Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 15/12/2003, n. 19130

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In tema di prescrizione del diritto alla indennità di maternità, la speciale prescrizione breve (annuale) prevista, con decorrenza dal giorno in cui le prestazioni sono dovute, dall'art. 6 ultimo comma della legge 11 gennaio 1943, n. 138 per l'azione diretta a conseguire l'indennità di malattia, si estende alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento del diritto al trattamento economico dovuto alle lavoratrici dipendenti, in base alla legge 30 dicembre 1971 n. 1204, per i periodi di astensione obbligatoria e di assenza facoltativa dal lavoro connessi alla nascita del figlio (ovvero, nel caso di lavoratrici affidatarie in preadozione, all'ingresso del bambino nella famiglia affidataria), nonché a quella avente - ad oggetto il riconoscimento del diritto alla indennità di maternità prevista per le lavoratrici autonome dalla legge 29 dicembre 1987 n. 546, senza che a ciò sia d'ostacolo la mancanza in quest'ultima legge di un richiamo espresso ai criteri previsti per l'erogazione delle prestazioni dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie (contenuto invece nella legge n. 1204 del 1971), atteso che, nella ricorrenza anche per la prescrizione del diritto all'indennità di maternità alle lavoratrici autonome della medesima ratio giustificatrice della soggezione al menzionato termine breve, il carattere (non eccezionale ma) speciale della relativa norma di previsione consente l'applicazione analogica della stessa. Detta applicazione analogica non è invece consentita nel caso delle libere professioniste, in quanto l'estinzione del diritto delle stesse alla indennità di maternità per decorso del tempo forma oggetto di una specifica disposizione, l'art. 2 della legge n. 379 del 1990, il quale prevede che la domanda per il godimento dell'indennità di maternità deve essere proposta entro 180 giorni dal parto, con la conseguenza che, nonostante la omogeneità teleologica di detta legge con quelle poste a tutela della maternità delle lavoratrici dipendenti ed autonome, non vi è ragione di equipararne la disciplina sotto il profilo della estinzione del diritto per decorso del tempo in relazione alla esigenza di certezza e rapidità dell'accertamento dei presupposti per ottenere la tutela previdenziale, esigenza garantita dal breve termine di decadenza entro il quale le libere professioniste debbono far valere il loro diritto alla indennità di maternità, termine non previsto per le lavoratrici dipendenti ne' per quelle autonome; ciò che esclude anche ogni dubbio di illegittimità costituzionale sotto il profilo di una pretesa violazione dell'art. 3 Cost.

Il criterio di determinazione dell'indennità di maternità spettante alle libere professioniste dettato dall'art. 1, secondo comma, della legge n. 379 del 1990, e facente riferimento al reddito percepito e denunciato dalla interessata nel secondo anno precedente a quello della domanda, trova applicazione anche nel caso in cui l'attività professionale sia svolta a mezzo di associazioni o imprese professionali o, in particolare, sia svolta (come nella specie) da parte di una farmacista nella forma della collaborazione in regime di impresa familiare nella farmacia di proprietà di un familiare. Nè è prospettabile al riguardo il dubbio di illegittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., sotto il profilo della parificazione, ai fini in considerazione, di redditi ontologicamente differenti, e della sproporzione dei contributi, versati in misura uguale dai soggetti di cui si tratta, rispetto alle diverse prestazioni spettanti in virtù del calcolo del reddito della partecipazione all'impresa rispetto al reddito prettamente professionale. Infatti, la funzione della legge n. 379 del 1990 è quella di consentire alle professioniste di dedicarsi con serenità alla maternità evitando che la stessa si colleghi ad uno stato di bisogno o anche più semplicemente ad una diminuzione del tenore di vita (Corte Cost., sent. n. 3 del 1998): da ciò deriva il collegamento tra la indennità e il reddito dell'assicurata, restando pertanto irrilevante la natura del reddito della stessa, mentre la lesione del principio di uguaglianza si avrebbe se al reddito della professionista che opera in forma associata dovesse erogarsi la indennità in misura ridotta, non garantendosi in tal caso a tale professionista la detta finalità di tutela della serena maternità.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 15/12/2003, n. 19130
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 19130
Data del deposito : 15 dicembre 2003

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. G S - Presidente -
Dott. E M - Consigliere -
Dott. B B - Consigliere -
Dott. G V - Consigliere -
Dott. G C - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
ENFAP - ENTE NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FARMACISTI, in persona del legale rappresentante pro tempore, selettivamente domiciliato in

ROMA VIA GIUSEPPE PISANELLI

2, presso lo studio dell'avvocato A A, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato M P, giusta delega in atti;



- ricorrente -


contro
E R, elettivamente domiciliata in ROMA VIA F.

CONFALONIERI

5, presso lo studio dell'avvocato L M, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato G D M, giusta delega in atti;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 427/00 della Corte d'Appello di FIRENZE, depositata il 18/12/00 - R.G.N. 481/2000;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/06/03 dal Consigliere Dott. G C;

udito l'Avvocato A;

udito l'Avvocato C per delega M;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Riccardo FUZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Grosseto rigettava l'opposizione al decreto col quale il Pretore della stessa città aveva ingiunto all'Ente nazionale di previdenza e assistenza farmacisti il pagamento della somma di L 11.600.000 oltre rivalutazione ed interessi in favore della dott. Roberta Ederiferi a titolo di indennità di maternità non corrisposta alla ricorrente nella misura prevista dalla legge. Avverso la decisione di primo grado L'ENPAF proponeva gravame alla Corte di Appello di Firenze che lo rigettava. Il giudice del riesame, dichiarata infondata l'eccezione di prescrizione annuale, ha ritenuto che in base all'art. 1 della legge 379/90, nel calcolare l'indennità dovuta alla libera professionista iscritta ad una cassa di previdenza ed assistenza per i liberi professionisti non è consentito fare alcuna distinzione tra l'ipotesi in cui il reddito professionale sia prodotto nell'ambito di una libera professione esercitata in forma singola, da quella in cui sia prodotto nell'ambito di una partecipazione ad un'impresa professionale o a collaborazione familiare;
ha rilevato che la legge 379/90 non prevede due distinte misure dell'indennità di maternità e che quella individuata dall'Enpaf come indennità destinata a chi opera in forma di impresa, in realtà rappresenta soltanto la misura minima di tale prestazione, che "in ogni caso" non può essere valicata al ribasso. Il giudice dell'appello ha ritenuto infine l'inammissibilità del motivo di ricorso relativo al divieto di cumulo di interessi e rivalutazione sollevato per la prima volta in appello.
Per la cassazione della sentenza della corte di Appello di Firenze l'ENPAF propone ricorso formulandolo in cinque motivi. La dott. Ederiferi resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione di norma di diritto e insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) l'Ente ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere la Corte di Appello ritenuto applicabile per l'indennità di maternità delle libere professioniste l'art. 6, ultimo comma, della legge 11 gennaio 1943 n. 138, non tenendo conto del consolidato
indirizzo della Corte di Cassazione circa l'applicazione estensiva di tale norma, prevista per l'indennità di malattia, all'indennità di maternità delle lavoratrici dipendenti nonché delle lavoratrici autonome;
sostiene l'ente ricorrente che il giudice del riesame non aveva valutato correttamente le ragioni di tale applicazione estensiva, ragioni valide anche per l'indennità di maternità prevista dalla legge 11 dicembre 1990 in favore delle libere professioniste, normativa che, come quella prevista dalla legge n.1204 del 1971 per le lavoratrici dipendenti e quella della legge n.546 del 1987 per le lavoratrici autonome, è ispirata a tutelare i
medesimi valori ed interessi della "maternità", tenendo conto delle esigenze organizzative ed economiche degli enti erogatori e dovendosi anche in questo caso poter contare su una rapida definizione delle relative pratiche.
Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, l'ente ricorrente propone eccezione di incostituzionalità dell'art. 6, ultimo comma, della legge 11 gennaio 1943 n. 138 per violazione del
principio di razionalità e di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, ove il termine prescrizionale ivi previsto non debba
ritenersi esteso anche all'indennità di maternità delle libere professioniste di cui alla legge 379/90. I due motivi trattati unitariamente in quanto tra loro connessi, sono infondati.
Questa Corte ha costantemente affermato che la speciale prescrizione breve (annuale), prevista dall'art. 6, ultimo comma della legge 11 gennaio 1943 n. 138 per l'azione diretta a conseguire l'indennità
di malattia, si estende alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento del diritto al trattamento economico riconosciuto, in favore delle lavoratrici dipendenti, dalla legge 30 dicembre 1971 n.1204 per i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa dal
lavoro connessi alla nascita di un figlio ovvero, in caso di lavoratrici affidatarie in preadozione, all'ingresso del bambino nella famiglia affidataria (cfr., tra le tante Cass. n. 4348 del 1995;
n. 4967 del 1993;
n. 11638 del 1992
). Del resto la legge n. 1204 del 1971 contiene un richiamo espresso ai criteri previsti per l'erogazione delle prestazioni dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie. Una volta assoggettata alla regola della prescrizione annuale stabilita dall'art. 6 della L. n.138/1943 l'indennità prevista per le lavoratrici dipendenti dalla legge n. 1204 del 1971, questa Corte ha ritenuto, poi, che la medesima regola dovesse applicarsi all'indennità di maternità - identica alla prima nel contenuto e nelle funzioni - attribuita alle lavoratrici autonome dalla legge 29 dicembre 1987 n. 546 (Cass. 19 gennaio 1998 n. 444): nella
richiamata sentenza viene rilevato che si tratta anche in questo caso, di un trattamento previdenziale corrisposto dall'INPS, che matura giorno per giorno e che tutela il medesimo evento maternità;

anche per questa prestazione previdenziale si pongono, inoltre, le medesime esigenze di certezza e rapidità nell'accertamento dei presupposti necessari per ottenere la tutela previdenziale, con le quali si giustifica l'assoggettamento dell'indennità di maternità, attribuita alle lavoratrici dipendenti, alle regole di prescrizione del diritto proprie dell'indennità di malattia (cass. 19 gennaio 1998 n. 444;
8 luglio 1992 n. 8318
). È proprio sotto quest'ultimo profilo che la legge 11 dicembre 1990 n. 379, che disciplina il diritto all'indennità di maternità delle
libere professioniste, non consente un'equiparazione con il regime applicabile alle lavoratrici dipendenti ed autonome. La legge 29 dicembre 1987 n. 546 (per le lavoratrici autonome) non contiene,
infatti alcuna specifica disciplina circa i limiti temporali entro cui si estingue il diritto della lavoratrice che non abbia fatto valere il suo diritto all'indennità di maternità, sicché un'equiparazione con il regime prescrizionale applicabile alle lavoratrici dipendenti, le cui prestazioni economiche in caso di maternità sono pressoché identiche e rispondono alla stessa funzione di tutela dell'evento della maternità, è del tutto giustificata e corretta.
Nel caso delle libere professioniste, invece, l'estinzione del diritto all'indennità di maternità per decorso del tempo forma oggetto di una specifica disposizione (art. 2) che prevede che la domanda per il godimento dell'indennità di anzianità deve essere proposta entro 180 giorni dal parto.
Sicché, sebbene tale legge presenti un'omogeneità teleologica con le leggi a tutela della maternità delle lavoratrici dipendenti ed autonome, non vi è alcuna ragione di equipararne la disciplina (che per la verità presenta anche altre differenze, peraltro non particolarmente rilevanti rispetto al problema di cui ci stiamo occupando) sotto il profilo dell'estinzione del diritto per decorso del tempo in relazione alle esigenze di certezza e rapidità dell'accertamento dei presupposti per ottenere la tutela previdenziale, esigenza maggiormente garantita dal breve termine di decadenza entro cui le libere professioniste debbono far valere il loro diritto all'indennità di maternità, non previsto ne' per le lavoratrici dipendenti che per le lavoratrici autonome. I rilievi illustrati, in ordine al rispetto anche da parte della normativa riguardante le libere professioniste dell'esigenza di certezza e rapidità nella definizione dei diritti fatti valere, esclude ogni dubbio di costituzionalità delle norme richiamate. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ulteriore violazione e falsa applicazione di norma di diritto e insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) e censura la sentenza impugnata per non aver distinto l'ipotesi in cui il reddito professionale venga prodotto nell'ambito di una libera professione esercitata in forma singola da quello prodotto nell'ambito di una partecipazione ad una impresa professionale. La ricorrente rileva che all'ENPDEP sono iscritti sia professionisti che titolari di farmacie o compartecipi agli utili della farmacia: trattandosi di categorie diverse che hanno una diversa soggettività, a parere dell'Ente deve diversificarsi la posizione di un libero professionista che produca reddito con la sua attività professionale, da chi partecipi ad una associazione nella quale non è dato diversificare il reddito della impresa dal solo reddito professionale, e dall'altro la percezione del reddito prescinde dall'attività e dall'apporto del singolo associato. Sostiene l'ente ricorrente che l'attività della resistente non è stata quella di libera professionista ma di imprenditore avendo essa percepito quota parte del reddito dell'impresa farmacia con la conseguenza che la liquidazione dell'indennità di maternità nei confronti di chi abbia percepito reddito di imprenditore debba essere liquidata in base alla clausola di salvaguardia prevista dal 3 comma dell'art. 1 della legge 379/90, norma violata dalla sentenza impugnata.
A parte la considerazione che nell'impresa familiare di cui all'art.230 bis C.C. la titolarità dell'impresa, spetta al familiare
imprenditore effettivo gestore dell'impresa (Cass. 4 ottobre 1995 n. 10412;
27 giugno 1990 n. 6559
) sicché i semplici partecipanti non possono essere considerati imprenditori, e i loro redditi non possono essere considerati redditi di impresa (Cass. n. 4030/92), le questioni proposte sono state già affrontate e risolte dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 25 novembre 2000 n. 15222;
23 giugno 2000 n. 8576;
28 maggio 1999 n. 5221;
21 novembre 1998 n. 11817
) che ha affermato "il criterio di determinazione dell'indennità di maternità spettante alle libere professioniste dettato dall'art. 1, secondo comma della legge n. 379 del 1990 e facente riferimento al reddito percepito e denunciato dall'interessata nel secondo anno precedente a quello della domanda, trova applicazione anche nel caso in cui l'attività professionale sia svolta a mezzo di associazioni o imprese professionali o, in particolare, sia svolta (come nel caso in esame) da parte di una farmacista nella forma della collaborazione in regime di impresa familiare nella farmacia di proprietà di un familiare: la forma associativa non trasforma l'attività in qualcosa di diverso da un'attività professionale e il reddito percepito dalla professionista che opera in forma associata resta reddito proveniente dalla sua professione (Cass. 28 maggio 1999 n. 5521). La norma di cui al terzo comma dell'art. 1 della legge n. 379 del 1990 (contenente un rinvio al salario minimo giornaliero stabilito dall'art. 1 del d.l.. n. 402 del 1981 convertito nella legge 537 del 1981) costituisce in questo sistema una norma di salvaguardia di
valore residuale che garantisce che l'indennità non possa "in ogni caso" (espressione diversa da "in ogni altro caso") essere inferiore ad un certo livello e non è riferibile a situazioni diverse da quelle indicate nel secondo comma: tale significato trova conferma nella lettura dei lavori parlamentari relativi all'approvazione della legge 370/90, da cui risulta che i relatori, in entrambi i rami del parlamento, ebbero a chiarire che la necessità di introdurre tale disposizione derivava dalla constatazione che normalmente la maternità avviene all'inizio della carriera quando la professionista, a cui in ogni caso deve essere garantita un'indennità adeguata, può avere un reddito molto basso. Ne consegue che come regola generale la indennità va parametrata al reddito percepito e denunciato ai fini fiscali (cui si riferisce l'art. 1 secondo comma della legge 379 del 1990) senza che assuma alcun rilievo la forma in cui viene in concreto l'attività professionale" (Cass. 28 maggio 1999 n. 5221;
21 novembre 1998 n. 11817
). Non avendo il ricorrente esposto ragioni per mutare detta giurisprudenza, il collegio ritiene di confermarla rigettando il motivo.
Col quarto motivo l'ENPAF denuncia vizio di omessa motivazione (art.360 n. 5 c.p.c.) e lamenta che la sentenza impugnata abbia omesso di
motivare in merito alla eccezione dell'Ente relativa al divieto di cumulo di interessi e rivalutazione stabilito dall'art. 16, comma 4, della legge 412/1991.
Anche questo motivo è infondato.
La corte di Appello di Firenze ha ritenuto inammissibile il motivo di appello relativo al cumulo di interessi e rivalutazione rilevando che si trattava di domanda nuova non proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo bensì proposta per la prima volta in appello. Pertanto non sussiste sul punto alcuna omissione di motivazione. Col quinto motivo, denunciando insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.), insufficiente ed illogico esame di eccezione di illegittimità costituzionale sollevata in via subordinata dell'art. 1 commi Il e III della L. 379/90 in relazione agli artt. 3 e 38 della Costituzione, l'ente ricorrente lamenta che nulla in proposito ha detto sul punto la sentenza impugnata. Sostiene la ricorrente che ove per reddito percepito e denunziato ai fini fiscali della libera professionista per la liquidazione della indennità di maternità dovesse intendersi anche il reddito derivante dall'esercizio dell'impresa della farmacia (o compartecipazione o associazione in impresa, familiare e, comunque, il reddito derivante dalla partecipazione agli utili della farmacia) e non anche il solo reddito derivante dallo svolgimento della propria personale attività professionale di farmacista iscritta all'albo, il citato comma dell'art. 1 sarebbe sospetto di incostituzionalità in quanto si verificherebbe una evidente disparità di trattamento tra le farmaciste libere professioniste e coloro che sono percettrici di un reddito di impresa, parificando due redditi ontologicamente diversi;

deduce la irragionevolezza della norma in esame tenuto conto che i soggetti di cui si tratta, pagano tutti un uguale contributo (art. 5 L. 379/90) che appare del tutto sproporzionato rispetto alle diverse
prestazioni che loro spetterebbero, ove fosse calcolato il reddito della partecipazione all'impresa rispetto al reddito prettamente professionale.
Anche tale motivo è infondato.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 3 del 1998), scrutinando la conformità della legge n. 379 del 1990 sotto il profilo che essa non impone alle professioniste l'astensione obbligatoria dal lavoro, ha rilevato che la funzione della legge è di consentire alle stesse di dedicarsi con serenità alla maternità evitando che la stessa si colleghi ad uno stato di bisogno o anche più semplicemente ad una diminuizione del tenore di vita. Da ciò deriva il collegamento tra l'indennità ed il reddito dell'assicurata. Nella prospettiva della ratio della norma appare irrilevante quindi la natura del reddito della professionista e la lesione del principio di eguaglianza si avrebbe se al reddito della professionista che opera in forma associata dovesse erogarsi, come sostiene l'ente ricorrente, la indennità nella misura ridotta di cui al terzo comma, non garantendo per queste ultime quelle finalità di mezzo di tutela della serena maternità secondo la Corte Costituzionale (Cass. 25 novembre 2000 n. 15222). Il ricorso va quindi rigettato.
Le spese del presente giudizio sono a carico dell'Ente soccombente

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