Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 28/05/2003, n. 8468
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In materia di rendita per malattie professionali non tabellate, oppure di tutela della causa di servizio, il lavoratore ha l'onere di provare l'esistenza della malattia, le caratteristiche morbigene della lavorazione ed il rapporto eziologico tra quest'ultima e la tecnopatia. Tuttavia, qualora l'allegazione delle mansioni svolte non sia contestata da controparte, il giudice è abilitato all'uso dei poteri officiosi, in primo luogo mediante il libero interrogatorio, che ha anche funzione integrativa degli atti di costituzione. Il mancato esercizio di tali poteri da parte del giudice d'appello, soprattutto nel caso in cui il primo giudice abbia ritenuto la domanda sufficientemente spiegata in punto di descrizione dei caratteri morbigeni delle lavorazioni svolte, non è direttamente denunziabile in sede di legittimità, ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione e condurre alla cassazione della sentenza per questo motivo. (Nella specie, relativa a dipendente delle Ferrovie dello Stato, la S.C. ha rilevato che, avendo il datore di lavoro preventivamente catalogato tutte le mansioni al proprio interno, valutandone il profilo di rischio e riportandole in un fascicolo sanitario personale, il giudice del merito ha comunque l'obbligo di valutare se l'indicazione succinta delle mansioni svolte possa assolvere l'onere allegatorio , riassumendo in una definizione qualificatoria le modalità lavorative già a conoscenza del datore di lavoro).
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. S G - Presidente -
Dott. M E - Consigliere -
Dott. P D V M - Consigliere -
Dott. M F A - Consigliere -
Dott. DE M A - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RUGGIO VZA, DI L D, DI L M, eredi del Sig. L L, elettivamente domiciliati in ROMA VIA MARSALA 9, presso l'UFFICIO CENTRALE LEGALE DELL'ASSOCIAZIONE INVALIDI FAM. CADUTI F.S. (Avv. PAPADIA), rappresentati e difesi dagli avvocati EDOARDO DI BERARDINO, FRANCESCO V PAPADIA, giusta delega in atti;
- ricorrenti -
contro
FF.SS. SPA - FERROVIE DELLO STATO SOCIETÀ DI TRASPORTI E SERVIZI PER AZIONI, in persona del legale rappresentante pro tempore, già elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUDOVISI 35, presso lo studio dell'avvocato G V, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti, e da ultimo d'ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 431/00 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 02/08/00 - R.G.N. 673/2000;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/03 dal Consigliere Dott. Aldo DE MATTEIS;
udito l'Avvocato RAGUSO per delega VENETO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Riccardo FUZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 29 ottobre 1992 Luigi D L, dipendente delle Ferrovie dello Stato con mansioni di macchinista, ha convenuto in giudizio il datore di lavoro chiedendo che la infermità da cui era affetto (postumi da infarto del miocardio) venisse riconosciuta come malattia professionale o, in subordine, come dipendente da causa di servizio. Nel corso del giudizio e prima che venisse espletata la consulenza tecnica, il 7 gennaio 1993, il ricorrente decedeva per "ictus cerebrale con successivo arresto cardiaco", e la causa veniva proseguita dai suoi eredi Ruggio Vincenza, D L Daniela e D L Marcella.
Con sentenza del 14 dicembre 1999, il giudice del lavoro del Tribunale di Bari, in accoglimento della domanda subordinata, ha dichiarato il diritto del ricorrente al riconoscimento della patologia come dipendente da concausa efficiente e determinante di servizio con conseguente menomazione dell'integrità fisica assimilabile alla quarta categoria tab. A, con conseguente condanna alla corresponsione dei benefici di legge.
Ciò in conformità alla ctu, svolta sugli atti, la quale escludeva che la ipertensione arteriosa e i postumi da infarto acuto del miocardio costituissero malattia professionale, ed affermava che dette patologie dovevano essere considerate "concausa efficiente e determinante di servizio".
L'appello della Ferrovie dello Stato S.p.A. è stato accolto dalla Corte d'Appello di Bari con sentenza 2 agosto/14 settembre 2000 n. 431, che ha rigettato la domanda, sulla base di due ordini di considerazioni, una relativa alla prova del diritto preteso, l'altra all'esistenza di altri fattori concausali.
Sotto il primo profilo il Tribunale ha affermato che "i ricorrenti non hanno proposto alcuna prova a sostegno delle modalità concrete e specifiche del lavoro svolto dal D L, non hanno chiesto di provare dove come e su quali treni il D L ha fatto il macchinista;che turni ha svolto e per quanto tempo". Ha riconosciuto che dal "curriculum vita ferroviaria" redatto dal D L al momento in cui inoltrò la sua domanda alle ferrovie, si evince che egli ha svolto le mansioni di macchinista dal 1972 sino al pensionamento avvenuto nel 1989, presso il deposito locomotive di Bari. Ma ha ritenuto tale indicazione insufficiente, per il motivo sopra trascritto.
È ben vero che il ctu aveva ritenuto sussistente il nesso causale della malattia con l'attività di macchinista, in quanto questa implica responsabilità e comporta turnazioni diurne e notturne, ma il Tribunale considerava tale rilievo come un ragionamento di ordine generale, come tale ininfluente sul piano probatorio. Quanto al secondo aspetto, il Tribunale ha rilevato che da alcuni documenti acquisiti al processo, ed in particolare dalla relazione inserita nella cartella clinica dell'istituto di malattie dell'apparato cardiovascolare datata 25.2.1992, risulta che il D L era un "forte fumatore", affetto da broncopatia cronica ostruttiva;fattore che sicuramente ha giocato un ruolo nella evoluzione delle patologie ipertensive ed infartuali, non considerata dal ctu. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione Ruggio Vincenza, D L Daniela e D L Marcella, con tre motivi.
La società intimata si è costituita con controricorso, resistendo. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c, ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che manchi la prova dell'esposizione al rischio. Poiché le modalità lavorative del macchinista F.S sono n a tutti (nel che ravvisano violazione dell'art. 115, 2 comma), sarebbe irrilevante, per i ricorrenti, l'indicazione degli specifici treni condotti, come richiesto dal giudice d'appello, con pretesa che contrasterebbe con l'art. 116 c.p.c, per avere arbitrariamente imposto una prova tipo. Rilevano
inoltre contraddittorietà tra l'affermazione della Corte d'Appello che i ricorrenti non hanno fornito la prova, ed il rigetto dell'istanza istruttoria di acquisizione del fascicolo sanitario del ricorrente.
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ.;41 cod. pen.;
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), assumono che, stante la responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. del datore di lavoro, era onere di costui, una volta che il lavoratore aveva denunciato la patologia come dipendente dal lavoro svolto, ed una volta che tale circostanza aveva trovato conferma nella ctu espletata, di provare di avere adottato tutte le tutele necessarie per la salvaguardia fisica del lavoratore. Rilevano che, a norma del D.P.R. 303/1956 e delle successive modifiche, nonché da ultimo, per effetto del D. Leg. 626/94 (e succ.
mod. ed integr.) al lavoratore deve essere notificato il c.d. documento di rischio. La società F.S. non ha mai fornito tale documento ai lavoratori sicché contraddittoriamente, in sede giudiziaria, la stessa società invocherebbe la prova della esposizione al rischio. Assumono che, in tale fattispecie, dovrebbe trovare applicazione il 2 comma dell'art. 2697 c.c. e quindi, la società F.S., ricevuta dal dipendente la circostanziata e documentata denuncia (con perizia medica di parte) di malattia da causa di servizio, avrebbe dovuto provare la mancata esposizione al rischio e, in caso di patologia a genesi multifattoriale, anche la presenza di un elemento estraneo alla attività lavorativa che, da solo, abbia contribuito a determinare la insorgenza della patologia denunciata (art. 41 c.p.). Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) lamentano che la sentenza impugnata avrebbe disatteso le conclusioni peritali senza adeguata motivazione. I tre motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati, nei limiti appresso indicati. Costituisce giurisprudenza assolutamente consolidata di questa Corte che ove il lavoratore deduca una malattia professionale non tabellata, egli ha l'onere di fornire la prova sia dell'esistenza della malattia, sia delle caratteristiche morbigene della lavorazione svolta, sia, infine, del rapporto eziologico fra questa e la tecnopatia (ex plurimis: Cass. 4-7-1996 n. 6094). Lo stesso principio si applica al caso in cui un dipendente FS deduca la speciale tutela della causa di servizio. Nè questo principio trova deroga nel caso il lavoratore deduca la responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. Infatti l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di
responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Cass. 21.10.1997 n. 10361). Le tre circostanze costituiscono tutte e tre dei fatti, la cui mancata prova ricade a danno del lavoratore ricorrente. Esse richiedono però strumenti probatori diversi.
Le modalità della prestazione lavorativa costituiscono un fatto principale, che il lavoratore ha l'onere di allegare e provare, il che normalmente avviene con la descrizione, nel ricorso introduttivo del giudizio, delle proprie mansioni e con la richiesta di prova testimoniale su tali circostanze, normalmente espletata solo in caso di contestazione (Cass. sez. un. 761/2002). Questi sono i fatti rilevanti, la cui tempestiva allegazione abilita il giudice a trame tutte le conseguenze secondo legge, in relazione alla domanda (Cass. sez. un. 3 febbraio 1998, n. 1099). La malattia costituisce anch'essa un fatto, che però può costituire oggetto di prova testimoniale solo nei suoi aspetti sintomatici esterni;la sua esistenza e il suo grado invalidante, normalmente riferiti da certificazione medica di parte, devono essere accertati ed apprezzati dal giudice con l'ausilio di una consulenza tecnica d'ufficio medico legale.
La componente valutativa è ancora più evidente per l'accertamento del nesso causale, che non può essere affidato alle opinioni soggettive, e perciò inammissibili, dei testi;esso presupppone l'avvenuto accertamento dei due termini, la modalità lavorativa e la malattia, tra cui si deve accertare se esista oppure no un nesso di derivazione eziologica;l'onere probatorio cui è soggetto il lavoratore ricorrente è dunque quello di illustrare le modalità lavorativa, indicare il presumibile fattore causale (ad es. nel caso di un macchinista che deduca malattie dell'apparato osteo articolare, lo scuotimento del convoglio, o l'esposizione al caldo e freddo, etc.), offrire documentazione clinica e sollecitare l'indagine peritale sul nesso causale. Tale carattere valutativo del rapporto mansioni-malattia risulta proprio dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il nesso deve essere valutato in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'eziopatogenesi professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve non solo consentire all'assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale (Cass. 20 maggio 2000 n. 6592;Cass. 8-7-1994 n. 6434;Cass. 6094/1996 cit.;Cass. 23-4-1997 n. 3523;Cass. 7-4-1998 n. 3602).
Dato questo carattere valutativo, non potrebbe essere respinta una domanda sol perché il ctu ha individuato un nesso causale diverso da quello prospettato dal ricorrente, ferma la necessità di indicazione delle mansioni.
Nel caso di specie il giudice di primo grado ha assegnato al ctu il compito di valutare il rapporto causale, con ciò presupponendo, in ordinato svolgimento logico del processo, accertato il fatto principale delle mansioni concretamente svolte.
La valutazione positiva del primo giudice sulla sufficienza della allegazione mansionistica non vincola, ovviamente, il giudice di appello, ma non è neppure priva di qualsiasi significato. Si deve partire dal principio, gradualmente consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui "Nel rito del lavoro e, in particolare, nella materia della previdenza ed assistenza, dove, per la particolare natura dei rapporti controversi il principio dispositivo va contemperato con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo, quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, non può farsi meccanica applicazione della regola il formale di giudizio fondata sull'onere della prova ma occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere - dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia d'ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti. Il mancato esercizio di tale potere-dovere non è direttamente denunziabile in sede di legittimità anche in assenza di espressa motivazione sul punto, ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione (Cass. 15-12-2000 n. 15820;Cass. 15-01-1998 n. 310;Cass. 3 giugno 1997 n. 4935;Cass. 2 agosto 1996 n. 6995;Cass. 20 aprile 1995 n. 4432). Si deve poi ricordare il principio di non contestazione (Cass. S.U. 761/2002), in applicazione del quale questa Corte ha statuito che, ove il lavoratore (nella specie un dipendente FS) abbia allegato nel ricorso introduttivo del giudizio le caratteristiche dell'attività espletata, e le Ferrovie non le abbiano contestate nella memoria costitutiva, il giudice ben può ritenere pacifiche le modalità di svolgimento dell'attività e valutarne la possibile efficienza causale nella genesi della malattia denunciata (Cass. 13.11.2000 n. 14669). Se ne deduce che la indicazione delle mansioni di macchinista, nella misura in cui non è contestata (come nella specie), si risolve in una pista probatoria, dando così ingresso ai poteri ufficiosi del giudice.
Vi è di più.
Il giudice del merito non può limitarsi a fare meccanica applicazione di astratte massime di questa Corte, senza valutarne l'aderenza alla fattispecie sottoposta al suo esame. Come illustrato sopra, e come ribadito anche da coeve sentenze di questa Corte, la richiesta, proposta in via subordinata, del riconoscimento dell'infermità denunciata come dipendente da causa di servizio, è soggetta alle stesse regole allegatorie e probatorie in tema di malattia professionale, sia che questa sia tabellata sia che non sia tabellata, nel senso che il lavoratore è tenuto a provare le caratteristiche dell'attività lavorativa svolta, nel primo caso per verificare se essa corrisponde all'ipotesi di attività lavorativa, già valutata dal legislatore come rischiosa, che da luogo alla malattia tabellata, nel secondo caso per dimostrare le caratteristiche morbigene della lavorazione ed il rapporto eziologico esistente fra questa e la tecnopatia, prova quest'ultima non necessaria in caso di malattia tabellata in cui tale rapporto si presume. Tuttavia, nel caso in cui una domanda venga proposta dal lavoratore nei confronti di un datore di lavoro, come le Ferrovie dello Stato, che abbia preventivamente catalogato tutte le mansioni al proprio interno, analizzandole minutamente, valutandole sotto il profilo di rischio, e riportandole anche in un fascicolo sanitario personale, l'indicazione delle mansioni, riassumendo situazioni di fatto ben note al datore di lavoro (che ha proceduto in un certo senso ad una preventiva valutazione delle lavorazioni come per le malattie tabellate), può integrare l'onere di allegazione necessario per consentirne la piena difesa in giudizio.
Ed ove il giudice di primo grado abbia ritenuto sufficiente tale indicazione mansionistica, l'operato del giudice di appello che l'abbia puramente e semplicemente ignorata senza fare uso dei propri poteri ufficiosi, non si sottrae al sindacato circa la sua logicità, in rapporto ai motivi di doglianza ed al suo ruolo nel processo del lavoro. Ed è sicuramente illogica e contraddittoria la sentenza impugnata, che da una parte ha accertato che il D L svolse le mansioni di macchinista dal 1972 al 1989, e quindi per 17 anni (pag.
3 sentenza impugnata), dall'altra ha respinto la richiesta di esibizione del fascicolo sanitario, lamentando poi che non era stata fornita la prova analitica delle mansioni svolte e della malattia. Ed è altresì incongrua la pretesa di vedersi indicare i singoli treni condotti, in relazione alla infermità lamentata (postumi di infarto del miocardio), che appare riferita al complesso dell'attività svolta.
In applicazione dei principi sopra enunciati questa Corte (Cass. 20 maggio 2000 n. 6592) ha annullato, con rinvio, per violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., la sentenza del giudice del merito che, benché la ctu avesse evidenziato la malattia professionale, non aveva ammesso le prove indispensabili sulle condizioni ambientali della prestazione lavorativa.
In sostanza, nella presente causa, viene in rilievo il ruolo del giudice nel processo del lavoro.
Già l'art. 175 c.p.c. dispone che lo svolgimento del procedimento è improntato al principio di lealtà, con precetto rivolto al giudice, che vale, prima ancora che nei confronti delle parti, nei suoi stessi confronti. Espressione di tale principio sono le norme processuali che impongono al giudice di richiedere alle parti i chiarimenti necessari, sulla base dei fatti allegati (art. 183, 3 comma, c.p.c.), nonché di indicare le questioni rilevabili
d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione;di fissare al convenuto un termine per integrare la domanda riconvenzionale della quale sia incerto l'oggetto (art. 167 2 comma);di assegnare un termine per sanare eventuali difetti di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione.
L'obbligo del giudice di richiedere alle parti i chiarimenti necessari, sulla base dei fatti allegati, benché non enunciato specificamente nel rito del lavoro, è ad esso sicuramente applicabile, sia come principio di civiltà dell'ordinamento processuale civile, che come tale informa anche il processo del lavoro, cui le norme processualciviliste sono applicabili se non diversamente disposto, sia perché a tale scopo sono dirette norme specifiche ed innovative del rito del lavoro, quale l'art. 420 1^ comma, il quale conferisce carattere sistematico, in limine litis, al libero interrogatorio. Tale strumento processuale, già conosciuto, ma con carattere di casualità, dal precedente sistema processualcivilistico (art. 117 c.p.c. vecchio testo), ed ora adottato anche in quel modello processuale generale con il medesimo carattere di sistematicità (art. 183, 1 comma, c.p.c. come sostituito dall'art. 17 Legge 26 novembre 1990, n. 353), ha molteplici funzioni: mettere a fuoco, attraverso il rapporto diretto con le parti, il tema oggetto della controversia, sfrondare il fatto e le esigenze istruttorie dalle circostanze ridondanti o non più necessarie di prova a seguito delle ammissioni o non contestazioni del convenuto;richiedere alle parti i chiarimenti necessari (art. 183 comma 3 c.p.c.) e quindi anche la precisazione di circostanze
dedotte in maniera non chiara, e tutto ciò nella maniera più efficace e produttiva, perché svolto dal giudice nel contraddittorio con le parti e i loro difensori (Cass. 27 febbraio 1990 n. 1519). Da ultimo questa Corte (sent. 2-4-2002 n. 4685) ha affermato come la sua collocazione in limine della udienza di discussione, a ridosso degli atti di costituzione (ricorso e memoria difensiva) ne evidenzia anche la funzione integrativa dei medesimi. Si tratta di un ruolo del giudice imparziale ma attivo, volto prima di tutto alla comprensione, e se, fondata, alla realizzazione della pretesa della parte (per riferimenti, Cass.