Cass. civ., sez. I, ordinanza 15/03/2023, n. 07528

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, ordinanza 15/03/2023, n. 07528
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 07528
Data del deposito : 15 marzo 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

ha pronunciato la seguente ORDINANZA sul ricorso iscritto al n. 6827/2018 R.G. proposto da: Z M, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE ANGELICO, 92, presso lo studio dell’avvocato C A (CCZNTN71E29H703V) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Z L (ZNTLRN46S46C758P) per procura speciale a margine del ricorso -ricorrente-

contro

R S, in persona del legale rapp.te p.t., elettivamente domiciliata in ROMA VIA F. CONFLONIERI, 5, presso lo studio dell’avvocato C G (CLDGLC70H22H501S) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato U S (BLDSRA79R58L781I) per procura speciale a margine del controricorso -controricorrente- avversola SENTENZA di CORTE D ’ APPELLO VENEZIA n. 1725/2017 depositata il28/08/2017. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/01/2023 dal Consigliere L N.

FTTI DI CAUSA

Con sentenza del 28 agosto 2017, n. 1725, la Corte d’appello di Venezia ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale di Padova del 18 ottobre 2010, che aveva, a sua volta, disatteso le domande proposte dall’attrice, odierna ricorrente. Questa aveva chiesto, con l’atto di citazione, la dichiarazione di inesistenza, nullità o l’annullamento della deliberazione assembleare del 22 novembre 2002, con la quale la R s.r.l., di cui era socia per una quota pari al 9,5%, aveva aumentato il capitale sociale da € 156.000 ad € 1.500.000 (nonché trasferito la sede sociale), con il voto favorevole della socia di maggioranza Gardaland s.p.a., titolare di una quota pari al 90,5% del capitale, divenuta tale in virtù delle cessioni delle partecipazioni degli altri soci concluse nel mese di settembredel 2002. Le ragioni di illegittimità dedotte della deliberazione di aumento del capitale sociale erano la violazione della clausola statutaria di prelazione e l’abuso di potere in ragione dell’ingente ed ingiustificato aumento. La Corte d’appello ha ritenuto – quanto alla domanda di accertamento della illegittimità in conseguenza della violazione della clausola di prelazione – che dovesse confermarsi la soluzione da essa raggiunta nel diverso giudizio, introdotto dalla medesima Martina Zaninelli contro la Gardaland s.p.a. ed i soci cedenti, volto alla declaratoria di inefficacia delle cessioni per violazione della prelazione ed al trasferimento giudiziale delle quota in capo all’attrice, che così riteneva di esercitare il diritto di riscatto, e conclusosi in primo grado con la sentenza di rigetto del Tribunale di Verona del 4 ottobre 2010 ed in appello con contestuale propria decisione, assunta nella medesima camera di consiglio: ed ha richiamato il principio, affermato dalla C.S., secondo cui il patto di prelazione, di cui all’art. 2479 c.c., ha natura negoziale, onde, in caso di violazione, non sussiste il diritto di riscatto della partecipazione sociale compravenduta, così dovendosi escludere in ogni caso la invalidità della deliberazione assembleare del 22 novembre 2002, assunta da un’assemblea regolarmente costituita. Con riguardo alla domanda di annullamento della deliberazione per abuso di potere, ha richiamato del pari il precedente di legittimità di Cass. n. 27387 del 2005, secondo cui tale vizio richiede la deviazione dell’atto dallo scopo sociale ed il perseguimento di un interesse personale dei soci di maggioranza antitetico a quello sociale, o l’intenzionale attività fraudolenta volta alla lesione dei diritti dei soci di minoranza, escludendo l’integrazione della fattispecie nella vicenda in esame, non potendo il giudice sostituirsi agli organi sociali nelle valutazioni di convenienza delle loro scelte d’impresa, e rilevando come, nella specie, la scelta di procedere all’aumento di capitale per far fronte alle spese da sostenere in futuro era legittima, posto che in quel momento la società, per acquisire i fondi necessari al raggiungimento dello scopo sociale, aveva solo la possibilità di ottenere credito o di provvedere, appunto, all’aumento del capitale, secondo una opzione finale in definitiva dimessa agli organi sociali. Né, ha aggiunto, è provato il fine esclusivo di tendere alla esclusione del socio di minoranza dalla società, sia per l’esistenza di finalità proprie dell’intera compagine societaria, sia per le comprovate disponibilità economiche della socia di minoranza, la quale, come già evidenziato dal Tribunale, aveva manifestato nello stesso periodo l’intenzione di acquistare l’intero capitale sociale della R s.p.a., per l’importo di circa otto milioni di euro, dovendo quindi ritenersi capace di sottoscrivere l’aumento di capitale per la sua percentuale di pertinenza, pari a circa € 127.000, non ingenerando quindi la condotta societaria di Gardaland s.p.a. sospetto alcuno. Avverso questa decisione propone ricorso per cassazione la soccombente, affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. Si difende con controricorso l’intimata, che del pari deposita la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente deduc e la violazione dell’art. 2469 c.c. e degli artt. 112, 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., perché la clausola di prelazione statutaria aveva efficacia reale, onde la cessione, pur valida tra le parti, resta inopponibile al socio pretermesso ed alla società, che non può iscrivere la cessione nel libro dei soci e consentire l’esercizio dei diritto sociali all’acquirente;
di conseguenza la deliberazione impugnata è invalida, in quanto assunta con il voto determinante della socia non legittimata. Inoltre, la sentenza della corte d’appello è viziata da omessa pronuncia, non avendo delibato il primo motivo di appello. Con il secondo motivo, deduce la violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e l’omesso esame di fatto decisivo, ossia la mancanza di ogni giustificazione per quell’aumento del capitale, non avendo la società esigenze di liquidità, perché finalizzata solo alla vendita dei terreni dopo che fossero divenuti edificabili, onde sussiste l’abuso di potere denunziato dalla socia di minoranza e sul punto la corte territoriale ha esposto una motivazione apparente. Con il terzo motivo, deduce la violazione degli artt. 1375, 2377 e 2469-ter c.c., sussistendo un abuso di potere nell’adozione della predetta deliberazione, potendo fra l’altro la società ricorrere tranquillamente ricorrere al finanziamento bancario per ottenere la somma necessaria, invece che deliberare un aumento del capitale. Con il quarto motivo lamenta la violazione ancora degli artt. 1375, 2377 e 2469-terc.c., non avendo la corte del merito ritenuto provato il fine esclusivo della deliberazione, volta ad escludere in tal modo dalla società la socia, affermando che essa avrebbe goduto di sufficienti disponibilità economiche atte alla sottoscrizione del capitale: quando, invece, proprio quello era l’intento della socia di maggioranza, di cui non occorreva ulteriore prova, atteso che la deliberazione era totalmente avulsa dall’interesse sociale. 2. – L’eccezione di tardività del ricorso, formulata dalla controricorrente, è fondata. Risulta in atti l’avvenuta notificazione della sentenza impugnata da parte del difensore della R s.p.a. all’odierna ricorrente in data 30 ottobre 2017 a mezzo P.E.C., mentre il ricorso è stato notificato il 23 febbraio 2018, oltre il termine di sessanta giorni, previsto dall’art. 325 c.p.c. Sono in atti i file di estensione “ .eml ” della notificazione della sentenza eseguita a mezzo pec, contenenti il messaggio, la ricevuta di accettazione e la ricevuta di avvenuta consegna, nonché i file di estensione “ .pdf ” della notificazione della sentenza eseguita a mezzo pec, del pari contenenti il messaggio, la ricevuta di accettazione e la ricevuta di avvenuta consegna, con gli allegati, muniti di attestazione di conformità. Tali atti sono stati notificati il 30 ottobre 2017. In particolare, il difensore della R s.p.a., costituito nel grado di appello, ha notificato il duplicato informatico della sentenza emessa dalla corte territoriale, previa estrazione dal fascicolo informatico, cui il difensore medesimo aveva accesso, allo scopo di provocare appunto il decorso del termine breve per l’impugnazione;
quindi, lo stesso difensore ha attestato la conformità delle copie cartacee prodotte in giudizio concernenti la notificazione stessa, nonché della sentenza redatta in forma telematica. Sotto un primo profilo, l’art. 23-bis d.l. n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 221 del 2012, prevede che: "I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida". Questa Corte ha ritenuto, con principio condiviso, che la notificazione telematica del duplicato informatico della sentenza emessa è idonea al decorso del termine breve per l’impugnazione. Infatti, il duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i)-quinquies e 16 - bis , comma 9 - bis d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico, ottenuto mediante la memorizzazione della medesima sequenza di valori binari del documento originario: la cui corrispondenza con quest’ultimo, quindi, non emerge dall’uso di segni grafici, essendo la firma digitale una sottoscrizione in “bit”, ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato (Cass., ord. 19 settembre 2022, n. 27379). Ed è stato già chiarito come, in caso di notificazione della sentenza a mezzo P.E.C., la copia analogica della ricevuta di avvenuta consegna, completa di attestazione di conformità, è idonea a certificare l’avvenuto recapito del messaggio e degli allegati: salva la prova contraria, di cui è onerata la parte che solleva la relativa eccezione, dell’esistenza di errori tecnici riferibili al sistema informatizzato (Cass., ord. 2 marzo 2022, n. 6912;
Cass., ord. 24 settembre 2020, n. 20039;
Cass. 9 aprile 2019, n. 9897;
Cass. 22 dicembre 2016, n. 26773), nell’àmbito del più generale principio secondo cui, in caso di notificazione della sentenza a mezzo P.E.C. ed una volta acquisita al processo la prova della sussistenza della ricevuta di avvenuta consegna, ogni prova contraria è posta a carico del destinatario, al quale, a fronte di un’apparenza di regolarità della dinamica comunicatoria, spetta promuovere le contestazioni necessarie ed eventualmente fornire la prova stessa (Cass. 28 maggio 2021, n. 15001). Si è altresì osservato che la notificazione è validamente effettuata all’indirizzo di posta elettronica certificata indicata dal difensore di fiducia del ricorrente per cassazione anche qualora, in ipotesi, esercente fuori giurisdizione, giacché, a seguito dell’introduzione dell’art. 16-sexies d.l. n. 179 del 2012, conv., con modificazioni, dalla l. n. 221 del 2012, le notificazioni (e le comunicazioni) vanno eseguite al “domicilio digitale” di cui ciascun avvocato è dotato, corrispondente all’indirizzo P.E.C. risultante dal ReGindE ed indicato, una volta per tutte, al Consiglio dell’ordine di appartenenza, conoscibile dai terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata INI-PEC (Cass. 12 febbraio 2021, n. 3685);
e che, nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione e di consegna del messaggio nella casella del destinatario, si determina una presunzione di conoscenza dell’atto, analoga a quella prevista, per le dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c., spettando quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto tempestivamente il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione o di presa visione degli allegati trasmessi via P.E.C., legate all’utilizzo dello strumento telematico, onde fornirgli la possibilità di rimediare all’inconveniente, sicché all’inerzia consegue il perfezionamento della notifica (Cass. 21 febbraio 2020, n. 4624). L’importanza di tale forma notificatoria, di cui il legislatore ha inteso assicurare la certezza nell’interesse dell’intero sistema processuale, ha indotto, fra l’altro, a ritenere come: - la mera circostanza che la e - mail P.E.C. di notificazione sia finita nella cartella della posta indesiderata (spam) della casella P.E.C. del destinatario e sia stata eliminata dall’addetto alla ricezione senza apertura e lettura della busta per il timore di danni al sistema informatico aziendale, non può essere invocata dal notificato come ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore, ai fini della dimostrazione della mancata tempestiva conoscenza del decreto che legittima alla proposizione dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c. (Cass. 23 giugno 2021, n. 17968);
- l’art. 20 del regolamento, di cui al d.m. 21 febbraio 2011, n.44, disciplina i «requisiti della casella di P.E.C. del soggetto abilitato esterno», imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di P.E.C. e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica;
onde il difensoredella parte privata, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. m), d.m. n. 44 del 2011, ha una serie di obblighi di cautela ivi previsti (come dotare il terminale di antivirus e antispam, conservare con ogni mezzo idoneo le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia, munirsi di uno spazio disco minimo, dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella), e, di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi, non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l’efficienza (Cass. 18 febbraio 2020, n. 3965, in motiv.);
- essa, anzi, prevale su altre forme di notificazione (cfr. Cass. 1° giugno 2020, n. 10355;
Cass. 23 maggio 2019, n. 14140;
Cass.8 giugno 2018, n. 14914;
Cass. 14 dicembre 2017, n. 30139). Sempre in tale prospettiva di favor, si è chiarito che, in materia di notificazioni al difensore, nella specie della sentenza di primo grado ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, a seguito della introduzione del c.d. domicilio digitale (conseguente alla modifica apportata dall’art. 45-bis, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, conv. con mod. dalla l. n. 114 del 2014, all’art. 125 c.p.c.), non solo non sussiste alcun obbligo, per il difensore medesimo, di indicare nell’atto introduttivo l’indirizzo P.E.C. «comunicato al proprio ordine», trattandosi di dato già risultante dal Re.G.Ind.E., in virtù della trasmissione effettuata dall’Ordine di appartenenza, in base alla comunicazione eseguita dall’interessato ex art. 16 - sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con mod. dalla l. n. 114 del 2014, ma neppure è concessa a quest’ultimo la facoltà di indicare un indirizzo P.E.C. diverso da quello ovvero di restringerne l’operatività alle sole comunicazioni di cancelleria (Cass. 12 novembre 2021, n. 33806). Quindi, il principio è che, a seguito dell’introduzione del domicilio digitale, la notificazione va eseguita all’indirizzo P.E.C. del difensore costituito risultante dal Re.G.Ind.E., pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, ed anzi è nulla la notificazione effettuata presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo (Cass.29 gennaio 2020, n. 1982;
Cass. 8 giugno 2018, n. 14914). Né rileva l’assunto, contenuto nella memoria della ricorrente, secondo cui il destinatario della notificazione a mezzo P.E.C. fosse solo uno dei propri difensori in appello, nonché procuratore domiciliatario, presso cui essa avrebbe eletto domicilio fisico e non digitale: proprio per la risolutiva possibilità di notificazione presso il c.d. domicilio digitale, come appena esposto. Neppure giova alla parte ricorrente il rilievo che, al momento della richiesta notifica della sentenza di appello, il difensore in quel giudizio di R s.p.a. non fosse ancora iscritto all’albo speciale degli avvocati patrocinanti in cassazione, posto che è valida la notifica ad iniziativa del difensore il quale sia tale nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza notificando. Infatti, si è già ritenuto che, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9- bis, d.l. n. 179 del 2012, convertito dalla l. n. 221 del 2012, il difensore costituito nel giudizio di merito ha il potere di attestare la conformità al provvedimento giurisdizionale digitale, reso nel grado, della sua copia cartacea, ancorché sia privo di procura speciale per il ricorso per cassazione e la parte abbia designato altro difensore per il giudizio di legittimità, perché, pur essendo esaurito il processo per il quale era stata conferita la procura, il procuratore può legittimamente continuare a compiere e ricevere gli atti relativi a quel grado di giudizio, non potendosi ragionevolmente escludere la sua potestà di certificare la conformità all’originale di un provvedimento contenuto nel fascicolo informatico ed entrato in suo legittimo possesso in forza di valide credenziali (Cass. 2 settembre 2022,n. 25969). Del pari, nemmeno in caso di conferimento della nomina ad altro difensore si determina una conseguenziale perdita del potere certificativo in capo al precedente difensore, proprio in quanto si tratta dell’autentica di un provvedimento emesso all’esito della fase del giudizio di merito nel corso del quale il legale ha esercitato il munus difensivo e in forza del quale ha ricevuto – quale destinatario - formale comunicazione dell’atto da parte della cancelleria. Sarebbe, infatti, irragionevole che tale soggetto sia, per un verso, abilitato a ricevere la comunicazione telematica della copia digitale del provvedimento conclusivo di tale fase processuale, restandone "depositarlo" in quanto pertinente al fascicolo informatico del giudizio di merito e, per altro,privarlo del potere di attestarne la conformità rispetto ad un atto "originale" che è entrato in suo legittimo possesso, al quale ha potuto accedere in forza della persistenza di valide credenziali e destinato ad essere prodotto nell’ambito di una fase che ne costituisce un fisiologico epilogo (Cass. 3 febbraio 2021, n. 2445). Sviluppando tali concetti, deve dunque ritenersi che il difensore del precedente grado di giudizio in appello, ove pure in quel momento non iscritto all’albo degli avvocati patrocinanti innanzi alle giurisdizioni superiori, abbia il potere di notificare via P.E.C. al difensore della controparte la sentenza di appello, allo scopo di veder decorrere il termine per l’impugnazione ed ottenere il passaggio in giudicato della sentenza, in adempimento dei propri obblighi di cui alla precedente fase. Infatti, tale attività ben può essere posta in essere dal procuratore dotato di rappresentanza nel giudizio di merito, il quale dunque può anche essere privo del titolo di “cassazioni sta” e che peraltro, pur esaurito il grado di giudizio di merito rispetto al quale era stata conferita la procura, può legittimamente continuare a compiere e ricevere gli atti che si riferiscono a quel grado di giudizio. 3. –Le spese seguono la soccombenza.
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