Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 19/07/2003, n. 11305

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Sia l'invenzione di servizio che l'invenzione di azienda - rispettivamente previste nel primo e nel secondo comma dell'art. 23 del R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 - presuppongono lo svolgimento da parte del dipendente di una attività lavorativa di ricerca volta all'invenzione, mentre l'elemento distintivo tra le due ipotesi risiede principalmente nella presenza o meno di una esplicita previsione contrattuale di una speciale retribuzione costituente corrispettivo dell'attività inventiva, in difetto della quale spetta al dipendente autore dell'invenzione l'attribuzione dell'equo premio previsto dall'art. 23.

In caso di invenzione di azienda, ex art. 23, secondo comma, del R.D. 26 giugno 1939, n. 1127, il diritto del lavoratore all'equo premio ed il correlativo obbligo del datore di lavoro di corrisponderlo sorgono solo con il conseguimento del brevetto, non essendo sufficiente che si tratti di innovazioni suscettibili di brevettazione ma non ancora brevettate; a tale diritto, trattandosi di una controprestazione straordinaria a carattere indennitario corrisposta una tantum per una prestazione altrettanto straordinaria, costituita dal risultato inventivo non rientrante nell'attività dovuta dal lavoratore, si applica la prescrizione decennale prevista dall'art. 2946 cod. civ. ed il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui il diritto è esigibile, ovvero dalla data di concessione del brevetto.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 19/07/2003, n. 11305
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 11305
Data del deposito : 19 luglio 2003
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. T V - Presidente -
Dott. M C F - Consigliere -
Dott. M F A - Consigliere -
Dott. F R - rel. Consigliere -
Dott. D'

AGOSTINO

Giancarlo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M S, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio dell'avvocato L B, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato A V, giusta delega in atti;



- ricorrente -


contro
S U, elettivamente domiciliato in

ROMA VIA M PRESTINARI

13, presso lo studio dell'avvocato G R, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato V G, giusta delega in atti;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 816/99 del Tribunale di FERRARA, depositata il 06/03/00 - R.G.N. 2718/98;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/02/03 dal Consigliere Dott. R F;

uditi gli Avvocati B e V;

udito gli avvocati R;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. F S che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO D PO
Con ricorso del 3.4.1996 al Pretore di Ferrara, Umberto Scatà conveniva in giudizio la società Montendison s.p.a. per ottenere il pagamento dell'equo premio di cui all'art. 23, c. 2, del r.d. n.1127 del 1939, da determinarsi a mezzo di ctu, conseguente ad alcune
invenzioni da lui realizzate nel corso del rapporto di lavoro e poi brevettate da parte della società datrice di lavoro. Precisava il ricorrente: che sin dal gennaio 1975 gli era stato affidato un progetto di "ricerca e sviluppo di catalizzatori di alta resa per il propilene e morfologia controllata", in esecuzione del quale erano stati depositati dieci brevetti industriali, sei dei quali lo avevano visto come autore e quattro come coautore;
che nel 1980 era stato promosso all'8^ livello del ceni di settore e che, dalla data di passaggio della Montedison alla Himont Italia s.r.l. (1983), era stato trasferito al settore della produzione. Si costituiva la società convenuta, contestando la pretesa dell'attore, rilevando che le indicate invenzioni costituivano il risultato non occasionale ma naturale dell'attività lavorativa affidata al ricorrente, sicché trattavasi di invenzione di servizio e non di azienda, ai sensi dell'invocato art. 23. Aggiungeva la società che per tale attività lo Scatà aveva percepito ripetutamente incrementi retributivi e premi, alcuni dei quali riconosciuti proprio in relazione alle invenzioni realizzate. Eccepiva, inoltrerà società l'avvenuta sottoscrizione, da parte del lavoratore, di una quietanza liberatoria, alla fine del rapporto, con la quale aveva rinunziato espressamente ad ogni compenso ulteriore.
Eccepiva, infine, la prescrizione del diritto all'equo premio, essendo questo sorto in capo al ricorrente al momento in cui l'invenzione era stata comunicata al datore di lavoro e non al momento della concessione del brevetto.
Con sentenza del 25.7.1998, il Pretore adito accoglieva la domanda, rimettendo la causa m istruttoria per la determinazione del quantum. Proposto appello da parte della società, resistente lo Scatà, il Tribunale di Ferrara confermava la statuizione del primo Giudice, con sentenza del 6.3.2000, osservando che dall'istruttoria espletata emergeva che l'oggetto della prestazione affidata all'appellato, (assunto nel 1954 come assistente di laboratorio e solo nel 1974 chiamato presso il Centro ricerche di Ferrara, avente come obiettivo specifico quello di individuare - in collaborazione con l'Istituto Donegani di Novara - nuovi catalizzatori ad alta resa, per il polipropilene) concerneva lo svolgimento di un'attività di ricerca che, pur potendo comportare il conseguimento di invenzioni, non era a tal fine indirizzata.
Aggiungeva il Tribunale che l'adibizione dello Scatà alle attività di ricerca non aveva comportato alcuna rinegoziazione delle originarie condizioni di lavoro, ne' erano emersi elementi specifici idonei ad attestare una correlazione causale tra la retribuzione percepita e la prestazione inventiva: gli aumenti retributivi riconosciutigli nel corso del rapporto - analiticamente esaminati dal primo Giudice - "benché influenzati dai positivi risultati conseguiti, non erano mai stati destinati a compensare lo sforzo inventivo". Di conseguenza - a giudizio del Tribunale - le invenzioni in oggetto non potevano definirsi "di servizio" trattandosi piuttosto di "invenzioni di azienda" da cui il riconoscimento dell'equo premio previsto dalla legge brevettuale. Il Tribunale disattendeva l'eccezione di prescrizione sollevata dalla società appellante, operando, nella fattispecie, la prescrizione decennale decorrente dal rilascio del brevetto, che segna il momento in cui i diritti da questo derivanti possono essere esercitati (conf. Cass., 1.1.1989, n. 30;
Cass., 16.1.1979, n. 329;
Cass., 2646/90). Nè poteva ritenersi - come pure sostenuto dalla società - che il diritto vantato dal lavoratore potesse dirsi rinunziato con la "liberatoria" sottoscritta al momento della cessazione del rapporto:
in tale quietanza, infatti, non si rinviene alcun riferimento all'equo premio ne' viene manifestata la consapevolezza della sua debenza ovvero la volontà di rinunciarvi, sicché alla stessa non può attribuirsi alcun valore abdicativo (conf. Cass., 26.1.1995, n. 933;
Cass., 13.6.1998, n. 5930). Per la cassazione di questa sentenza la società propone ricorso, articolato in quattro motivi, cui resiste l'intimato con controricorso.
In prossimità dell'udienza la società ha depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 23 del r.d. 29.6.1939, n. 1127 e dell'art. 2103 c.c., sostenendo che erroneamente il Tribunale aveva inquadrato le invenzioni ideate dallo Scatà nella categoria delle invenzioni di azienda anziché in quelle di servizio. L'attività di ricerca affidata allo Scatà era volta proprio all'ottenimento di invenzioni, e non di mere applicazioni.
Nè era significativa la circostanza che non era intervenuta tra le parti alcuna rinegoziazione delle originarie condizioni contrattuali, atteso che il diritto alle superiori mansioni "inventive" era stato conseguito dal lavoratore ex lege, in virtù dell'art. 2103 c.c., con l'attribuzione allo stesso della qualifica e dei corrispondenti diritti e doveri.
In ogni caso - osserva la ricorrente - la retribuzione è solo un indice utilizzabile per la qualificazione dell'invenzione come invenzione di azienda, ma non è l'indice esclusivo, essendo piuttosto decisivo il contenuto della prestazione lavorativa. Il motivo non può essere accolto.
Va premesso che l'art. 23 della legge brevetti stabilisce, al primo comma, che, quando l'invenzione "è fatta nell'esecuzione o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d'impiego, in cui l'attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita, i diritti derivanti dall'invenzione stessa appartengono al datore di lavoro...".
Il secondo comma aggiunge che, "se non è prevista una retribuzione, in compenso dell'attività inventiva, e l'invenzione è fatta nell'esecuzione o nell'adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d'impiego, i diritti derivanti dall'invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all'inventore spetta un equo premio per la determinazione del quale si terrà conto dell'importanza dell'invenzione".
Leggendo i due commi in connessione tra loro e con riferimento ai principi generali dell'ordinamento (secondo quanto impone l'art. 12 disp. prel. c.c.), si evidenziano almeno due elementi comuni ad entrambe le previsioni: da una parte la circostanza che l'invenzione sia avvenuta nell'ambito dell'esecuzione del contratto di lavoro subordinato, dall'altra la conseguenza dell'appartenenza al datore di lavoro dei diritti patrimoniali derivanti dall'invenzione - fermo restando, in ogni caso, il diritto morale del dipendente ad essere considerato autore dell'invenzione, secondo quanto disposto dall'art. 2590 c.c. Come è noto, l'attribuzione (a titolo originale) al datore di lavoro dei diritti patrimoniali rappresenta di per sè un sensibile scostamento rispetto al principio fondamentale in materia brevettuale, secondo cui è l'autore dell'invenzione ad essere titolare dei diritti di utilizzazione economica (artt. 1 e 18 del r.d. cit). Tale scostamento - del tutto comprensibile per l'apporto, di solito i decisivo, che l'organizzazione dell'impresa conferisce alla genesi ed all'attuazione dell'invenzione - giustifica la necessità (già avvertita da Cass., 16.1.1979, n. 329) di una interpretazione restrittiva delle regole che escludono il diritto del dipendente all'equo premio.
La previsione del beneficio che il secondo comma dell'art. 23 riconosce al dipendente (espropriato del diritto di utilizzazione economica) risponde infatti ad una logica indennitaria, che si coglie valorizzando lo specifico contenuto del contratto individuale di lavoro voluto dalle parti. Ed infatti il dato nettamente differenziale tra le fattispecie previste dai due commi, risiede nell'essere o non "prevista una retribuzione" in compenso dell'attività inventiva: solo nel primo comma, infatti, l'attività inventiva, o, comunque il suo perseguimento (Cass., 6.3.1992, n. 2732), è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e "a tale scopo retribuita".
Emerge, allora, con chiarezza il connotato distintivo della fattispecie del secondo comma dell'art. 23 (la cd. "invenzione d'azienda") rispetto a quella di cui al primo comma (la cd. "invenzione di servizio"): nella prima, infatti, la prestazione del dipendente, pur consistente nel perseguimento di un risultato inventivo, risulta essere presa in considerazione dalle parti - ai fini del corrispettivo economico - nella sua "qualità", intesa come mera potenzialità inventiva, nel senso che il conseguimento dell'invenzione non rientra nell'oggetto dell'attività dovuta, anche se resta pur sempre collegata a questa stessa attività. Certo, l'invenzione non deve essere del tutto occasionale o spontanea, ne' completamente estranea all'oggetto, in senso tecnico, del contratto (ma non è questa l'ipotesi in esame),perché in tal caso essa rientrerebbe piuttosto nella previsione dell'art. 24 della stessa legge brevetti, che conferisce al datore di lavoro soltanto un diritto di prelazione sull'utilizzazione economica dell'invenzione, la cui titolarità appartiene, in origine, al lavoratore inventore.
Presupposto essenziale dell'art. 23 è, invece, - come già si è detto più sopra - che l'invenzione sia stata realizzata "nell'esecuzione o nell'adempimento" del contratto, mentre ciò che manca, rispetto all'invenzione di servizio, è lo specifico corrispettivo, in cui luogo la legge prevede, appunto, l'equo compenso.
Naturalmente il discrimine in concreto tra le due fattispecie a confronto può essere non agevole, atteso che ogni prestazione di lavoro subordinato è in sè di mezzi, mentre l'invenzione è un risultato, per di più aleatorio o meglio incerto, come invece tende a non essere la retribuzione. Ma a parte l'ammissibilità, in via di principio, di forme o comunque di voci o componenti retributive legate al risultato, la previsione del primo comma dell'art. 23, rispetto a quella del secondo comma, sta proprio nel fatto che oggetto del contratto sia l'attività inventiva, cioè il particolare impegno per raggiungere un risultato prefigurato dalle parti, dotato dei requisiti della brevettabilità stabiliti dalla legge, e che, a tale scopo sia prevista una retribuzione. Del resto, sul piano interpretativo evolutivo, va tenuto presente che la tecnica legislativa utilizzata dall'art. 23, c. 2, ha trovato, sia pure a distanza di parecchi anni, una suggestiva eco nell'art. 4 della legge 13.5.1985, n. 190 sui "quadri", il quale stabilisce che i contratti collettivi "possono definire le modalità tecniche di valutazione e l'entità del corrispettivo dell'utilizzazione" (in sostanza, l'equo premio), tra l'altro, per le invenzioni che "non costituiscano oggetto della prestazioni di lavoro dedotta in contratto, ammettendo, dunque, che l'invenzione, benché costituente risultato, possa a tal punto caratterizzare la prestazione da divenirne l'oggetto (Cass., n. 6117/1985). Altra assonanza del citato art. 23, c. 2, è possibile scorgere, sia pure per grandi linee, con le regole relative al patto di non concorrenza disciplinato dall'art. 2125 c.c. in cui l'espropriazione di diritti fondamentali del lavoratore (alla libertà di lavoro e di iniziativa privata) è valida a condizione che sia riconosciuto un equo compenso. Con la differenza, derivante dalla diversa struttura dei fatti, che il patto di non concorrenza è nullo se non è previsto il compenso, mentre, nel caso dell'invenzione - che essendo già nella sfera del datore di lavoro, per diretta disposizione di legge, non può essere retrocessa al dipendente inventore - la tutela dell'interesse del dipendente è meramente economica e segue l'alternativa o del riconoscimento della specifica e distinta remunerazione (che è un'area per il datore di lavoro, ma esclude il più gravoso equo premio) ovvero del riconoscimento dell'equo premio, che si ha solo nel caso di invenzione brevettata. Una volta precisato, per quanto sopra esposto, il discrimine tra le due fattispecie disciplinate dal primo e dal secondo comma dell'art. 23, compito del giudice di merito è quello di accertare - sulla base della interpretazione del contratto basata sui criteri dettati dall'art. 1362 c.c. - se le parti hanno voluto in effetti pattuire una retribuzione che, sia pure in parte, si collochi come corrispettivo dell'obbligo del dipendente di svolgere un'attività inventiva.
In proposito questa Corte ha, a più riprese (sent. n. 329/1979 cit, sent. 5.11.1997, n. 10851, sent. 21.7.1998, n. 7161;
sent. 6.11.2000, n. 14439), sottolineato che si tratta di indagare sulla volontà delle parti, non operando "ex post", quando l'invenzione è stata conseguita, perché con questo criterio si dovrebbe considerare pattuita l'attività inventiva in tutti i casi in cui la prestazione lavorativa abbia dato luogo, comunque, ad un'invenzione, ma indagando "ex ante" sull'effettivo intendimento delle parti. Nè può assumere rilievo la maggiore o minore probabilità che dall'attività lavorativa pattuita scaturisca l'invenzione, di tal che, ogniqualvolta sia probabile quel risultato, si dovrebbe automaticamente considerare come rientrante nella previsione contrattuale. Ed infatti, delle due l'una: o le parti hanno espressamente previsto l'invenzione come oggetto dell'attività lavorativa, ovvero non l'hanno prevista, ed allora l'elemento probabilistico, che può essere connaturato alla diversa attività pattuita, non assume rilevanza e non può considerarsi integrata la fattispecie di cui al primo comma dell'art. 23.
Se ne trae un'ulteriore conferma della dizione del secondo comma di tale norma, il quale riguarda, appunto, l'ipotesi in cui l'invenzione non è stata prevista come oggetto del contratto, ma sia stata conseguita nel corso dell'esecuzione del contratto o del rapporto di lavoro, sicché proprio per questo le parti non hanno pattuito alcuna retribuzione per l'attività inventiva (Cass., 6.3.1992, n. 2732). Orbene, il Tribunale di Ferrara, attraverso una compiuta indagine, ha potuto escludere del tutto che una tale retribuzione fosse stata prevista dalle parti, considerando - tra l'altro - che il trattamento economico riconosciuto allo Scatà, anche dopo la sua destinazione ad attività di ricerca finalizzata all'invenzione, non ha subito alcuna significativa modificazione, ne' tale destinazione ha comportato alcuna rinegoziazione delle originarie condizioni contrattuali. A ciò ha aggiunto il Giudice del gravame che "neppure sono emersi elementi specifici atti a far ritenere una correlazione causale tra la retribuzione percepita e la prestazione inventiva". Inoltre, dalla specifica indagine peritale eseguita d'ufficio, lo stesso Giudice, ha tratto la convinzione - in questa sede non sindacabile perché sorretta da una motivazione esente da vizi logici - che lo Scatà aveva avuto una normale progressione di carriera, anche economica, all'interno della società e che gli aumenti retributivi riconosciutigli nel corso del rapporto - analiticamente esaminati anche dal Giudice di prime cure - benché sicuramente influenzati dai positivi risultati conseguiti, non erano mai stati destinati a compensare lo sforzo inventivo, essendo piuttosto legati ad ordinari passaggi di qualifica. Le considerazioni che precedono non consentono di condividere l'avviso che la società ricorrente ha ritenuto di ricavare dalla sentenza n. 14439 del 2000 di questa Corte, affermandone una certa dissonanza con la precedente sentenza n. 7161 del 1998, oggetto di rilievi critici.
Ed invero la stessa società, nella memoria illustrativa, così sintetizza la propria argomentazione difensiva, invocando a sostegno la sentenza del 2000: a) l'ipotesi prevista dal primo comma dell'art. 23 si realizza specificamente "quando le parti si accordano nel senso che oggetto della prestazione lavorativa sia l'attività inventiva";

b) il primo comma dell'art. 23 richiede testualmente che, per la ricorrenza di quella ipotesi, debbano sussistere insieme "una attività inventiva e una retribuzione per detta attività;
c) l'ipotesi prevista dal secondo comma presuppone, invece, la mancanza di una specifica previsione contrattuale del risultato inventivo. È opportuno, in questa sede, nuovamente chiarire - anche per l'autorevolezza della difesa da cui muovono le censure in esame - quanto già anticipato nella citata sentenza del 1998, e cioè che, secondo la formulazione testuale dell'art. 23 l.b., non solo la fattispecie normativa dell'invenzione di servizio, ma anche quella dell'invenzione di azienda, presuppongono un'attività lavorativa "inventiva".
Ne discende necessariamente che, mentre in difetto del carattere inventivo dell'attività dedotta in contratto si resta al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 23 (dovendo invece trovare applicazione l'art. 24 l.b. relativo alle cd. invenzioni occasionali), in presenza di un'attività di ricerca diretta all'invenzione, prevista da entrambi i commi dell'art. 23, l'elemento distintivo non può che essere rintracciato nell'esplicita previsione contrattuale di una speciale retribuzione volta a compensare l'attività inventiva, in mancanza della quale spetta l'equo premio.
A questa conclusione induce un antico e sempre autorevole insegnamento concernente il diritto dei beni immateriali, secondo cui, in presenza di un'attività inventiva svolta in regime di subordinazione, si possono verificare due ipotesi: che detta attività sia oggetto di una speciale remunerazione, ovvero che, pur rientrando la ricerca e lo scopo inventivo nell'ambito del rapporto, essa tuttavia non sia a detto fine remunerata: orbene, sono proprio queste le due fattispecie menzionate nel primo e nel secondo comma dell'art. 23 l.b..
Nella richiamata sentenza n. 7161 del 1998 - che a questa dottrina di ispirava - si rilevava, altresì, che, anche nel caso in cui l'attività inventiva costituisca l'oggetto del contratto, si resta pur sempre in presenza di un'obbligazione di mezzi e non di risultato, sicché l'obbligazione del lavoratore, dato il carattere del tutto eventuale ed aleatorio del prodotto inventivo, non può che risolversi nel dovere di svolgere la propria attività con l'uso della normale diligenza, facendo tutto quanto è ragionevolmente possibile per inventare (facere quantum possum a scopo inventivo). Tuttavia l'attività inventiva o quella di ricerca non può di per sè ritenersi completamente estranea all'oggetto del contratto, inteso in senso tecnico, neanche nell'ipotesi prevista dal secondo comma dell'art. 23, dovendo l'invenzione essere realizzata "nell'esecuzione o nell'adempimento" del contratto e, quindi, nello svolgimento di un'attività costituente oggetto di questo. Che, del resto, l'elemento distintivo che caratterizza l'invenzione di servizio rispetto all'invenzione di azienda si sostanzi nella previsione contrattuale di una speciale remunerazione del risultato inventivo, sembra dimostrato dall'incipit del secondo comma dell'art. 23, là dove recita: "se non è prevista e stabilita una retribuzione in compenso dell'attività inventiva". Nello stesso senso inoltre si esprimeva la stessa relazione ministeriale al - mai entrato in vigore r.d. 13.9.1934, n. 1602 - nel commentare l'art. 22 (poi divenuto art. 23 della legge brevetti).
Col secondo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2946 e degli arti 4 e 23 della legge brevetti, non avendo il Tribunale fatto decorrere la prescrizione decennale dalla domanda di brevetto che costituisce il momento in cui il titolare comincia a godere di strumenti di protezione della sua posizione (es. inibitoria ecc).
Col terzo motivo si insiste sulla prescrizione di almeno uno dei brevetti (concesso il 18 sett. 1985, non essendo intervenuto alcun atto interruttivo (come quello contenuto nella lettera del 3.11.1995) (v. ricorso pp. 30 e 36/37).
Entrambi i motivi - che per loro connessione conviene esaminare congiuntamente - sono solo in parte fondati nei termini che seguono. In via di principio non v'è ragione per discostarsi dalla giurisprudenza costante di questa Corte, secondo la quale all'esercizio del diritto all'equo premio previsto dal citato art. 23 del r.d. n. 1127 del 1939 - consistente in una controprestazione
straordinaria di carattere indennitario corrisposta una tantum per una prestazione straordinaria costituita dal risultato inventivo non rientrante nell'attività dovuta dal lavoratore - si applica la prescrizione decennale prevista dall'art. 2946 c.c. e non quella breve prevista dall'art. 2948 c.c. che si riferisce piuttosto alle prestazioni periodiche inserite in una causa debendi continuativa. La medesima giurisprudenza ha precisato, altresì, che detta prescrizione (- il cui decorso non è sospeso in corso di rapporto di lavoro - inizia a decorrere dalla data della concessione del brevetto (Cass., 10.1.1989, n. 30). Non è, dunque, corretto individuare il dies a quo della prescrizione facendo riferimento ad un momento in cui il diritto non è ancora nato, ne' può essere fatto valere nella sua compiutezza (arg. art. 1935 cc), laddove l'operatività degli strumenti di protezione anticipata rispetto a questo momento, evocati dalla difesa della società ricorrente, esauriscono la loro funzione entro i limiti di una tutela affatto cautelare e provvisoria. Coerente con questo indirizzo, la Corte ha più di recente completato il quadro di riferimento, sottolineando che il diritto del lavoratore all'equo premio ed il correlativo obbligo del datore di lavoro di corrisponderlo sorgono con il conseguimento del brevetto, non essendo sufficiente che si tratti di innovazioni suscettibili di brevettazione ma non ancora brevettate. Il diritto del lavoratore consegue, infatti, contemporaneamente all'insorgenza in favore del datore di lavoro dei diritti derivanti
dall'invenzione, i quali sono appunto conferiti, ai sensi dell'art. 4 dello stesso r.d., solo con la concessione del brevetto, sicché è solo la brevettazione - in quanto costitutiva - che condiziona l'insorgere dei diritti del datore di lavoro e, quindi, del diritto del prestatore al premio (così, Cass., 5.6.2000, n. 7484). Nell'occasione la Corte chiarì che il collegamento logico e funzionale tra i due diritti ne comportava la medesima sorte nel caso di rimozione o annullamento del brevetto, con l'ulteriore precisazione che non poteva venir meno il diritto del lavoratore inventore prima che il brevetto venisse rimosso o annullato in esito all'apposita procedura delineata dalla legge n. 1127/1939 (artt. 70, 78 e 80) svolta nella sede giurisdizionale competente. In sostanza, può dirsi che i diritti in gioco, quello "morale" appartenente a titolo originale all'inventore, il diritto "patrimoniale" attribuito all'imprenditore datore di lavoro, e il diritto all'equo premio di cui è causa, seguono il medesimo corso: "simul stabiliti simul cadunt".
Ciò detto in via di principio, resta da verificare l'esistenza di eventuali atti interruttivi della prescrizione, richiamati dalla società sia pure con riferimento ad uno dei brevetti attribuiti alla paternità del dipendente.
In proposito, sembrano fondati i due motivi in scrutinio, con riferimento specifico al brevetto n.

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