Cass. civ., sez. V trib., sentenza 09/06/2023, n. 16460

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. V trib., sentenza 09/06/2023, n. 16460
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 16460
Data del deposito : 9 giugno 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 2799 8 del ruolo generale dell’anno 201 6 proposto da: DU.AL. s.r.l., in liquidazione, in persona del legale rap presenta n te, rappresentatae difesa da ll’Avv. T R per procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo di posta elettronica certificata avvteodororeppucci@lamiapec.it del medesimo difensore;

- ricorrente -

contro

Oggetto: operazioni inesistenti – costi deducibili - Agenzia delle entrate, in persona del Direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,è domiciliata;

- controricorrente -

per la cassazione della sentenza dellaCommissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, n. 385 9 /2/2016, depositata in data 28 aprile 2016;
udita la relazione svolta nella udienza pubblicadel17 gennaio 2023 dal Consigliere G T;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto P rocuratore Generale Dott. T B, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del primo motivo ed il rigetto dei restanti motivi di ricorso;
udito per l’Agenzia delle entrate l’Avvocato generale dello Stato A P.

Fatti di causa

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a lla società DU.AL. s.r.l., un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno 2006, aveva recuperato a tassazione un maggior reddito;
avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Avellino;
la società aveva quindi proposto appello. La Commissione tributaria regionaledella Campania, sezione staccata di Salerno, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non sussistevano i vizi formali e procedurali prospettati dalla società;
gli elementi di prova presuntiva fatti valere dall’amministrazione finanziaria erano idonei per ritenere che la società era inserita in una frode carosello e che la stessa aveva svolto una attività fraudolenta, tenuto conto dei rapporti con società aventi il medesimo assetto proprietariodi fatto, della mancanza di una logica imprenditoriale,della sussistenza di rapporti con soggetti interessati anch’essi da analoghi accertamenti per frodi carosello, della costante sottrazione all’obbligo di versamento delle imposte, dell’assenza di strutture e risorse adeguate, la società non aveva fornito adeguata prova contraria;
infine, non poteva trovare applicazione, nel caso di specie, lo ius superveniens di cui all’art. 8, d.l. n. 16/2012 in materia di costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti, attesa la palese connivente centralità della società nella frode. Avverso la suddetta pronuncia la società ha quindi proposto ricorso affidato atre motiv i di censura , cui ha resistito l ’Agenzia delle entrate depositando controricorso. Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. T B, ha depositato leproprie conclusioni con le quali ha chiesto l’accoglimento del primo motivo di ricorso. Ragioni della decisione Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 8, commi 1 e 2, d.l. n. 16/2012, per avere erroneamente escluso la deducibilità dei costi sostenuti nonostante il fatto che le operazioni contestate erano relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, non assumendo rilevanza la consapevolezza del soggetto acquirente del carattere fraudolento delle operazioni, come invece evidenziato dal giudice del gravame, dovendosi solo verificare la concreta deducibilità in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 8, commi 1 e 2, d.l. n. 16/2012,per avere omesso di motivare in relazione al ruolo illecito di interposizione nelle transazioni commerciali della società ed agli elementi diretti a provare la propria buona fede, non potendo ritenersi, a tal fine, sufficiente l’affermazione in ordine alla “palese connivente centralità”nella frode assunto dalla società, non essendo sufficiente, al fine di negare la deducibilità dei costi sostenuti, il coinvolgimento, anche consapevole dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo fornitore. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono in parte infondati e in parte inammissibili. Invero, va osservatoche i motivi di ricorso in esame prospettano una violazione dell’art. 8, comma 1 e 2, d.l. n. 16/2012, ragionando in ordine alla applicabilità al caso di specie delle previsioni contenute nei commi sopra citati in modo del tutto indifferenziato, facendo espresso riferimento alla circostanza che, avendo l’amministrazione finanziaria contestato la inesistenza soggettiva delle operazioni, si sarebbe dovuto, comunque, riconoscere la deducibilità dei costi. Va evidenziato, a tal proposito, che i commi 1 e 2, dell’art. 8, cit., hanno riguardo a due diversi ambiti di applicazione. Il comma 1, in particolare, esclude che possa essere riconosciuta la deducibilità dei costi sostenuti per operazioni soggettivamente inesistenti: questa Corte, invero, ha precisato che: "In tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993 art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012 art. 8, comma 1, (conv. in L. n. 44 del 2012), poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente "al fine di commettere il reato, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento anche consapevole, dell'acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall'effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986 art. 109" (Cass. civ., 29 agosto 2022, n. 25474). La suddetta previsione normativa, dunque, esclude che possa essere riconosciuta la deducibilità dei costi nel caso in cui l’operazione sia da considerarsi oggettivamente inesistente, mentre può essere riconosciuta in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, posto che, in tal caso, le operazioni sono realmente avvenute, sebbene la cessione sia avvenuta da soggetto diverso rispetto a quello risultante dalla fattura. Il comma 2, d’altro lato, disciplina la diversa ipotesi del riconoscimento, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, della non concorrenza dei componenti positivi alla formazione del reddito oggetto di verifica che siano direttamente afferenti a spese od altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati. Questa Corte ha più volte precisato che l’art. 8, comma 2, cit., ha stabilito, con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti, che i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiatio prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese (Cass. civ., 19 dicembre 2019, n. 33915), salva l'applicazione di una sanzione e che, in siffatte ipotesi, grava sul contribuente l'onere di provare che i componenti positivi, che si duole abbiano nell'accertamento concorso alla formazione del reddito, siano anch'essi fittizi, perchè ricavi "correlati", ossia direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati (Cass. civ., n. 19000 del 2018, cit.;
Cass. n. 25967 del 2013). Ciò precisato, va osservato che, come si evince dalla sentenza, quel che la ricorrente aveva prospettato al giudice del gravame era la questione della deducibilità dei costi “documentati da fatture soggettivamente inesistenti”. A tale postulazione di giudizio il giudice del gravame ha dato compiuta risposta, ritenendo, diversamente da quanto postulato dalla ricorrente con il secondo motivo di ricorso, che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento del diritto alla deduzione dei costi. Nel caso di specie, l’affermazione in ordine al fatto che la ricorrente era risultata avere una “palese connivente centralità nella frode” consegue all’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame che ha evidenziato che: l’amministrazione finanziaria aveva contestato, nel p.v.c., che: la società “è una cartiera, interposta tra i reali fornitori ed i reali clienti della The Blue Phone Company ltd e delle altre imprese con le quali ha avuto rapporti”;
“l’accertamento riguardava l’essere una società cartiera, amministrata da un prestanome, con inesistenza delle operazioni” (vd. pag. 4, sentenza);
gli elementi di prova presuntiva portavano a ritenere che le operazioni erano state eseguite “con interposizione della DUAL che potevano direttamente essere operate tra fornitore e successivo acquirente” (vd. pag. 5, sentenza);
che doveva escludersi che potesse addivenirsi, per aspetti di dettaglio, “a conclusione diversa circa la natura cartiera della società”, priva di adeguate strutture ed operante “principalmente con altre società aventi analogo assetto proprietario (…) ovvero inserite in analoghe frodi carosello”;
dunque, le incongruenze rilevate deponevano per una funzione solo di schermo e di non reale operatività della DUAL (vd. pag. 8, sentenza). La stessa società ricorrente, in sede di terzo motivo di ricorso, evidenzia che “la GdF attribuisce la qualifica di società cartiera alla ricorrente. Lo si legge, infatti, a pag. 2 del PVC: per quanto sopra sinteticamente riportato…si ritiene che la società DU.AL s.r.l. è una società cartiera”.In sostanza, la ricostruzione fattuale operata dal giudice del gravame, in linea con la prospettazione dell’amministrazione finanziaria operata con l’avviso di accertamento, è stata nel senso che la società ricorrente operasse come mera società cartiera, interponendosi essa tra gli effettivi fornitori ed acquirenti, e che non avesse una sua reale operatività, il che comporta una valutazione di inesistenza oggettiva delle operazioni di cui alle fatture. Sotto tale profilo, correttamente il giudice del gravame ha escluso che potesse trovare applicazione la previsione contenuta nell’art. 8, d.l. n. 16 del 2012, non potendosi ragionare, in tal caso, di acquisti effettivamente compiuti dalla società, stante la sua non reale operatività. Ed è questo, in sostanza, il senso dell’affermazione conclusiva compiuta dal giudice del gravame, censurata con il secondo motivo di ricorso, laddove, dopo avere operato la ricostruzione fattuale dell’effettivo ruolo assunto dalla ricorrente, ha ritenuto non applicabile lo jus superveniens invocato dalla ricorrente attesa la “palese connivente centralità della Dual nella frode”, volendo, in tal modo, accentuare la posizione assunta dalla medesima quale mero soggetto che si era interposto nell’ambito delle operazioni effettivamente eseguite da altri soggetti. In questo ambito, non correttamente parte ricorrente censura la pronuncia per non avere motivato in ordine al ruolo illecito di interposizione delle transazioni commerciali ed allacondizione di buona fede della medesima, posto che, come detto, quel che il giudice del gravame ha accertato e posto a base del ragionamento conclusivo è il fatto che, tenuto conto degli elementi specifici presi in considerazione e dopo avere provveduto alla ricostruzione fattuale dell’attività effettivamente svolta, la stessa doveva essere qualificata come società cartiera avendo assunto, senza alcuna reale operatività, un ruolo centrale nell’ambito del meccanismo fraudolento. Circa poi, il richiamo alla previsione di cui all’art. 8, comma 2, cit., lo stesso è inammissibile per diversi profili. In primo luogo, l’applicabilità della suddetta previsione al caso di specie è stata prospettata senza tenere conto dell’autonomia dispositiva della stessa rispetto a quella di cui all’art. 8, comma 1, cit., avendo la ricorrente fatto contestuale riferimento, peraltro nell’ambito di un contesto, evincibile dai motivi di ricorso in esame, in cui parte ricorrente mostra di orientarsi nel senso della natura soggettivamente inesistente delle operazioni, in contrasto con l’accertamento fattuale compiuto dal giudice del gravame consistente nell’inesistenza oggettiva delle operazioni. D’altro lato, la questione dell’applicabilità al caso di specie della previsione in esame non risulta prospettata dinanzi al giudice del gravame, al quale era stata postulata solo la questione del diritto al riconoscimento dei costi. In ogni caso, si è già precisato che, affinchè i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati possano non concorrere alla formazione del reddito oggetto di rettifica, è onere del contribuente dare la prova che anche i componenti positivi siano anch'essi fittizi, perché ricavi "correlati", ossia direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati: ma i motivi, sul punto, difetto di specificità, non risultando dagli atti di causa che la ricorrente avesse assolto al suddetto onere probatorio. Per completezza, inoltre, va evidenziato che risulta inammissibile l’ulteriore profilo di censura, di cui al secondo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente lamenta la mancata considerazione di specifici elementi fattuali da essa fatti valere al fine di dimostrare che i rapporti commerciali erano reali e non fittizi. Va osservato, in primo luogo, che parte ricorrente introduce tale profilo di censura nell’ambito del secondo motivo con il quale, in realtà, prospetta una violazione di legge, mentre il profilo ora in esame ha riguardo, eventualmente, al vizio di motivazione. Sotto questo ultimo ambito, peraltro, gli elementi fattuali evidenziati dalla ricorrente, oltre che essere privi di specificità, risultano, comunque, contrastanti con l’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame in ordine alla non effettività delle operazioni, sicchè tendono ad una non ammissibile rivalutazione nel merito della controversia. Privo di pregio, infine, è il riferimento alle sentenze definitive passate in giudicato del tribunale penale di Roma, sia in quanto nessuna allegazione delle stesse risulta compiuto dalla ricorrente, sia in quanto la stessa parte ricorrente riporta, in ricorso, la sola circostanza che le suddette pronunce avrebbero assolto gli amministratori della società The Blue Phone s.r.l. dalla frode carosello, ma tale circostanza non può essere comunque idonea a contrastare gli accertamenti in fatto compiuti dal giudice del gravame in ordine alla assoluta mancanza di effettività dell’attività svolta dalla ricorrente. D’altro lato, questa Corte (Cass. civ., 8 ottobre 2020, n. 21694) ha precisato che il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all'art. 372, cod. proc. civ., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., al solo fine di dimostrare l'effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tale evenienza, infatti, la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all'affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. Tale conclusione rileva, a maggior ragione, con riguardo alle specificità del giudizio tributario, nel quale la sentenza penale irrevocabile non ha mai efficacia di regula iuris, cui il giudice civile deve necessariamente attenersi, vigendo, invece, le limitazioni probatorie sancite dall'art. 7, comma 4, d.lgs. n. 546 del 1992, e potendo ivi valere anche le presunzioni, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (Cass. civ., 27 giugno 2019, n. 17258). Ne consegue che in questi casi va ritenuta l'inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all'ambito previsionale dell'art. 372, cod. proc. civ., (Cass. civ., 19 novembre 2010, n. 23483;
Cass. civ., 26 settembre 2017, n. 22376). Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), per violazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio, e 360, n. 5), cod. proc. civ., per difetto di motivazione sulla esistenza dei requisiti di una società cartiera. Evidenzia parte ricorrente che la natura di società cartiera, posta a fondamento della pretesa dell’amministrazione finanziaria, non sarebbe corretta, posto che la stessa, invero, era operativa, aveva provveduto ai pagamenti dovuti, aveva tenuto regolarmente la contabilità, non risultava che avesse venduto ad un prezzo inferiore a quello d’acquisto, non potendosi fare ricadere sulla medesima le responsabilità fiscali derivanti dall’eventuale comportamento fraudolento del cedente. Il motivo è inammissibile.Lo stesso, invero, non si confronta in alcun modo con l’accertamento fattuale compiuto dal giudice del gravame che, peraltro in adesione a quello già compiuto dal giudice di primo grado, ha ritenuto che la società avesse posto in essere un’attività fraudolenta atteso il suo ruolo di società cartiera. In particolare, il giudice del gravame ha evidenziato, nel suo percorso motivazionale, sulla base di quali elementi di prova presuntiva ha ritenuto che la società avesse operato come soggetto che si interponeva nell’ambito delle operazioni commerciali di terzi: il fatto che la stessa aveva sede in un miniappartamento adattato ad uso ufficio, sempre trovato chiuso dal 2004 al 2007, non disponeva di propri magazzini o altri luoghi per l’esercizio dell’attività né di automezzi fino al 30 giugno 2005;
non aveva pagato alcuna imposta;
la società, partecipatada due socie, aveva avuto rapporti di fornitura e di acquisto con società amministrate dai rispettivi coniugi delle medesime o con altre società parimenti coinvolte nella frode, con unico circuito finanziario riconducibile sempre alle stesse persone;
la stessa aveva operato al di fuori della logica commerciale, avendo operato al tempo stesso come cliente e fornitore della stessa società con analogo assetto proprietario di fatto, ovvero si era interposta in operazioni che, invece, avrebbero potuto essere direttamente operate tra il fornitore ed il successivo acquirente, trattandosi di soggetti che avevano analogo assetto proprietario di fatto;
il fatto che erano stati riscontrati elementi di commistione tra i soggetti fisici e giuridici coinvolti;
il fatto che non era stata rivenuta alcuna documentazione attestante l’effettiva ricezione delle merci spedite in ambito comunitario;
il fatto che i beni venduti dalla The Blue Phone (amministrata da Vernacchia Pietro) erano stati materialmente recapitati prevalentemente in un luogo nella disponibilità del medesimo Vernacchia e non della società ricorrente e che vendite formalmente operate dalla ricorrente in realtà avevano riguardato spedizioni con partenza da indirizzo prossimo ad altra società. Con il complesso di questi accertamenti fattuali non si misura in alcun modo il presente motivo di ricorso, prospettando, genericamente, senza alcuna specificazione, la mancanza di una corretta applicazione dei principi in materia di riparto dell’onere della prova nonché l’omesso esame di elementi di prova contraria, nonostante che il giudice del gravame mostri, in sentenza, di avere specificamente tenuto conto delle prove contrarie prospettate ma, al tempo stesso, di averle ritenuto non idonee a superare la idoneità del quadro probatorio offerto dall’amministrazione finanziaria. In conclusione, il primo e secondo motivo sono in parte infondati ed in parte inammissibili, è inammissibile il terzo motivo , con conseguente rigetto delricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite. Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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