Cass. pen., sez. VI, sentenza 01/03/2023, n. 08959
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Testo completo
a seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da L F F, nato a Catania il 24/05/1959 avverso la sentenza del 24/09/2021 della Corte di appello di Messina visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione del consigliere O D G;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale S S, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata senza rinvio limitatamente alla condanna a favore dell'Ente disposta ai sensi dell'art. 322 -quater c.p. e che il ricorso sia per il resto dichiarato inammissibile;
udito l'avvocato S S, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia accolto.
RITENUTO IN FATTO
1. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina, a seguito di rito abbreviato e concessa l'attenuante di cui all'art. 353-bis cod. pen., condannava F L F alla pena di quattro anni di reclusione per i delitti di peculato (art. 314 cod. pen.) e corruzione (artt. 319, 321 cod. pen.). La pronuncia era appellata dall'imputato, dal Procuratore della Repubblica nonché dalla parte civile e, con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello di Messina, esclusa la circostanza attenuante dell'art. 353-bis cod. pen., rideterminava la pena in anni cinque e mesi quattro di reclusione;
applicava, in conseguenza, le pene accessorie dell'interdizione legale per la durata della pena e dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici;
confermava la provvisionale, decurtata della somma già restituita, e condannava l'imputato al pagamento, in favore del Comune di Taormina, di una somma pari ad euro 25.590,63 - equivalente al prezzo della corruzione - a titolo di riparazione pecuniaria, ai sensi dell'art. 322-quater cod. pen.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione l'imputato che, per il tramite del suo difensore, avvocato Salvatore Silvestro, articola i seguenti sette motivi di ricorso.
2.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione quanto all'inammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.). L'appello del pubblico ministero avverso la sentenza pronunciata a seguito di rito abbreviato avrebbe dovuto ritenersi inammissibile poiché eccepiva profili diversi dal "mutamento del titolo di reato" (art. 443 cod. proc. pen.), espressione da intendere, nella sua non derogabile estensione interpretativa, come mutamento della qualificazione giuridica del fatto complessivamente contestato. Per contro, il fatto di ritenere più grave una fattispecie piuttosto che l'altra, ai fini della continuazione, non ha comportato alcun mutamento del titolo di reato.
2.2. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in rapporto alla determinazione del trattamento sanzionatorio, avuto riguardo al mezzo di impugnazione. La Corte d'appello ha rideterminato il trattamento sanzionatorio individuando quale reato più grave il peculato e, muovendo dal presupposto che non fosse possibile applicare una pena base inferiore a quella stabilita nel minimo per l'altro reato legato dal vincolo della continuazione, non ha fatto riferimento al minimo di quattro anni previsto dal peculato, bensì al minimo di sei anni previsto dalla corruzione. Tuttavia, sulla base della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, fermo restando l'individuazione della violazione più grave, qualora il giudice intenda graduare al livello più basso la dosimetria della pena, non gli è consentito applicare una pena in concreto inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati unificati dall'identità del disegno. La Corte territoriale, quindi, dovendo muovere nel definire il trattamento sanzionatorio dalla pena prevista per il reato di peculato, dopo aver operato sulla stessa gli aumenti per la continuazione, non avrebbe potuto irrogare una pena complessivamente inferiore a quella prevista nel minimo per uno dei reati-satellite, per poi operare su questa la riduzione per la scelta del rito.
2.3. Questione di legittimità costituzionale dell'art. 323-bis cod. pen. Il ricorrente chiede sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 323-bis, comma 2, cod. pen., ritenuta irragionevole là dove non prevede che l'attenuante della collaborazione operi anche per il peculato, con pregiudizio, delle finalità rieducative della pena.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto all'esclusione dell'attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 2, cod. pen. Nella sentenza impugnata si legge che la condotta tenuta dal ricorrente era assolutamente inidonea a configurare quella incisiva collaborazione atta a svelare nei reati di corruzione l'attività dei correi ed a recuperare somme ed utilità trasferite. Trattasi tuttavia di ragionamento assertivo che, come tale, non assolve all'onere di motivazione rafforzata necessaria a giustificare l'accoglimento dell'appello del pubblico ministero in ogni caso di aggravamento della posizione dell'imputato. In particolare, la disposizione dell'art. 353-bis, comma 2, cod. pen. parla di «assicurazione» delle prove senza precisare quale tipo di condotta sia richiesto, sicché, ragionando a partire dall'analoga disposizione di cui all'art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309 del 1990 e sulla scia delle sentenze di legittimità, deve
udita la relazione del consigliere O D G;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale S S, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata senza rinvio limitatamente alla condanna a favore dell'Ente disposta ai sensi dell'art. 322 -quater c.p. e che il ricorso sia per il resto dichiarato inammissibile;
udito l'avvocato S S, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia accolto.
RITENUTO IN FATTO
1. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina, a seguito di rito abbreviato e concessa l'attenuante di cui all'art. 353-bis cod. pen., condannava F L F alla pena di quattro anni di reclusione per i delitti di peculato (art. 314 cod. pen.) e corruzione (artt. 319, 321 cod. pen.). La pronuncia era appellata dall'imputato, dal Procuratore della Repubblica nonché dalla parte civile e, con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello di Messina, esclusa la circostanza attenuante dell'art. 353-bis cod. pen., rideterminava la pena in anni cinque e mesi quattro di reclusione;
applicava, in conseguenza, le pene accessorie dell'interdizione legale per la durata della pena e dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici;
confermava la provvisionale, decurtata della somma già restituita, e condannava l'imputato al pagamento, in favore del Comune di Taormina, di una somma pari ad euro 25.590,63 - equivalente al prezzo della corruzione - a titolo di riparazione pecuniaria, ai sensi dell'art. 322-quater cod. pen.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione l'imputato che, per il tramite del suo difensore, avvocato Salvatore Silvestro, articola i seguenti sette motivi di ricorso.
2.1. Violazione di legge penale e vizio di motivazione quanto all'inammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.). L'appello del pubblico ministero avverso la sentenza pronunciata a seguito di rito abbreviato avrebbe dovuto ritenersi inammissibile poiché eccepiva profili diversi dal "mutamento del titolo di reato" (art. 443 cod. proc. pen.), espressione da intendere, nella sua non derogabile estensione interpretativa, come mutamento della qualificazione giuridica del fatto complessivamente contestato. Per contro, il fatto di ritenere più grave una fattispecie piuttosto che l'altra, ai fini della continuazione, non ha comportato alcun mutamento del titolo di reato.
2.2. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in rapporto alla determinazione del trattamento sanzionatorio, avuto riguardo al mezzo di impugnazione. La Corte d'appello ha rideterminato il trattamento sanzionatorio individuando quale reato più grave il peculato e, muovendo dal presupposto che non fosse possibile applicare una pena base inferiore a quella stabilita nel minimo per l'altro reato legato dal vincolo della continuazione, non ha fatto riferimento al minimo di quattro anni previsto dal peculato, bensì al minimo di sei anni previsto dalla corruzione. Tuttavia, sulla base della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, fermo restando l'individuazione della violazione più grave, qualora il giudice intenda graduare al livello più basso la dosimetria della pena, non gli è consentito applicare una pena in concreto inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati unificati dall'identità del disegno. La Corte territoriale, quindi, dovendo muovere nel definire il trattamento sanzionatorio dalla pena prevista per il reato di peculato, dopo aver operato sulla stessa gli aumenti per la continuazione, non avrebbe potuto irrogare una pena complessivamente inferiore a quella prevista nel minimo per uno dei reati-satellite, per poi operare su questa la riduzione per la scelta del rito.
2.3. Questione di legittimità costituzionale dell'art. 323-bis cod. pen. Il ricorrente chiede sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 323-bis, comma 2, cod. pen., ritenuta irragionevole là dove non prevede che l'attenuante della collaborazione operi anche per il peculato, con pregiudizio, delle finalità rieducative della pena.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto all'esclusione dell'attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 2, cod. pen. Nella sentenza impugnata si legge che la condotta tenuta dal ricorrente era assolutamente inidonea a configurare quella incisiva collaborazione atta a svelare nei reati di corruzione l'attività dei correi ed a recuperare somme ed utilità trasferite. Trattasi tuttavia di ragionamento assertivo che, come tale, non assolve all'onere di motivazione rafforzata necessaria a giustificare l'accoglimento dell'appello del pubblico ministero in ogni caso di aggravamento della posizione dell'imputato. In particolare, la disposizione dell'art. 353-bis, comma 2, cod. pen. parla di «assicurazione» delle prove senza precisare quale tipo di condotta sia richiesto, sicché, ragionando a partire dall'analoga disposizione di cui all'art. 74, comma 7, d.P.R. n. 309 del 1990 e sulla scia delle sentenze di legittimità, deve
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