Cass. pen., sez. IV, sentenza 23/02/2021, n. 06903

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. IV, sentenza 23/02/2021, n. 06903
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 06903
Data del deposito : 23 febbraio 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: NASONE DOMENICO nato a REGGIO CALABRIA il 10/04/1983 avverso l'ordinanza del 13/01/2020 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIAudita la relazione svolta dai Consigliere FRANCESCA PICARDI;
lette le conclusioni del PG.

RITENUTO IN FATTO

1.D N, a mezzo del proprio difensore di fiducia, ha impugnato l'ordinanza della Corte di Appello di Reggio Calabria, con cui è stata rigettata la sua richiesta di riparazione per ingiusta detenzione patita in carcere dal 10 giugno 2012 al 29 luglio 2015. 2. Il ricorrente, sottoposto alla misura cautelare per il reato di cui all'art. 416-bis cod.pen., è stato condannato in primo grado alla pena di anni 10 e mesi 8 di reclusione ed assolto in appello.

3. La Corte di Appello ha rigettato l'istanza di riparazione per ingiusta detenzione, ritenendo causalmente rilevante nell'adozione della misura cautelare la condotta processuale del ricorrente, che non ha fornito alcuna giustificazione o spiegazione in merito ai fatti contestatigli in occasione dell'interrogatorio di garanzia, accreditando così la fondatezza della originaria ricostruzione dei fatti, collegata agli elementi emersi dalle intercettazioni tra terzi (in particolare "una conversazione intrattenuta in carcere da G F con la madre e la sorella, il cui contenuto avrebbe consentito di desumere che l'odierno istante, unitamente ad A N, fossero soggetti legati a doppio filo con il F ed in ordine ai quali quest'ultimo temeva che potessero essere manovrati da F N per far ricadere sullo stesso F le conseguenze giudiziarie di attività illecite commesse da costoro"). Nel provvedimento impugnato si è precisato che "la motivazione della sentenza di assoluzione - pur prendendo atto della non assoluta univocità degli elementi desumibili dalla conversazione - non manca di sottolineare come emergesse l'esistenza di un vincolo probabilmente di natura illecita che lo legava a G F e che una chiava di lettura alternativa di tale rapporto proveniente dall'odierno istante ben avrebbe potuto sin da subito chiarire l'eventuale erroneità dell'impostazione del procedimento".

4. Il ricorrente, con l'odierna impugnazione, ha denunciato: 1) la violazione di legge e l'illogicità della motivazione in ordine agli artt. 314 e 315 cod.pen., essendosi identificata la colpa grave, causalmente rilevante ai fini della misura cautelare, esclusivamente ed automaticamente nell'esercizio della facoltà di non rispondere all'interrogatorio di garanzia, nonostante l'assenza di ogni responsabilità, da parte propria, relativamente all'ambiguità del quadro indiziario, dipendente da intercettazioni di terzi, che hanno riferito della sua frequentazione con G F;
2) il contrasto dell'art. 314 n. 1 cod.proc.pen. con l'art. 5, n. 1, 4 e 5, Cedu, atteso che quest'ultima disposizione sovranazionale impone la previsione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione senza alcuna condizione ostativa.

5.La Procura Generale ha concluso per l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, in accoglimento del primo motivo.

RITENUTO IN DIRITTO

1.11 ricorso non può essere accolto.

2. In primo luogo occorre affrontare la seconda censura, avente ad oggetto un asserito contrasto tra la disciplina nazionale e quella sovra-nazionale in materia di riparazione per ingiusta detenzione, che risulta pregiudiziale rispetto alla prima. L'art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo contempla il diritto alla libertà e alla sicurezza, precisando che nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti (tra cui, alla lett. c, vi è un chiaro rinvio alle misure cautelari - "se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso"), nei modi previsti dalla legge e, comunque, con le garanzie processuali minime ivi stabilite. La medesima disposizione attribuisce ad ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di tale disciplina il diritto alla riparazione. Da tale premessa consegue che, nel caso di specie, non vi è alcuna interferenza della disciplina in esame con l'invocato art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, posto che il ricorrente ha subito la detenzione in uno dei casi ivi contemplati, secondo le modalità previste dalla legge nazionale e conformi alle garanzie processuali minime che devono essere assicurate in base alla Convenzione medesima. Invero, la normativa italiana, agli artt. 314 ss. cod.proc.pen., in un'ottica solidaristica, riconosce il diritto alla riparazione non solo per la detenzione preventiva formalmente illegittima, come imposto dall'art. 5 in esame, bensì anche per quella formalmente legittima (come nel caso di specie), ma sostanzialmente ingiusta, in quanto non seguita da una sentenza di condanna, subordinando, tuttavia, in tale ipotesi il diritto all'indennizzo alla condizione che l'adozione o il mantenimento della misura cautelare non siano causalmente riconducibili ad una condotta gravemente colposa dell'istante. Si tratta, pertanto, di una disciplina del tutto conforme a quella convenzionale, in quanto attribuisce un diritto ulteriore rispetto a quello imposto dall'art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e, cioè, il diritto ad un ristoro patrimoniale anche nelle ipotesi di detenzione preventiva formalmente legittima, che può conseguentemente essere limitato dal legislatore nazionale senza il rischio di incorrere in violazioni della disciplina convenzionale. La sentenza citata dal ricorrente (CEDU, Quarta Sezione, 12 giugno 2018, ricorso n. 59133/11, Pedroso c. Portogallo) non è pertinente, riguardando una ipotesi di violazione delle garanzie processuali di cui all'art. 5, comma 3, della Convenzione. Né sussistono sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbiano ritenuto contrario l'art. 314 cod.proc.pen. all'art. 5 della Convenzione sotto il profilo invocato dal ricorrente. Al contrario la Grande Camera, con la decisione del 18 dicembre 2002, ricorso n. 24952 del 1994, N.C.
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