Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 12/03/2018, n. 05953

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 12/03/2018, n. 05953
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 05953
Data del deposito : 12 marzo 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

la seguente SENTENZA sul ricorso 13438-2013 proposto da: POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE MAZZINI

134, presso lo studio dell'avvocato F L, rappresentata e difesa dallavvocato G G, giusta delega 2017 in atti;
- ricorrente-

contro

C S;
- intimata - avverso la sentenza n. 451/2012 della CORTE D'APPELLO di CATANIA, depositata il 24/05/2012 R.G.N. 849/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/11/2017 dal Consigliere Dott. C P;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. F C, che ha concluso per l'accoglimento del settimo motivo del ricorso;
udito l'Avvocato FRANCESCA BTE per delega verbale Avvocato GAETANO GRANOZZI. R.G. n. 13438/2013

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d'appello di Catania, con sentenza n. 451 pubblicata il 24.5.2012, in parziale riforma della sentenza impugnata (che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto concluso, per il periodo 1 febbraio - 30 aprile 2002, "per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo anche un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all'introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonché all'attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre 2001, 11 dicembre 2001, 11 gennaio 2002", e disposto la conversione in rapporto a tempo indeterminato, condannando la società datoriale alla riammissione in servizio della dipendente e al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dalla data di messa in mora), ha condannato la società appellante al risarcimento del danno quantificato, ai sensi dell'art. 32, L. 183 del 2010, in misura pari a 3,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla scadenza del termine originariamente apposto al contratto e fino al saldo.

2. La Corte territoriale ha ritenuto soddisfatto, per relationem, il requisito di specificità delle ragioni giustificatrici del termine apposto al contratto ma non assolto, da parte datoriale, l'onere di prova della effettiva sussistenza delle ragioni medesime, con conseguente conferma della declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Poste Italiane spa, affidato a sette motivi. La lavoratrice è rimasta intimata.

4. La società ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso Poste Italiane spa ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articoli 1372, comma 1, 1175, 1375, 2697 cod. civ. (art. 360 n.3 c.p.c.) in relazione al rigetto dell'eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso. La società ricorrente ha, in particolare, censurato la i R.G. n. 13438/2013 statuizione del giudice di appello nella parte in cui ha escluso che dal solo decorso del tempo potesse desumersi la volontà risolutiva del rapporto.

2. Il motivo è infondato alla luce del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, (cfr. Cass. n. 13535 del 2015;
Cass. n. 6549 del 2015;
Cass. n. 17940 del 2014;
Cass. n. 26935 del 2008). E' stato in particolare precisato come "con riferimento al caso dei contratti a tempo determinato, la mancata impugnazione della clausola che fissa il termine viene considerata indicativa della volontà di estinguere il rapporto di lavoro tra le parti a condizione che la durata di tale comportamento omissivo sia particolarmente rilevante e che concorra con altri elementi convergenti, ad indicare, in modo univoco ed inequivoco, la volontà di estinguere ogni rapporto di lavoro tra le parti. Il relativo giudizio attiene al merito della controversia", (Cass., S.U., n. 21691 del 2016;
Cass., 29781 del 2017).

3. Nel caso in esame, la Corte territoriale si è attenuta al principio sopra richiamato escludendo che il solo dato del decorso del tempo tra l'estromissione dal lavoro e la messa in mora, peraltro inferiore nel caso di specie a due anni, potesse considerarsi dimostrativo di una volontà disnnissiva del rapporto da parte della lavoratrice. Il motivo di ricorso in esame argomenta unicamente sulla valenza indiziaria del tempo trascorso dopo la scadenza del termine e si pone quindi in contrasto i principi a cui questa Corte intende dare continuità.

4. Col secondo motivo Poste Italiane spa ha dedotto la nullità della sentenza in relazione all'art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 4 c.p.c.) per omessa statuizione della Corte territoriale su uno specifico motivo articolato nel ricorso in appello (trascritto alle pagine 9 e 10 del ricorso per cassazione) e concernente la C P, est sore R.G. n. 13438/2013 violazione, nella sentenza di primo grado, del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Il Tribunale, secondo la prospettazione di parte datoriale, avrebbe dichiarato la nullità della clausola appositiva del termine per difetto di prova dei presupposti indicati nel contratto benché la ricorrente in primo grado non avesse mai contestato il processo di mobilità in atto nel territorio nazionale né il coinvolgimento nello stesso della articolazione produttiva a cui era addetta la lavoratrice.

5. Il motivo è infondato. Secondo l'orientamento consolidato, quando con il ricorso per cassazione venga dedotto un error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l'invalidità denunciata, mediante l'accesso diretto agli atti sui quali si basa il ricorso medesimo, indipendentemente dall'eventuale sufficienza e logicità della motivazione adottata in proposito dal giudice di merito, atteso che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, (cfr. Cass., S.U., n. 8077 del 2012).

6. Tale principio è stato ribadito da Cass. n. 16164 del 2015, proprio in tema di vizio di omessa pronuncia, che ha sottolineato come spetti a questa Corte procedere direttamente all'interpretazione dell'atto processuale della cui validità si discuta e come non sia possibile scindere il momento dell'interpretazione degli atti processuali, e segnatamente delle domande delle parti, dal momento della violazione delle norme processuali, in particolare dell'art. 345 c.p.c., perché l'omessa pronuncia, come l'ultra o l'extra petizione, possono dipendere appunto da quell'erronea interpretazione oltre che da un errore di percezione.

7. Riaffermato, dunque, che spetta al giudice di legittimità, a fronte della denuncia di un error in procedendo, accertare la validità e il tenore degli atti processuali, nel caso di specie dalla lettura della sentenza di secondo grado emerge come la Corte territoriale abbia esaminato il terzo motivo di appello (riportato a pag. 9 del ricorso per cassazione) ed abbia implicitamente respinto la censura mossa alla sentenza di primo grado di non corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Difatti, la Corte territoriale, a pag. 3 e seguenti, punto 2, della sentenza, ha esaminato congiuntamente il secondo ed il terzo motivo di appello;
ha riportato le argomentazioni della società appellante secondo cui il Carla PoSe}r 2,iLeri sore R.G. n. 13438/2013 riferimento, nel contratto a termine, agli accordi di mobilità sottoscritti in sede sindacale consentiva di "reputare dimostrata la diretta corrispondenza tra l'esigenza di sostenere i livelli di servizio nell'ambito della complessiva ristrutturazione organizzativa dell'azienda e l'avvio di una procedura di mobilità su base nazionale", con la conseguenza che "sarebbe stato ... onere di parte ricorrente provare l'estraneità della propria assunzione a tempo determinato rispetto al piano di attuazione dei processi di riposizionamento delle risorse";
ha individuato la regola di distribuzione dell'onere probatorio ed ha statuito come nella fattispecie in esame, in ragione della contestazione fatta dalla lavoratrice, fosse onere di parte datoriale dimostrare "l'effettiva sussistenza di oggettive ragioni, idonee a giustificare l'apposizione della clausola di durata nonché del nesso causale tra le stesse ed il contratto in esame", (cfr. pag. 5, primo capoverso della sentenza d'appello).
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