rapporto risponde ad esigenze, altrettanto meritevoli di tutela, legate al contingentamento ed alla programmazione della spesa pubblica in relazione agli impegni finanziari dello Stato derivanti dalla gestione dei pensionamenti dei pubblici dipendenti e quindi dell'erogazione delle relative indennità di fine servizio (Cort. Cost. n. 159/2019)
Analoga ratio – continua il ricorrente – starebbe alla base delle norme di cui al decreto legge n. 4/2019 riguardanti, in particolare, i tempi di erogazione del trattamento di fine servizio dei lavoratori pubblici che possono optare per la forma di pensionamento anticipato di cui alla cd. “quota cento” in deroga ai requisiti previsti dal regime generale, tale che, se per un verso si è consentito ai dipendenti della p.
a. di anticipare di qualche anno il collocamento in pensione, per altro verso sono stati dilatati i tempi di erogazione del trattamento di fine servizio secondo precise scansioni temporali.
Alla luce di tale excursus il , n. q., critica la risposta data dal Tribunale alla questione Parte_1 di fondo, ossia quella di stabilire nel caso concreto se siffatto regime abbia o meno inciso sul diritto dell'ex coniuge di - di ottenere, ai sensi dell'art. 12 bis della Persona_3 legge 898/70, una percentuale del trattamento di fine servizio liquidato al titolare e, più in particolare, se al momento del decesso della donna detto diritto fosse o meno entrato a far parte del patrimonio di lei, nel quale sono succeduti gli eredi.
Ad avviso del ricorrente l'insorgenza di tale diritto andrebbe fatta risalire al momento in cui si sono verificate le condizioni previste dal citato art. 12 bis della legge n. 898/1970 e s. m. i., come letto dalla giurisprudenza, secondo il quale il “coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto ad “una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro”, sempre che sia titolare di un assegno di divorzio in virtù di una sentenza passata in giudicato, non sia passato a nuove nozze e l'indennità venga a maturare al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio.
Ciò in quanto – osserva il ricorrente - nell'istituto concorrono e si compenetrano ragioni socio- economiche a tutela del lavoratore nella sua sfera individuale con ragioni analoghe proiettate nell'ambito familiare dello stesso lavoratore al momento della sua disgregazione.
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Ne fa discendere che gli elementi costitutivi del diritto della sarebbero sorti nel momento in Per_1 cui, con sentenza n. 192/2019 del 4 febbraio 2019, il Tribunale di Messina ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio (celebrato il 23 giugno 1984 tra lei e CP_1
), ponendo altresì a carico di quest'ultimo e in favore dell'ex coniuge, a titolo di assegno
[...] divorzile, il pagamento della somma mensile di € 300,00, non essendo la passata a nuove nozze Per_1
e non essendo ancora maturata, al momento della proposizione della domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, l'indennità di fine servizio del . Parte_1
La dunque – secondo la prospettazione di parte ricorrente – avrebbe maturato il diritto certo Per_1 di ottenere una quota del trattamento di fine servizio spettante all'ex coniuge già al momento della pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio, sebbene a quella data il diritto medesimo non fosse liquido (ossia determinabile nel suo ammontare), in quanto il rapporto di lavoro del coniuge era ancora in essere, né esigibile, essendosi consolidato all'atto di cessazione del rapporto di lavoro (avvenuta il 30 settembre 2019), epoca in cui è divenuto liquido.
Dai prospetti di calcolo prodotti dall' – evidenzia ancora il ricorrente a comprova di tale sua CP_3 prospettazione – si evince che il t. f. s. è stato invero calcolato sulla base del montante contributivo che aveva accantonato fino alla data del collocamento in quiescenza, per un Controparte_1 totale di quarant'anni e sette mesi, e che sulla medesima base contributiva è stato calcolato anche
l'importo dell'assegno pensionistico che egli ha iniziato a percepire dall'1 ottobre 2019.
Ne deriverebbe che il diritto della alla quota del t. f. s. sarebbe entrato nel suo patrimonio Per_1
(quale elemento attivo) quando ella era ancora in vita, non potendosi conseguentemente riconoscere alcuna efficacia impeditiva al suo decesso intervenuto in epoca successiva, cioè il 12 settembre 2020, per il mero fatto che le modalità ed i tempi di riscossione dell'emolumento in questione sono stati procrastinati nella previsione di cui al d. l. n. 4/2019 istitutivo della cd. “quota cento”.
A suo dire con la disposizione di cui all'art. 23, comma 1, del predetto decreto-legge il legislatore avrebbe inteso solamente rinviare la corresponsione del t. f. s. (per finalità di contenimento e programmazione della spese pubblica), apponendovi un termine legale di adempimento, che però non potrebbe incidere sull'esistenza e sull'esatto ammontare del relativo credito del lavoratore e su quello speculare del coniuge divorziato ex art. 12 bis citato.
Richiama in proposito il principio giurisprudenziale secondo il quale l'obbligo dell'ex coniuge, previsto dall'art. 12-bis della legge sul divorzio, di corrispondere all'altro la quota del trattamento di fine rapporto percepito all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, ha natura patrimoniale, con la conseguenza che, in caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, esso, se rimasto inadempiuto, rientra nell'asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius.
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Per la stessa ragione – rileva ancora il ricorrente - nel caso in cui, nelle more del pagamento del t. f.
s., intervenga il decesso del coniuge avente diritto alla prestazione, il relativo diritto può essere azionato dagli eredi di quest'ultimo, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale nel caso di specie.
Il motivo è fondato.
La soluzione della questione dedotta con il presente gravame non può prescindere dalla considerazione essenziale che, nella valutazione giuridica dell'istituto del trattamento di fine rapporto lavorativo - sia esso di natura privatistica o, come nella specie, pubblicistica –, quale emerge univocamente dall'elaborazione giurisprudenziale dei massimi organi giurisdizionali dello Stato (la
Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione), esso è considerato sicuramente come emolumento, o meglio “indennità”, avente natura essenzialmente retributiva, sia pure frammista ad aspetti previdenziali, trattandosi precisamente di una forma di “retribuzione differita”, carattere questo che lo attira nella sfera dell'art. 36 Cost. che “prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e l'idoneità a garantire, in ogni caso, un'esistenza libera e dignitosa” (così testualmente Corte Cost. sent. n. 159/2019).
Vale la pena, ai fini precipui che ci occupano, riportare taluni passaggi testuali della richiamata pronuncia della Consulta che danno contezza esplicita della natura e della ratio dell'istituto, con particolare riferimento al fine rapporto di lavoro pubblico, dai quali è agevole ricavare essenziali elementi in diritto che forniscono una più che autorevole chiave esegetica per la soluzione della presente contesa, avuto riguardo ai dati di fatto concretamente acquisiti agli atti del presente giudizio.
Osserva la Corte Costituzionale, con l'intento di delineare i tratti salienti della disciplina riguardante la “liquidazione” dei trattamenti di fine servizio , che “l'art. 3, comma 2, del d. l. n. 79 del 1997 fissa
i termini per la liquidazione dei «trattamenti di fine servizio, comunque denominati», spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, oggi definite dall'art. 1, comma 2, del decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e al personale in regime di diritto pubblico di cui all'art. 3, commi 1 e
2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Alla liquidazione l'ente erogatore provvede «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo
d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge
o di regolamento applicabili nell'amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro». All'effettiva corresponsione si deve dar corso «entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi». Al differimento della liquidazione dei trattamenti di fine servizio si affiancano le disposizioni in tema di pagamento rateale, introdotte dall'art. 12, comma 7, del d. l. n.
7 78 del 2010 con l'obiettivo di concorrere «al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall'Aggiornamento del programma di stabilità e crescita». L'originaria scansione dei pagamenti, modulata in una rata annuale per le indennità di fine servizio fino a 90.000,00 euro, in due rate annuali per le indennità oltre i 90.000,00 e fino ai 150.000,00 e in tre rate annuali per le indennità pari o superiori a 150.000,00 euro, sempre al lordo delle trattenute fiscali, è stata modificata dall'art. 1, comma 484, lettera a), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2014)». Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, «come individuate dall' nazionale Org_1 di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196»,
l'indennità di buonuscita, l'indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e «ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall'impiego» sono oggi riconosciuti «in un unico importo annuale se
l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro» (lettera a), «in due importi annuali se l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore
a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro» (lettera b) e «in tre importi annuali se l'ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro» (lettera c). Sulle questioni (…) non incidono le novità introdotte dall'art.
23 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza
e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che prevedono la facoltà di richiedere il finanziamento di una somma, pari all'importo massimo di 45.000,00 euro, dell'indennità di fine servizio maturata. Tale facoltà, accordata, tra l'altro, al ricorrere dei presupposti definiti dalla legge, ai «lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», non altera i termini delle questioni proposte, che si incentrano sui tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio, tempi che lo ius superveniens non interviene a modificare (…) Per costante giurisprudenza di questa
Corte (…) il lavoro pubblico e il lavoro privato «non possono essere in tutto e per tutto assimilati
(sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all'estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni» (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del Considerato in diritto). Il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rilevante della spesa di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale (art. 81
Cost.). (…) Le indennità di fine rapporto, pur nella differente configurazione che hanno assunto nel
8 volgere degli anni, si atteggiano come «una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo» (sentenza n. 243 del 1993, punto 5. del Considerato in diritto). L'evoluzione normativa, «stimolata dalla giurisprudenza costituzionale» (sentenza n.
243 del 1993, punto 4. del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell'ambito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall'art. 2120 del codice civile (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
20 dicembre 1999, recante «Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti»). Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell'autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell'uscita dalla vita lavorativa attiva.
Nel settore pubblico, le indennità in esame presentano una natura retributiva, avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto.
Esse rappresentano il frutto dell'attività lavorativa prestata (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del
Considerato in diritto) e costituiscono parte integrante del patrimonio del beneficiario, che spetta ai superstiti «nel caso di decesso del lavoratore in servizio» (sentenza n. 243 del 1997, punto 2.3. del
Considerato in diritto).
Le indennità sono corrisposte al momento della cessazione dal servizio allo scopo precipuo di
«agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto).
In questo si coglie la funzione previdenziale che coesiste con la natura retributiva e rappresenta
l'autentica ragion d'essere dell'erogazione delle indennità dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
7. 2.- Il carattere di retribuzione differita, comune a tali indennità, le attira nella sfera dell'art. 36
Cost., che prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l'idoneità a garantire, in ogni caso, un'esistenza libera e dignitosa (…).
Anche per le indennità di fine rapporto, legate a una particolare e più vulnerabile stagione dell'esistenza umana, la garanzia costituzionale opera in tutta la pregnanza delle sue implicazioni.
(…)
Nel caso oggi all'attenzione della Corte il differimento dell'erogazione dei trattamenti di fine servizio fa riscontro a una cessazione del rapporto di lavoro che può intervenire anche quando non sia ancora maturato il diritto alla pensione. Il trattamento più rigoroso si correla alla particolarità
9 di un rapporto di lavoro che, per le ragioni più disparate, peraltro in prevalenza riconducibili a una scelta volontaria dell'interessato, cessa anche con apprezzabile anticipo rispetto al raggiungimento dei limiti di età o di servizio.
La disciplina è graduata in funzione di tale elemento distintivo sul presupposto che, proprio con il raggiungimento dei limiti indicati, si manifestino in maniera più pressante i bisogni che le indennità di fine servizio mirano a soddisfare e che impongono tempi di erogazione più spediti.
Il regime di pagamento differito, analizzato nel peculiare contesto di riferimento, nelle finalità e nell'insieme delle previsioni che caratterizzano la relativa disciplina, non risulta dunque complessivamente sperequato (…)”.
Chiamato a valutare la legittimità costituzionale di talune disposizioni legislative che prevedono e disciplinano casi peculiari di pagamenti differiti e/o rateali delle indennità di fine servizio nel lavoro pubblico (comunque denominate), il Giudice delle leggi ha ripetutamente posto l'accento su un dato che si rivela essenziale ai fini della soluzione della presente contesa, ossia la natura sicuramente
“retributiva” dei trattamenti di fine servizio “comunque denominati”, i quali rappresentano il frutto dell'attività lavorativa prestata, costituendo, come tali, parte integrante del patrimonio del beneficiario, con la funzione precipua di “accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell'uscita dalla vita lavorativa attiva” onde consentirgli di superare le “difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione”.
Siffatte indennità sono “corrisposte” al momento della cessazione del rapporto di lavoro proprio per assecondare la suddetta intrinseca finalità nella quale si coglie la loro funzione previdenziale, che coesiste con quella retributiva, definendosi pertanto il trattamento di fine servizio quale “retribuzione differita” per significare questa sua duplice natura, per un verso ontologicamente “retributiva”, quale frutto dell'attività lavorativa, avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto, e, per altro verso “previdenziale”, volta a garantire al lavoratore che cessa dal servizio la possibilità di superare le difficoltà economiche derivanti al venir meno della retribuzione.
In questa prospettiva è fuor di dubbio che, come giustamente osservato da parte ricorrente, il diritto all'indennità di fine servizio, ontologicamente assimilabile alla retribuzione e partecipe della sua natura geneticamente agganciata al rapporto di lavoro, accompagnandosi a tutta la durata dello svolgimento dell'attività lavorativa, all'atto della cessazione di quest'ultima è già giunto a piena e completa maturazione quale “frutto dell'attività lavorativa” e come tale entra immediatamente a fare parte integrante del patrimonio del beneficiario.
E che si tratti di una parte di retribuzione che nasce col sorgere del rapporto lavorativo e matura durante l'intero arco del suo svolgimento, attraverso una fattispecie a formazione successiva che si
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completa con la cessazione del rapporto, e di cui è solo differita l'erogazione, ne sono prova il fatto che essa spetta ex lege al lavoratore subordinato (privato o pubblico) non solo al momento dell'ordinaria cessazione del rapporto di lavoro, ma anche qualora egli cessi di vivere in costanza di svolgimento del rapporto medesimo, in tal caso dovendosi liquidare in favore dei successori (arg. ex art. 2122 c. c., dettata per il lavoro privato), nonché la sua stessa modalità di calcolo che (si riporta in linea di principio) pone alla base la retribuzione percepita dal lavoratore alla cessazione dal servizio, la quale viene rapportata al numero degli anni utili ai fini del calcolo.
Ciò vuol dire in sostanza, per quanto qui di specifico interesse, che il diritto all'indennità di fine servizio è da considerare sempre esistente ove sia esistito un rapporto di lavoro (sia esso privato o pubblico) e giunto a piena “maturazione” al momento della cessazione di quest'ultimo, a prescindere dal fatto che la sua erogazione venga poi per legge differita ad un momento successivo, con cadenze diverse e più o meno distanziate nel tempo, differimento che, nel settore pubblico, risponde, in linea di principio, come sottolineato dalla Consulta, alla necessità di contemperare il diritto del lavoratore, costituzionalmente garantito, ad una “giusta retribuzione” - giustezza che si sostanzia non solo nella congruità dell'ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell'erogazione – con le esigenze della finanza pubblica e con quelle di razionale programmazione nell'impiego di risorse limitate, rappresentando “il lavoro pubblico un aggregato rilevante della spesa di parte corrente che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale
(art. 81 Cost.)” (così testualmente in parte motiva la sentenza n. 159/2019 citata).
In questa stessa prospettiva - volta ad attuare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco (ex artt. 36 e, rispettivamente, 81 Cost.) – si colloca la previsione normativa che, insieme all'art. 12 bis della legge 898/1970 (e s. m. i.), costituisce la cornice giuridica di riferimento della fattispecie in esame, ossia l'art. 23 del D. L. n. 4/2019, disposizione che attiene ad una peculiare ipotesi di pensionamento anticipato (cd. “quota cento”) e che, come tale, ben può essere letta in un'ottica funzionale all'intento legislativo di disincentivare queste forme di pensionamento (come nella pronuncia della Consulta qui passata in rassegna), anche allo scopo di salvaguardare la sostenibilità del sistema previdenziale, dovendosi richiamare sul punto quanto si legge nella stessa sentenza anzidetta: “per costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 104 del 2018, punto 6.1. del Considerato in diritto), ben può il legislatore «disincentivare i pensionamenti anticipati
(fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell'attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita (…), fermo restando che, come la stessa Corte sottolinea, le scelte discrezionali adottate in tale ambito dal legislatore non possono sacrificare in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost..
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L'art. 23 del d. l. n. 4/2019 (rubricato “anticipo del TFS”), nel testo vigente ratione temporis, al comma 1 prevedeva testualmente: “Ferma restando la normativa vigente in materia di liquidazione dell'indennità di fine servizio comunque denominata, di cui all'articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, i lavoratori di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché il personale degli enti pubblici di ricerca, cui è liquidata la pensione quota 100 ai sensi dell'articolo 14, conseguono il riconoscimento dell'indennità di fine servizio comunque denominata al momento in cui tale diritto maturerebbe a seguito del raggiungimento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, ai sensi dell'articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, tenuto anche conto di quanto disposto dal comma 12 del medesimo articolo relativamente agli adeguamenti dei requisiti pensionistici alla speranza di vita”.
Dalla dicitura testuale della norma, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell'istituto del
t. f. s. in rapporto anche al pensionamento “anticipato” di cui si è detto sin qui, si inferisce agevolmente che per coloro che accedono al trattamento pensionistico cd. “quota cento” (che è un trattamento di quiescenza anticipato), pur se, secondo la regola comune, alla cessazione del rapporto lavorativo corrisponde la piena maturazione del diritto al t. f. s., il conseguimento effettivo dello stesso è differito al momento in cui il rapporto di lavoro cesserebbe secondo la sua conclusione ordinaria (ossia non anticipata attraverso il meccanismo della cd. “quota cento”).
Ad avviso della Corte si tratta solamente di una posticipazione del momento in cui il trattamento di fine servizio può di fatto essere percepito dal titolare del diritto, prevista per bilanciare (e forse anche per “disincentivare”) il pensionamento anticipato, e non invece di un rinvio del momento di maturazione del diritto medesimo, ponendosi quest'ultima lettura – che invece è stata fatta propria dal primo Giudice – in contrasto con la natura essenzialmente retributiva (sia pure “differita”) di ogni forma di indennità di fine servizio (o di fine rapporto), qualunque sia la sua denominazione.
Essa infatti, come detto più diffusamente sopra, in quanto “retribuzione differita”, sorge ontologicamente e procede in concomitanza, con l'instaurazione e, rispettivamente, con lo svolgersi nel tempo del rapporto lavorativo, alla cui cessazione raggiunge ineludibilmente la piena maturazione sul piano tecnico-giuridico, salvo poi ad essere elargita in un momento successivo (per le ragioni di necessario componimento dei contrapposti interessi delle quali si è detto sopra).
A volere opinare diversamente, seguendo invece l'interpretazione del primo Giudice - secondo la quale la posticipazione riguarda non la sola erogazione ma anche il sorgere del diritto -, non solo si vanificherebbe la ricostruzione teoretica dell'istituto quale “retribuzione” (seppure “differita”) su cui si è argomentato sin qui, ma sarebbe anche inconcepibile la stessa possibilità di “anticipazione del
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TFS” disciplinata dall'articolo 23 medesimo, di un trattamento cioè (secondo tale lettura) del quale il beneficiario dell'anticipazione non avrebbe ancora nemmeno acquisito il diritto.
D'altra parte – va detto - la norma stessa di cui all'art.23, al comma 2 del testo vigente ratione Org_ temporis, stabiliva espressamente che “sulla base di apposite certificazioni rilasciate dall' i soggetti di cui al comma 1, nonché i soggetti che accedono al trattamento di pensione ai sensi dell'articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214, possono presentare richiesta di finanziamento di una somma pari all'importo, definito nella misura massima nel successivo comma 5, dell'indennità di fine servizio maturata, alle banche o agli intermediari finanziari che aderiscono a un apposito accordo quadro da stipulare (…)”, ed ancora: “il finanziamento è garantito dalla cessione pro solvendo, automatica
e nel limite dell'importo finanziato, senza alcuna formalità, dei crediti derivanti dal trattamento di fine servizio maturato, che i soggetti di cui al primo periodo del presente comma vantano nei Org_ confronti dell' .
Se è la norma stessa a parlare esplicitamente di indennità di fine servizio “maturata” o, ancora, di crediti derivanti dal trattamento di fine servizio “maturato” che il lavoratore pensionatosi Org_ anticipatamente “vanta” (verbo coniugato al presente) nei confronti dell' , allora è evidente che il diritto al TFS è già sorto ed è da ritenere “certo” nel patrimonio del pensionato (con “quota 100”) sin dal momento della cessazione (anticipata) del rapporto lavorativo, essendone solo differita la possibilità di conseguirlo (ossia la sua esigibilità) al momento in cui il rapporto sarebbe cessato ordinariamente qualora non si fosse optato per la “quota 100”.
Declinando perciò tutti i su esposti principi al caso in esame, rileva la Corte che CP_1
, posto in quiescenza in data 1 ottobre 2019 (dato di fatto pacifico e documentato in atti), a
[...] partire da tale momento ha acquisito definitivamente nel proprio patrimonio il diritto al trattamento di fine servizio, salva l'effettiva erogazione dell'emolumento medesimo, spostata per legge più avanti nel tempo.
Corollario logico-giuridico di tale dato innegabile è che essendo ancora in vita a quella data la Per_1 coniuge divorziato del sin dal febbraio 2019, deceduta il 12 settembre 2020, ed essendo Parte_1 ella titolare di assegno divorzile (pari a € 300,00) in virtù delle relativa pronuncia giudiziale, né essendo passata a nuove nozze, sussistono oggettivamente nella specie tutti i requisiti di cui all'art.
12 bis legge 898/1970 (e s. m. i.) per riconoscere alla donna (ed oggi ai suoi eredi pro-quota) il diritto ad una percentuale del trattamento anzidetto secondo quanto prevede la citata norma, senza che a ciò osti il fatto che il TFS sia maturato (e men che mai erogato) dopo la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, poiché, come è noto, quest'ipotesi è ammessa espressamente dal comma
1, ultima parte, del citato art. 12 bis.
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Va ricordato infatti che, ai sensi dell'anzidetta disposizione, “il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
In virtù di essa, dunque, il diritto del coniuge divorziato sorge dopo la cessazione del rapporto di lavoro dell'altro coniuge (nel caso di specie – appunto – l'1 ottobre 2019), sempreché, a tale data, quest'ultimo sia ancora obbligato alla corresponsione dell'assegno di divorzio e che il rapporto di lavoro sia coinciso temporalmente, anche solo in parte, col rapporto di coniugio.
In senso contrario nessun rilievo può attribuirsi al fatto che il trattamento di fine rapporto non sia stato ancora materialmente percepito dall'avente diritto, né sia esigibile, dato che, come detto, il diritto del coniuge divorziato alla percezione della quota prevista dal citato art. 12-bis sorge quando
l'indennità sia matura (al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio), dovendosi escludere la sussistenza del diritto solo se il trattamento maturi in data anteriore a detto momento
(così, tra le altre, Cass. Civ. n. 12175/2011).
Ratio della norma è infatti, secondo costante giurisprudenza di legittimità (ibidem), quella di mettere in correlazione il diritto alla quota di indennità (non ancora percepita dal coniuge avente diritto) all'assegno divorzile, con la conseguenza che, una volta riconosciuta in via giudiziale la concreta spettanza dell'assegno medesimo, è attribuito il diritto alla quota di T. F. S., dovendosi la sussistenza delle condizioni previste dalla legge - ossia la titolarità dell'assegno divorzile e il mancato passaggio
a nuove nozze – essere verificata al momento in cui matura per l'altro ex coniuge il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso, in tale data divenendo attuale (e, quindi, azionabile in giudizio) il diritto ad ottenere la quota di cui all'art. 12-bis de quo (cfr. Cass. Civ. nn.
18367/2006;
2466/2006
).
Oltre ai predetti requisiti oggettivi in capo alla risulta dagli atti che Per_1 Controparte_1 dopo la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio (pronunciata dal Tribunale di
Messina il 4 febbraio 2019, n. 196/2019), abbia avuto liquidata, in data 1 agosto 2021, la somma C Org_ (netta) di € 34.698,73 a titolo di T. F. S. da parte dell' (si veda la relativa nota prodotta CP_3 agli atti del primo grado il 13 agosto 2021, in ottemperanza al provvedimento del Tribunale del 4 agosto 2021).
Sussistono, quindi, i presupposti per ritenere fondata, sotto il profilo dell'an debeatur, la pretesa di parte ricorrente, n. q..
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In ordine al quantum debeatur, va rilevato che il matrimonio tra e Controparte_1 Per_1
stando agli atti, è stato contratto in data 23 giugno 1984 e che il rapporto di lavoro tra il
[...]
e la di Messina è iniziato il 10 luglio 1989 ed è cessato, come detto, il 30 Parte_1 Org_3 settembre 2019, successivamente alla fine del matrimonio tra i due (i cui effetti civili sono cessati, come detto, con sentenza del 4 febbraio 2019).
Sul punto va ricordato che, secondo insegnamento pacifico della Suprema Corte, la disposizione di cui al citato art. 12-bis individua come parametro per la determinazione della percentuale del trattamento di fine rapporto la durata del matrimonio e non quella dell'effettiva convivenza, valorizzando il contributo che il coniuge più debole normalmente continua a fornire durante il periodo di separazione e nel contempo ancorando il periodo di riferimento ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza (tra le tante in tal senso Cass. Civ. nn. 1348/2012;
4867/2006;

10075/2003).
Ciò detto, in base alla norma da ultimo citata, spetta alla (ed oggi ai suoi eredi) un'indennità Per_1 pari al 40% del T. F. S. maturato in favore di con riferimento agli anni in cui Controparte_1 il matrimonio è coinciso con il rapporto di lavoro.
Secondo quanto espressamente affermato dalla Suprema Corte, in materia di determinazione della quota di indennità di buonuscita cui ha diritto il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se non passato a nuove nozze, la base sulla quale calcolare la percentuale ex art. 12 bis, comma 1, l. 898/1970, è costituita dall'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Ne deriva, in base al coordinamento tra il comma 1 ed il comma 2 dell'articolo citato, che l'indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell'indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, con riferimento agli anni in cui il rapporto di lavoro coincise con il rapporto matrimoniale;
risultato che si ottiene dividendo l'indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40% su tale importo (così Cass. Civ. n. 1348/2012).
Alla luce di tutte le suddette considerazioni in diritto e circostanze in fatto, alla (ora ai suoi Per_1 eredi, pro quota) spetta il 40% del T. F. S. maturato dal dall'inizio del suo rapporto di Parte_1 lavoro (10 luglio 1989) alla data del 4 febbraio 2019 (di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario), dunque per 29 anni e 7 mesi.
Il T. F. S. netto maturato in capo al , secondo le informazioni al riguardo fornite Parte_1
Org_ dall' (di cui si è detto sopra), è pari a complessivi € 34.698,73: detto importo, secondo
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l'insegnamento della Suprema Corte sopra riportato, va suddiviso per le 30 annualità di durata del rapporto di lavoro (tralasciando la frazione mensile), ottenendo così la cifra di € 1.156,62, la quale deve quindi moltiplicarsi per 29 (ossia gli anni del matrimonio coincisi con il rapporto di lavoro, sempre tralasciando la frazione mensile), per un risultato finale di € 33.542,10, il cui 40% spettante alla (ora ai suoi eredi pro quota) corrisponde a € 13.416,84 (importo netto). Per_1
Va disatteso l'assunto di parte resistente secondo il quale il diritto alla quota di indennità di fine rapporto di cui all'art. 12 bis della legge 898/1970 (e s. m. i.), spettante al coniuge divorziato, sarebbe intrasmissibile agli eredi, essendo strettamente collegato all'assegno di divorzio, diritto personalissimo che cessa con il cessare della vita dell'avente diritto.
Deve in proposito richiamarsi il principio giurisprudenziale consolidato secondo il quale l'obbligo dell'ex coniuge, previsto dall'art. 12-bis della legge sul divorzio, di corrispondere all'altro ex coniuge la quota, spettantegli per legge, del trattamento di fine rapporto percepita all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, ha natura patrimoniale, con la conseguenza che, in caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, esso, se rimasto inadempiuto, rientra nell'asse ereditario, gravando sugli eredi del “de cuius” (così Cass. Civ. n. 4867/2006), principio che può estendersi naturalmente all'ipotesi (reciproca) in cui il decesso riguardi, come nella specie, l'avente diritto (titolare di assegno divorzile all'atto della cessazione del rapporto lavorativo dell'ex coniuge, requisito essenziale che, come detto, ricorre nella specie), dato che alla natura sicuramente patrimoniale dell'obbligo dell'onerato non può che corrispondere la medesima natura del correlato diritto dell'ex coniuge beneficiario, che perciò, come tale, una volta acquisito (come lo è stato per la ancora in vita e Per_1 titolare di assegno divorziale al momento della maturazione del diritto al T. F. S. in capo all'ex coniuge
, entra a far parte del suo asse ereditario, con conseguente trasmissibilità agli Controparte_1 eredi.
Occorre precisare inoltre che sussiste la piena legittimazione dell'odierno ricorrente, n. q., ad agire
(ed impugnare la relativa pronuncia) per il conseguimento dell'intero credito ereditario, da ripartire poi tra gli eredi in relazione alla rispettiva quota ereditaria, posto il principio pacifico secondo il quale
i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, in conformità al disposto degli artt. 727 e 757 c.c., con la conseguenza che ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l'intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l'intervento di questi ultimi in presenza dell'interesse all'accertamento della sussistenza o meno del credito nei confronti di tutti (cfr. Cass. Civ. nn. 10585/2024;
15894/2014
).
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In questa prospettiva, peraltro, l'intervento di in primo grado e la sua presenza Controparte_2 nel presente grado hanno assunto una valenza meramente adesiva alla richiesta (cumulativa) del coerede Parte_1
Non sono dovuti invece eventuali emolumenti accessori (pure chiesti dal ricorrente, n. q.), sia perché la domanda è assolutamente generica, non essendo nemmeno stato indicato in che cosa consisterebbero tali emolumenti ed a che titolo, sia, in ogni caso, in virtù del recente arresto delle
Sezioni Unite della Suprema Corte di cui alla sentenza n. 6229/2024 secondo il quale la quota dell'indennità di fine rapporto - spettante, ai sensi dell'art. 12-bis della l. n. 898 del 1970, al coniuge titolare dell'assegno divorzile e non passato a nuove nozze - non concerne tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell'entità della retribuzione corrisposta al lavoratore.
Quanto alle spese giudiziali, reputa la Corte di poterle dichiarare interamente compensate tra le parti in considerazione dell'assoluta novità della questione specificamente affrontata nel presente giudizio, in relazione alla quale non si registra – ad oggi - alcuna casistica nella giurisprudenza.
Si provvede con separato decreto sulla richiesta di liquidazione dei compensi avanzata dal difensore del ricorrente n. q., ammesso al patrocinio a spese dello Stato secondo quanto si è riportato in epigrafe.
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