Cass. civ., sez. I, sentenza 21/01/2020, n. 01185

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 21/01/2020, n. 01185
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 01185
Data del deposito : 21 gennaio 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

uto che l'art. 2466 c.c. trovi applicazione anche qualora il debito in capo al socio, rimasto insoddisfatto, derivi dalla sottoscrizione della quota di capitale in aumento a lui spettante, trattandosi di disposizione che (al pari dell'art. 2477 c.c. anteriore alla d.lgs. n. 6 del 2003), mira a preservare l'effettività del capitale sociale. La norma prevede un procedimento in cui, dall'iniziale richiesta di adempimento entro trenta giorni rivolta al socio, si perviene, attraverso scansioni alternative o successive, all'azione giudiziale di condanna all'adempimento, alla vendita proporzionale ai soci secondo il valore risultante dall'ultimo bilancio approvato, alla vendita all'incanto, ed, infine, all'esclusione del socio, con la conseguente riduzione nominale del capitale sociale (dunque, operata solo in tale ultima ipotesi). Ciò palesa come il procedimento abbia di mira, anzitutto, la tutela della situazione patrimoniale della società, tutela che non ha ragione di essere limitata al momento della sua costituzione e dell'inadempimento all'obbligo dei conferimenti iniziali, essendo essa applicabile - in via diretta, e non estensiva od analogica - all'esecuzione dei conferimenti in sede di successivo aumento del capitale sociale. Per quanto, infine, attiene alla circostanza, dedotta nel motivo, del conflitto di interessi in capo all'amministratore, si tratta di allegazione nuova inammissibile. 3. - Il secondo motivo è fondato. 3.1. - Dalla sentenza impugnata, come pure dal ricorso e dal controricorso, si trae, in punto di fatto, che l'assemblea dei soci del 28 luglio 2010 deliberò un aumento del capitale sociale da C 12.000,00 (suddiviso tra i tre soci, nella misura del 33,33% ciascuno) a C 72.000,00, offerto in sottoscrizione ai soci in proporzione della partecipazione da ciascuno detenuta, pari a nominali C 4.000,00 e, quindi, per la somma di C 20.000,00 ciascuno. Ivi si narra, altresì, che l'odierno ricorrente sottoscrisse per intero la quota di capitale a lui spettante, versando immediatamente la somma di C 5.000,00, pari al 25% della quota sottoscritta, mentre non eseguì il versamento del restante 75% nel termine fissato dall'organo amministrativo del 30 ottobre 2010. L'amministratore della società, una volta accertato l'inadempimento del socio al versamento dei decimi mancanti, ha deliberato, quindi, in mancanza di compratori, l'esclusione del socio, trattenendo le somme riscosse, mentre l'assemblea del 30 giugno 2011 ha deliberato la riduzione del capitale, ai sensi dell'art. 2466, comma 3, c.c. 3.2. - Dalla descritta situazione in fatto, accertata dai giudici del merito, risulta dunque che il Bonacini era - in esito all'assemblea deliberante l'aumento ex art. 2481-bis c.c. - socio per una quota di nominali C 24.000,00, di cui versati C 9.000,00 (ossia, C 4.000,00 conferiti all'atto della costituzione della società e C 5.000,00 versati in occasione dell'aumento del capitale) ed C 15.000,00 non ancora versati. In sostanza, della quota di nominali C 24.000,00, la porzione pari ad C 15.000,00 era sottoscritta, ma non versata;
e solo il versamento della somma C 5.000,00 afferiva all'aumento non interamente liberato, mentre quello di ulteriori C 4.000,00 riguardava la quota sottoscritta e liberata in sede di conferimento iniziale. Tale situazione di fatto induce, pertanto, a concludere come, in ragione della preesistenza, nella titolarità del socio, della quota nominale di C 4.000,00, sia stato illegittimo il ricorso alla procedura di c.d. vendita in danno per l'intera partecipazione sociale posseduta dal socio medesimo, pari ad C 24.000,00, con la conseguente violazione dell'art. 2466 c.c. 3.3. - Invero, l'art. 2466 c.c., in esito al procedimento di legge e laddove non siano state possibili soluzioni meno drastiche, prevede che il socio venga escluso dalla società, con corrispondente riduzione del capitale sociale, l'ente «trattenendo le somme riscosse». Si tratta, dunque, di una riduzione nominale per la parte non versata, ma reale per quella già versata. Il capitale nominale, o capitale sociale, è un'entità fissa, determinata contabilmente secondo gli artt. 2328, comma 2, n. 4 e 2463, comma 2, n. 4, c.c. ed indicata, al passivo, nella voce A-I del patrimonio netto, ai sensi dell'art. 2424 c.c. Esso, quindi, può essere ridotto solo in modo nominale. Peraltro si distingue, a seconda che alla riduzione del capitale sociale corrisponda anche la riduzione del patrimonio netto della società (riduzione reale) oppure l'operazione si risolva in un mero adeguamento contabile del capitale sociale al patrimonio netto (riduzione nominale). Da un lato si pone, tipicamente, la riduzione c.d. per esuberanza;
dall'altro, la riduzione per perdite. Nella categoria della riduzione reale vengono ricondotte, inoltre, la riduzione per recesso del socio ai sensi degli artt. 2437 e 2473 c.c., quella dovuta al socio per il suo recesso in caso di conferimento in natura di cui all'art. 2343, comma 4, c.c., ed altre evenienze, qui non rilevanti. Nella categoria della riduzione nominale rientrano, fra le altre, le ipotesi codicistiche della riduzione a causa dei conferimenti in natura sovrastimati ex artt. 2343 c.c., dell'annullamento di azioni proprie ai sensi dell'art. 2357 c.c. e di azioni della società controllante illecitamente possedute di cui all'art. 2359-ter c.c. ed, appunto, della "decadenza" o esclusione del socio moroso, ai sensi degli artt. 2344 e 2466 c.c. Ora, nel meccanismo previsto da tale ultima disposizione, qualora il socio venga escluso, sebbene egli fosse moroso solo in parte e non per l'intero debito del conferimento, la riduzione del capitale in proporzione all'intera quota finisce per costituire - per la parte corrispondente ai versamenti già eseguiti - una riduzione non solo nominale, ossia di mero adeguamento alle effettive risorse conferite in società, ma in parte reale, permettendo di "liberare" i corrispondenti importi, non più vincolati a capitale. Si tratta delle «somme riscosse», che vengono legittimamente «trattenute» dalla società, ai sensi degli artt. 2344, comma 2, e 2466, comma 3, c.c., andando a costituire una riserva, e non più la posta corrispondente al vincolo del capitale, sia pure sempre nell'ambito del patrimonio netto, di cui alla lettera A del passivo dello stato patrimoniale di bilancio. Tale meccanismo, esplicitamente previsto dalla norma con riguardo alla sottoscrizione parziale di un'unitaria operazione, non può tuttavia essere esteso al caso in cui il socio, in virtù di una precedente sottoscrizione attuata in fase di costituzione o anche di un pregresso aumento del capitale, fosse già tale, e senza debiti di conferimento, prima dell'aumento che abbia condotto alla morosità in tal modo sanzionata. In tale evenienza, il socio non potrà, invero, essere escluso, mentre la riduzione del capitale riguarderà, in modo corrispondente, solo la parte relativa alla sottoscrizione operata con riferimento all'aumento de quo. 3.4. - Con riguardo al profilo della unitarietà e non frazionabilità della quota sociale, è vero che la quota di una società a responsabilità limitata è unica per ciascun socio, non potendo essa essere rappresentata da azioni (art. 2468, comma 1, c.c.) e non essendo, a differenza di queste, la mera componente di un "pacchetto" di titoli (art. 2346, comma 1, c.c.). E, tuttavia, non è vero che la quota non sia divisibile: il contrario desumendosi già dalla lettera della norma in esame, laddove prevede che la quota del socio moroso possa essere venduta «agli altri soci in proporzione della loro partecipazione», ai sensi dell'art. 2466, comma 2, c.c., al pari di quanto previsto nell'art. 2473, comma 4, c.c., per l'ipotesi del recesso del socio, nonché in ragione della pacifica alienabilità parziale della quota sociale. Ciò, peraltro, fa salvo il caso che lo statuto esplicitamente contempli l'indivisibilità della quota di ciascun socio. 3.5. - Risponde dunque al precetto di legge, nonché ai principi di buona fede e correttezza i quali necessariamente informano anche i rapporti societari, che la procedura di annullamento della quota con corrispondente abbattimento del capitale sia intrapresa dall'organo amministrativo solo per la frazione della partecipazione sociale sottoscritta in occasione dell'aumento del capitale sociale rimasto in tutto o in parte ineseguito, e non per la parte di cui il socio fosse titolare prima della deliberazione di aumento stessa. Infatti, l'inadempimento del socio all'obbligo di versare quanto sottoscritto riguarda non l'intera quota, posseduta dopo l'aumento e risultante dalla somma di questa con la partecipazione originaria, ma solo la porzione derivante dall'aumento di capitale, deliberato dall'assemblea nel corso della vita sociale, se l'iniziale debito da conferimento fosse stato regolarmente, a suo tempo, onorato. In tal modo laddove, in esito al procedimento di cui all'art. 2466 c.c., si pervenga alla riduzione del capitale sociale, questa sarà operata solo per la parte corrispondente al conferimento dovuto in forza della sottoscrizione dell'aumento (costituendo, dunque, una riduzione in parte nominale, con riguardo alla quota non liberata, ed in parte reale, con riguardo al versamento parziale operato dal socio) e non per l'intera misura della partecipazione, di cui il socio sia titolare: con conseguente vantaggio per gli interessi della stessa società e più generali alla conservazione del valore del capitale sociale, ratio sottesa all'intero procedimento previsto dalla disposizione, il quale infatti procede, via via, dai rimedi endosocietari sino alla soluzione estrema della rinuncia a quel conferimento mediante la riduzione del capitale sociale. Al contrario, la ratio di permettere agli altri soci, in virtù dell'inesecuzione del conferimento, di escludere definitivamente il socio inadempiente dalla società non è rinvenibile nella disposizione in esame. In conclusione, deve enunciarsi il seguente principio di diritto: «Nel caso di mora del socio nell'esecuzione dei versamenti, dovuti alla società a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell'aumento del capitale sociale deliberato dall'assemblea nel corso della vita della società, il socio non può essere escluso, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della società;
pertanto, ferma la permanenza del socio in società per la quota già posseduta, l'assemblea deve deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall'aumento non onorato, fatto salvo solo il caso in cui lo statuto preveda l'indivisibilità della quota». 4. - Il terzo motivo è inammissibile. La sentenza impugnata contiene una duplice ratio decídendí, avendo escluso che il socio abbia dato la prova dell'esistenza di finanziamenti alla società, e avendo solo ad abundantiam affermato come, in ogni caso, il relativo credito non avrebbe potuto essere compensato con il debito da conferimento, trattandosi di aumento del capitale a pagamento. La prima ratio, che del resto attiene ad accertamento di fatto qui non ripetibile, non è stata confutata dal motivo e resta, dunque, idonea a sorreggere la decisione, oltre a palesare l'inconsistenza della censura relativa all'omesso esame di tale circostanza. 5. - Il ricorso incidentale è infondato. Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell'art. 2466 c.c., a partecipare alle decisioni o alle deliberazioni assembleari esprimendo il proprio voto, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, sino a che egli resti parte della compagine societaria. Il socio moroso, invero, fino al completamento del procedimento di vendita coattiva o di esclusione non cessa di essere socio (ad es., egli è computato nel quorum costitutivo, ma non nel quorum deliberativo, come si desume dall'art. 2368, comma 3, c.c.). Mentre, dunque, il voto resta "sospeso" per il tempo della morosità, quale misura sanzionatoria e sollecitatoria dell'adempimento, non così i diritti amministrativi ed, in primis, il diritto di informazione e di ispezione, di cui all'art. 2476, comma 2, c.c., che resta a presidiare la trasparenza dell'andamento societario, e tanto più necessario (salvo abusi, di cui però nella specie non si discute) proprio nel momento del conflitto con gli altri soci o con la gestione societaria. Sul punto, giova enunciare il seguente principio di diritto: «Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell'art. 2466 c.c., ad esprimere il proprio voto nelle decisioni e deliberazioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi dell'art. 2476, comma 2, c.c., sino a che egli resti parte della compagine societaria in esito al procedimento intrapreso dagli amministratori». 6. - La sentenza impugnata va dunque cassata in accoglimento del motivo accolto, con rinvio innanzi alla Corte del merito, in diversa composizione, perché provveda - sulla base del principio enunciato al punto 3 - a decidere le domande di accertamento dell'invalidità dell'esclusione del socio e di accertamento dell'entità della quota residua in capo al ricorrente. Alla corte del merito si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
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