Cass. pen., sez. III, sentenza 03/04/2023, n. 13783
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o la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: C A, nato a Campagna (Sa) il 23 settembre 1954;avverso la sentenza n. 2872/2022 dell Tribunale di Salerno del 7 giugno 2022;letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. A G;letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa M E G, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.RITENUTO IN FATTO Con sentenza pronunziata in data 7 giugno 2022 il Tribunale di Salerno, in composizione monocratica, ha dichiarato la penale responsabilità di C A in ordine al reato di cui all'art. 6 della legge n. 150 del 1992, in quanto deteneva n. 30 esemplari di cinghiale (Sus scrofa), provenienti da riproduzioni avvenute in cattività, senza alcuna autorizzazione amministrativa o sanitaria, e lo ha, pertanto, condannato alla pena di 10.000,00 euro di ammenda, oltre accessori, disponendo, altresì, la confisca delle bestie in sequestro. Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, il condannato, articolando un unico motivo di impugnazione, avente ad oggetto il vizio di motivazione e di violazione di legge. In particolare, il ricorrente ha segnalato che il Tribunale ha omesso di considerare che l'imputato era dotato di un'autorizzazione a detenere selvaggina a scopo amatoriale ed alimentare e che tale autorizzazione era stata rinnovata in data 18 settembre 2018;ha aggiunto il ricorrente che in ogni caso fa fattispecie contravvenzionale a lui contestata è volta a tutelare il commercio delle specie animali in via di estinzione fra le quali, indubbiamente, non vi è il cinghiale comune. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è infondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato. E', peraltro, preliminare dare atto della circostanza che la disposizione legislativa che si assume essere stata violata dal C, cioè l'art. 6 della legge n. 150 del 1992, è stata oggetto di abrogazione, a decorrere 27 settembre 2022, per effetto della entrata in vigore del dlgs n. 135 del 2022, il quale, all'art. 16, comma 1, lettera a), ha espressamente preveduto l'abrogazione del citato art. 6 della legge n. 150 del 1992. Non per questo, tuttavia, la condotta descritta dalla norma abrogata ha cessato di rivestire rilevanza penale, posto che, in termini di piena continuità normativa, essa è stata sussunta nella previsione legislativa contenuta nel nuovo art. 4 del citato dlgs n. 135 del 2022 per ciò che attiene alla descrizione del fatto costituente reato (i cui termini sostanziali sono rimasti invariati), mentre il trattamento sanzionatorio previsto per l'eventuale violazione della disciplina precettiva è quello disciplinato dal successivo art. 14, comma 2, del medesimo decreto legislativo;di questo, tuttavia, trattandosi di sanzione in concreto potenzialmente più afflittiva di quella previgente (arresto sino a 6 mesi ed ammenda da euro 20.000,00 ad euro 150.000,00, a fronte di un precedente trattamento sanzionatorio, identico quanto all'arresto ma limitato, quanto alla sanzione pecuniaria ad un ammenda oscillante fra i 15.000,00 ed i 300.000,00, quindi inferiore nel minimo concretamente applicato a carico del C), non si deve tenere conto dato il principio della lex mitior di cui all'art. 2 cod. pen. Fatta questa premessa, si osserva che non coglie nel segno la difesa del C nell'affermare che lo stesso era titolare della autorizzazione a detenere gli animali di cui al capo di imputazione;è, infatti, ben vero che in favore del predetto era stata rilasciata in data 24 febbraio 2010 un'autorizzazione dalla Regione Campania, rinnovata con atto del 28 settembre 2018 (quindi in epoca successiva alla contestazione dell'illecito per cui è causa), a detenere per scopo amatoriale ed alimentare presso un fondo ubicato in agro di Campagna, contraddistinto nel locale catasto dei terreni al foglio 16, particelle 27 ed 80, dei capi di cinghiale, ma - al di là della circostanza che la autorizzazione rilasciata all'imputato, e del quale questi ha fornito la copia, prevedeva l'adempimento entro un breve termine dal suo rilascio di taluni oneri previsti a pena di revoca e, pertanto, perdita di efficacia del provvedimento ampliativo la cui soddisfazione non è stata documentata dal prevenuto - si osserva, ed il rilievo è dirimente, che la autorizzazione in questione, riguardava esclusivamente la detenzione di un numero di capi di bestiame pari a 5, laddove il capo di imputazione a lui ascritto fa puntuale riferimento ad un numero di singole bestie detenute pari a 30 (in via del tutto incidentale si osserva come sia fattore irrilevante il dato costituito dall'avvenuto innalzamento del numero massimo di bestie detenibili, portato a 5 capi adulti e 10 capi in età ancora non fertile - in quanto disposto in occasione del rinnovo dell'autorizzazione, quindi successivamente al riscontro della commissione del reato e valendo l'ampliamento dell'autorizzazione solo pro futuro);né vale segnalare, come, invece, fatto, dalla ricorrente difesa che un teste del Pm escusso in udienza abbia dichiarato di non avere potuto contare le bestie detenute dal C, posto che lo scarto esistente fra il numero delle bestie indicate nel capo di imputazione e quello per le quali vi era l'autorizzazione (si tratta di un rapporto di 1 a 6) era tale che l'evidente esuberanza del primo rispetto al secondo poteva essere colta anche "a colpo d'occhio", senza la necessità di un puntuale riscontro aritmetico, frutto della individuazione delle singole unità eccedenti quelle per le quali vi era l'autorizzazione. Quanto alla sussistenza nel caso di specie dell'elemento oggettivo del reato si rileva che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della sussistenza del reato di detenzione illecita di animali pericolosi, di cui all'art. 6, comma 1, legge n. 150 del 1992, è sufficiente la mera disponibilità di animali "di specie selvatica", da riferirsi agli esemplari animali di origine selvatica o provenienti da nascita in cattività limitata alla prima generazione, essendo irrilevante che non siano in condizione di cattività (Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 ottobre 2017, n. 45748), e rientrando indubbiamente fra questo genere di animali anche i cinghiali (Sus scrofa) (al riguardo si veda, infatti, Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 aprile 2003, n. 16674), essendo i questi sicuramente animali selvatici, altamente pericolosi sia per la loro capacità di infestare i territori data la elevata fertilità, la tendenza al nomadismo e la mancanza di un predatore selettivo che ne possa limitare la diffusione, sia per la loro idoneità ad essere vettori di infezioni, quali la peste suina, in relazione alle quali vi è la elevata probabilità di contaminazione con altre bestie appartenenti a specie limitrofe, quale il maiale (Sus scrofa domesticus), adibite all'allevamento per uso esclusivamente alimentare, in relazione alle quali vi è, altresì, il pericolo della ibridazione genetica. Il ricorso proposto deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente va condannato, visto l'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
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