Cass. civ., sez. I, sentenza 30/10/2003, n. 16305

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Massime4

In tema di elettorato passivo, la sussistenza della causa di incompatibilità per lite pendente, prevista dall'art. 3, primo comma, n. 4, della legge 23 aprile 1981, n. 154, può essere esclusa solo in presenza di elementi dai quali emerga il carattere meramente formale e apparente (oppure artificioso) della controversia in modo evidente e non equivoco, vale a dire senza la necessità di accertamenti e riscontri riservati alla cognizione esclusiva del giudice davanti al quale pende la causa addotta come motivo di incompatibilità.

In tema di contenzioso elettorale, la circostanza che, in violazione dell'ordine degli interventi nell'udienza di discussione stabilito dall'art. 82, sesto comma, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (come sostituito dall'art. 1 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147), il pubblico ministero formuli le proprie conclusioni dopo che le parti private abbiano già esposto le proprie difese non determina, di per sè, alcuna nullità. Da un lato, infatti, l'applicabilità al giudizio elettorale dell'art. 523 del codice di procedura penale - secondo cui il p.m. interviene nella discussione prima dei difensori delle parti private e, in ogni caso, l'imputato e il difensore devono avere, a pena di nullità, la parola per ultimi, se la domandano - trova un insuperabile ostacolo, oltre che nell'espresso rinvio contenuto nel citato art. 82 del d.P.R. n. 570 del 1960 alla disciplina del processo civile, nel differente ruolo che il pubblico ministero assume nel processo penale (nel quale agisce quale titolare del diritto di azione e contraddittore dell'imputato) e nel giudizio elettorale, in cui, invece, pur avendo la qualità di interventore necessario, è sfornito del potere di azione e, in quanto tale, può prendere conclusioni solo nei limiti delle domande delle parti (art. 72, secondo comma, cod. proc. civ.); dall'altro, il principio del giusto processo è diretto ad assicurare alle parti una posizione di parità nel concreto svolgimento della dialettica processuale, con la conseguenza che la sua violazione va esclusa quando (come nella fattispecie) il giudice di merito abbia negato che si fossero determinate, nel corso della discussione, discriminazioni in danno della parte privata, e questa non abbia nemmeno specificato quale pregiudizio l'ordine seguito nella discussione avesse arrecato alle sue possibilità di difesa.

La domanda diretta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale trova fondamento non già in una sentenza di condanna del giudice penale, ma nella commissione di un fatto astrattamente preveduto come reato, come si desume dall'art. 2059 cod. civ. e dal suo coordinamento con gli artt. 185 e 198 cod. pen., in base al quale il risarcimento del danno non patrimoniale derivante da un reato può essere senza dubbio richiesto anche nel caso di estinzione del reato e, segnatamente, anche quando tale effetto sia determinato (come nella fattispecie) dalla decorrenza del tempo necessario a prescriverlo, secondo la disciplina di cui agli artt. 157 e ss. cod. pen..

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 51 Cost., dell'art. 3, primo comma, n. 4, della legge 23 aprile 1981, n. 154, nella parte in cui contempla la pendenza di una lite con la regione quale causa di incompatibilità all'esercizio delle funzioni di consigliere regionale. Premesso, infatti, che la Corte costituzionale (ord. n. 223 del 2003) ha escluso che - a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 3 ter del D.L. 22 febbraio 2002, n. 13 (convertito nella legge 24 aprile 2002, n. 75) - il diverso rilievo assunto dall'impedimento costituito dalla pendenza di una lite per i consiglieri regionali, rispetto a quelli degli enti locali minori, sia lesivo del principio di eguaglianza, va osservato che l'esigenza, cui la norma in esame risponde, di prevenire l'insorgenza di conflitti di interesse tra i singoli componenti degli organi elettivi e l'ente territoriale, essendo diretta ad assicurare la trasparenza, il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione (e, quindi, la tutela di interessi di indubbio rilievo costituzionale), può giustificare l'apposizione di limiti al diritto garantito dall'art. 51 Cost. Va, inoltre, tenuto conto sia del limite di operatività della causa di incompatibilità in questione stabilito dall'ultimo comma del medesimo art. 3 della legge n. 154 del 1981, sia del fatto che il giudice elettorale, nel controllare l'esistenza della lite, deve accertare - pur nel rispetto dell'autonomia del giudice della lite stessa - se la controversia pendente non sia, all'evidenza, meramente apparente, o manifestamente infondata, ovvero ancora chiaramente pretestuosa.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 30/10/2003, n. 16305
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 16305
Data del deposito : 30 ottobre 2003

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. M M R - Presidente -
Dott. M G - rel. Consigliere -
Dott. R R - Consigliere -
Dott. G G - Consigliere -
Dott. D P S - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A B, domiciliato in Roma, Via Cola di Rienzo n. 212, presso l'avv. prof. S M, che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale autenticata in data 7 luglio 2003 dal notaio P M di Napoli (Rep. n. 95444);



- ricorrente -


contro
A P, elettivamente domiciliato in Napoli, Via Caracciolo n. 15, presso il prof. avv. G A e il prof. avv. F L, che lo rappresentano e difendono in virtù di procura speciale autenticata in data 8 ottobre 2003 dal notaio L V di Napoli (Rep. n. 231370);



- controricorrente -


nonché
REGIONE CAMPANIA, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLA CAMPANIA, PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CASSAZIONE;



- intimati -


avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli n. 1069/02 depositata il 3 aprile 2002, notificata il 12 aprile 2002. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 settembre 2003 dal relatore Cons. Dott G M;

Uditi, per le parti, gli avvocati Lio, Mangiameli e Abbamonte;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA

Vincenzo, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


1 - Con sentenza 2295/99 il Tribunale di Napoli dichiarava il signor Aldo B colpevole, in concorso con altri, del reato previsto e punito dagli arti. 318 e 321 c. pen., ascrittogli nella qualità di Assessore alle Acque e agli Acquedotti della Regione Campania, condannandolo alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione. Tale sentenza era riformata dalla Corte d'appello che, con sentenza del 12 giugno 2001, dichiarava "non doversi procedere" nei confronti dell'imputato per intervenuta prescrizione del reato. A seguito di ciò, la Presidenza del Consiglio dei ministri, che il 29 settembre 2000 aveva sospeso il B dalla carica, decretava, in data 22 giugno 2001, la revoca della sospensione. Quindi il Consiglio regionale, con delibera del 27 giugno 2001, lo reintegrava nella carica. Lo stesso Consiglio respingeva successivamente, con delibera del 20 settembre 2001, la proposta della Giunta delle elezioni di dichiarare la decadenza del B.
Tali atti venivano impugnati innanzi al TAR della Campania dal signor Alfonso P, primo dei non eletti, con ricorso dell'11 ottobre 2001.


2 - Il 22 giugno 2001 la Regione conveniva in giudizio il Bona, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da lui arrecati alla propria immagine con il suo comportamento delittuoso. L'8 novembre 2001, il P chiedeva che, in considerazione della pendenza di quel giudizio, fosse accertata la decadenza del B dalla carica di consigliere regionale, ai sensi degli artt. 3, n. 4 e legge 23 aprile 1981, n. 154. Il B si opponeva all'accoglimento del ricorso, deducendo in via preliminare la litispendenza e la continenza della causa con quella instaurata dallo stesso ricorrente innanzi al TAR della Campania per far dichiarare la legittimità degli atti sopra indicati al p. 1. 3 - Il Tribunale di Napoli dichiarava, il 18 dicembre 2001, la decadenza del B dalla carica ricoperta, nominando in sostituzione il primo dei non eletti.
3.1 - L'appello del B era respinto dalla Corte territoriale, il ricorrente chiedeva la cassazione di tale sentenza con tre motivi di ricorso. Mentre il P resisteva, gli altri intimati non svolgevano alcuna attività difensiva.


4 - Il 18 settembre 2002 il ricorrente presentava istanza di rinvio, deducendo l'imminenza dell'approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge di origine parlamentare A.S. 1517, già approvato dalla Camera dei Deputati (A.C. 2284), diretto ad estendere ai consiglieri regionali la disciplina dettata dall'art. 3 ter, d.l. 22 febbraio 2002, n. 13 (convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2002, n. 75), il quale stabilisce, in relazione ai consiglieri
comunali e provinciali e con effetto anche rispetto ai giudizi in corso, che "la lite promossa a seguito di o conseguente a sentenza di condanna determina incompatibilità soltanto in caso di affermazione di responsabilità con sentenza passata in giudicato". Questa Corte respingeva la richiesta di rinvio ma sollevava, con ordinanza del 19 ottobre 2002, questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, n. 4, legge 23 aprile 1981, n. 154, nella parte in cui, nell'individuare quale causa di
incompatibilità dei consiglieri regionali l'esistenza, di una lite pendente con la Regione, non prevede che, quando la lite è stata promossa a seguito o in conseguenza di sentenza di condanna, tale incompatibilità si determina soltanto in caso di affermazione di responsabilità con sentenza passata in giudicato.
Il disegno di legge, definitivamente approvato dal Senato il 9 ottobre 2002, veniva rinviato dal Capo dello Stato il successivo 5 novembre alle Camere che, a seguito di ciò, desistevano dalla loro iniziativa.
4.1 - La Corte costituzionale ha dichiarato la questione manifestamente infondata con ordinanza n. 223 del 24 giugno 2003. Quindi, il 20 ottobre 2003, la causa è stata posta nuovamente in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE


6 - Nella sentenza impugnata si afferma, in particolare;
a) che il mancato rispetto dell'ordine stabilito per la discussione, nel giudizio di primo grado, dall'art. 82, sesto comma, d.p.r. 16 maggio 1960, n. 570, chiamando il P.M. a formulare le proprie conclusioni
dopo che le parti private avevano già esposto le rispettive difese, non aveva determinato alcuna nullità;
b) che non era configurabile alcun rapporto di continenza o di litispendenza tra il presente giudizio e quello promosso dal P innanzi al TAR della Campania, al fine di ottenere l'annullamento delle delibere del Consiglio Regionale della Campania nn. 19 e 25, rispettivamente in data 27 giugno 2001 e 22 giugno 2001, e del d.p.c.m. del 22 giugno 2001;
c) che la decisione della presente causa non era in alcun modo legata alla definizione di quelle proposti innanzi al giudice amministrativo e che non ricorrevano, pertanto, i presupposti per disporne la sospensione ai sensi dell'art. 295 c.p.c.;
d) che la domanda avanzata dalla Regione nei confronti del B non era ne' pretestuosa ne' manifestamente infondata;
e) che la somma offerta dal B alla Regione a titolo di risarcimento danni era da ritenersi "incongrua ed inadeguata e non era stata comunque accettata.

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