Cass. civ., SS.UU., sentenza 22/01/2009, n. 1576
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Gli enti di gestione delle partecipazioni bancarie, quali risultanti dal conferimento delle aziende di credito in apposite società per azioni e gravati dall'obbligo di detenzione e conservazione della maggioranza del relativo capitale ai sensi della legge n. 218 del 1990 ed in base all'art. 12 del d.lgs. n. 356 del 1990,a causa del particolare vincolo genetico che le univa alle aziende scorporate, non possono essere assimilati nè alle persone giuridiche di cui all'art. 10 "bis" della legge n. 1745 del 1962 (che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza,educazione,istruzione,studio e ricerca scientifica), ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d'acconto sugli utili, nè agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 601 del 1973, ai fini del riconoscimento della riduzione a metà dell'aliquota sull'IRPEG; la predetta disciplina agevolativa non trova applicazione quanto agli enti considerati nè in via analogica, trattandosi di disposizioni eccezionali, nè in via estensiva, poichè la sua "ratio" va ricercata nella esclusività e tipicità del fine sociale previsto per ciascun ente, individuato in maniera tassativa quale già esistente al momento dell'entrata in vigore delle predette norme. La successiva disciplina di riforma del sistema creditizio, nell'attribuire a tali enti, ai sensi dell'art. 12 del d.lgs. n. 153 del 1999 ed ove si siano adeguati alle nuove prescrizioni, la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato, così estendendo ad essi il regime tributario proprio degli enti non commerciali, "ex" art. 87, comma 1, lettera c) del T.U.I.R., non ha assunto valenza interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, avendo essa previsto adempimenti collegati all'attuazione della riforma stessa, senza influenza sui periodi precedenti. Ne consegue l'esistenza di una presunzione di esercizio di impresa bancaria in capo ai soggetti che, in relazione all'entità della partecipazione al capitale sociale, sono in grado di influire sull'attività dell'ente creditizio e, dall'altro,la possibile fruizione dei predetti benefici, per gli enti considerati, solo a seguito della dimostrazione, di cui sono onerati secondo il comune regime della prova ex art. 2697 cod. civ.,di aver in concreto svolto un'attività, per l'anno d'imposta rilevante, del tutto differente da quella prevista dal legislatore, dunque un'attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale anzichè quella di controllo e governo delle partecipazioni bancarie e sempre che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all'Amministrazione finanziaria l'onere di sollevare in proposito precise contestazioni.
Sul provvedimento
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. C V - Primo Presidente -
Dott. P E - Presidente di sezione -
Dott. S G - Consigliere -
Dott. M A - rel. Consigliere -
Dott. F F - Consigliere -
Dott. N A - Consigliere -
Dott. T S - Consigliere -
Dott. S A - Consigliere -
Dott. T G - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12615/2001 proposto da:
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI CESENA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NICOLÒ PORPORA 9, presso lo studio dell'avvocato G M, che la rappresenta e difende, giusta procura speciale depositata in data 22 maggio 2001, in atti;
- ricorrente -
contro
AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE DELLO STATO, in persona del Ministro pro tempore, A D E, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che le rappresenta e difende ope legis;
- controricorrenti -
avverso la sentenza n. 83/2000 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di BOLOGNA, depositata il 18/09/2000;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/11/2008 dal Consigliere Dott. MERONE ANTONIO;
uditi gli. avvocati GIONTELLA Marco, GENTILI dell'Avvocatura Generale dello Stato;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. NARDI Vincenzo, che ha concluso, preliminarmente difetto di legittimazione passiva del Ministero delle Finanze, nel merito rigetto del ricorso. FATTO
1. 1. La Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena ha impugnato, dinanzi al giudice tributario competente, il silenzio rifiuto seguito alla istanza con la quale la stessa Fondazione ha richiesto il rimborso parziale dell'IRPEG pagata ad aliquota piena, in relazione all'esercizio 1995. La "fondazione" invoca l'agevolazione di carattere soggettivo prevista dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, in forza del quale l'imposta sul reddito delle persone giuridiche è ridotta alla metà nei confronti degli "a) enti e istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza;b) istituti di istruzione e istituti di studio e sperimentazione di interesse generale che non hanno fine di lucro, corpi scientifici, accademie, fondazioni e associazioni storiche, letterarie, scientifiche, di esperienze e ricerche aventi scopi esclusivamente culturali;c) enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficenza o di istruzione". 1.2. La commissione tributaria provinciale adita ha rigettato il ricorso e la commissione tributaria regionale ha confermato la decisione di primo grado, rigettando l'appello dell'ufficio, in considerazione della tassatività della elencazione contenuta nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, che non ne consente la estensione ad altri enti, della attività svolta in concreto dalle cc.dd. fondazioni bancarie, e di quanto disposto della L. 23 dicembre 1998, n. 461, art. 3, comma 1, lett. d) e del D.Lgs. 17 maggio 1999, n.153, art. 12, comma 1.
Avverso quest'ultima decisione, la Fondazione ricorre contro il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate,con due articolati motivi, illustrati anche con memorie, con i quali denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 461 del 1998, art. 3, del D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 87 TUIR, unitamente a vizi di motivazione.
L'amministrazione finanziaria resiste con controricorso. 1.3. Con ordinanza n. 26506/07, la sezione tributaria di questa Corte, alla quale il ricorso è stato originariamente assegnato, ha rimesso il ricorso stesso al primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle SS.UU., ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 2, e art. 376 c.p.c., comma 3, sul rilievo che "anche dopo l'intervento delle SS.UU. civili con sentenza n. 2719 del 19/12/2006 ancora si controverte sia in ordine alla applicabilità dei benefici fiscali nel sistema previgente alla emanazione del D.Lgs. n. 153 del 1999, sia in ordine ai poteri istruttori delle parti dopo l'intervento della Corte di Giustizia".
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso a queste SS.UU. fissando per la trattazione l'odierna udienza.
Le parti ed il P.G. hanno concluso come da verbale.
DIRITTO
2.1. (Questioni preliminari) Preliminarmente va rilevata la inammissibilità del ricorso proposto contro il Ministero, che non era parte nel giudizio di appello (Cass. SS.UU. 3116/2006, 3118/2006). Nel merito il ricorso della Fondazione non può trovare accoglimento. I motivi, strettamente connessi, richiedono un esame congiunto. 2.2. (La giurisprudenza della sezione tributaria prima dell'intervento delle SS.UU.) Giova ripercorrere, sinteticamente, l'evoluzione giurisprudenziale che ha caratterizzato la vicenda in esame.
Al primo arresto, favorevole alla tesi della applicabilità dell'agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, con il quale questa Corte ha "riconosciuto il beneficio della riduzione alla metà dell'aliquota IRPEG, giusta disposto del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, alla Compagnia San Paolo, attesane la natura di
fondazione bancaria dotata di personalità giuridica con finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, che si limita ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della propria azienda bancaria ad una società per azioni ed a destinare i relativi dividendi agli scopi statutari senza fini lucrativi" (Cass. Sez. 5^, n. 6607/2002), sono seguite altre decisioni, di analogo tenore che, a supporto della tesi favorevole alle "fondazioni", hanno anche utilizzato in chiave interpretativa la successiva riforma di privatizzazione delle fondazioni di origine bancaria, attuata con il D.Lgs. n. 153 del 1999. Anche se poi la prima pronuncia in tema di ritenuta a titolo di imposta sugli utili societari, previsto della L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, (norma che la giurisprudenza
successiva, Cass. Sez. 6^, 19365/2003, riteneva speculare rispetto a quella di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6) ha escluso che le "fondazioni" di origine bancaria avessero diritto all'esonero stesso, non perseguendo esclusivamente scopi di utilità sociale (Cass. Sez. 5^, 14574/2001). Nel solco della sentenza 6607/2002, favorevole alle "fondazioni", si pongono le successive pronunce, secondo le quali il beneficio della riduzione alla metà dell'aliquota IRPEG, riservata ai soggetti elencati nel del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, spetta anche alle Fondazioni bancarie in considerazione
a) "delle finalità di interesse pubblico e di utilità sociale perseguite nei settori della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte e della sanità, e considerato che l'amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell'azienda bancaria - avente carattere transitorio, fintanto che le fondazioni ne saranno titolari - non costituisce attività commerciale e che l'art. 12 D.Lgs. n. 356 del 1990 preclude alle Fondazioni qualsiasi ingerenza
nell'esercizio dell'attività bancaria e quindi anche la possibilità di operare come holding, esercitando in modo indiretto tale attività. Sulla base del D.Lgs n. 153 del 1999, art. 12, comma 2, costituente disposizione di natura interpretativa, tale regime agevolativo è applicabile anche alle fondazioni già esistenti al momento dell'entrata in vigore della disposizione e con riferimento ai pregressi anni d'imposta, purché tali soggetti, anche in conformità della Decisione della Commissione CE (del 22 agosto 2002, C-2002-3118), abbiano svolto la loro attività senza scopo di lucro, secondo un giudizio di meritevolezza oggetto di accertamento in fatto" (così Cass. 19365/2003, secondo la quale, come già accennato, l'ambito applicativo dell'agevolazione in esame coincide con quello di cui alla L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, in quanto la ratio di entrambe risiede in un "giudizio di meritevolezza dell'attività svolta dal contribuente");
b) "delle finalità di interesse pubblico e di utilità sociale perseguite e considerato che l'amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell'azienda bancaria costituisce attività strumentale, che fornisce le rendite necessane per il perseguimento degli scopi statutari e non ne forma l'oggetto principale. Sulla base del D.Lgs n. 153 del 1999, art. 12, comma 2, costituente disposizione di natura interpretativa, tale regime agevolativo è applicabile anche alle fondazioni già esistenti al momento dell'entrata in vigore della disposizione e con riferimento ai pregressi anni d'imposta, purché tali soggetti abbiano perseguito prevalentemente fini di interesse pubblico e di utilità sociale ed abbiano di fatto presentato le condizioni per beneficiare dell'agevolazione" (Cass. Sez. 5^ 19445/2003). Gli argomenti sui quali si fonda il riconoscimento del diritto alla agevolazione attengono sia alla interpretazione delle leggi che hanno disciplinato la riforma, sia al riscontro in punto di fatto che la gestione della partecipazione non perseguisse fini di lucro. Posti nel loro ordine logico, gli argomenti sui quali si fonda la prima giurisprudenza possono essere così sintetizzati:
a) il D.Lgs. 20 dicembre 1990, n. 356, art. 12, (recante le Disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio, emanata in attuazione della delega di cui alla L. n. 218 del 1990, c.d. riforma Amato), abrogato da D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 30 precludeva qualsiasi ingerenza nell'esercizio dell'attività
bancaria e quindi anche la possibilità di operare come holding e di esercitare in modo indiretto tale attività;tanto è vero che, successivamente, al D.Lgs. 15 maggio 1999, n. 153, art. 12, comma 2, prima alinea, (recante la Disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti di cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1, e disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione
bancaria, a norma della L. 23 dicembre 1998, n. 461, art. 1) ha stabilito che alle fondazioni in questione "si applica il regime previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 6";
b) L'"amministrazione della partecipazione" nella società conferitaria è connotata dal perseguimento di finalità di interesse pubblico e di utilità sociale e dal carattere transitorio, per cui tale attività di gestione, in linea di principio, non è l'oggetto principale dell'attività e non costituisce attività commerciale;
tanto è vero che il D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, comma 2, seconda alinea, estende retroattivamente il regime agevolativo di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, "alle fondazioni non aventi natura di enti commerciali che abbiano perseguito prevalentemente fini di interesse pubblico e di utilità sociale nei settori indicati nel D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 12 e successive modificazioni";
ne deriva che occorre accertare in punto di fatto quale sia stata in realtà l'attività svolta e con quali finalità;
c) in definitiva, gli enti di gestione delle partecipazioni delle conferitane hanno natura di fondazioni, sono dotate di personalità giuridica, perseguono finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, e si limitano ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della azienda bancaria.
Già da questa prima rassegna risulta evidente che la tesi della spettanza dell'agevolazione oscilla tra mere ricostruzioni in diritto (le cc.dd. fondazioni bancarie sarebbero enti che, nel disegno legislativo, sarebbero nati per svolgere, esclusivamente o prevalentemente, attività sociale meritoria) e necessità della prova che le attività svolte in concreto dagli enti conferenti siano sussumibili ai modelli che il legislatore ha individuato come meritevoli di "sconto" fiscale. È evidente che questa seconda opzione annulla la prima, nel senso che se gli enti conferenti avessero avuto nel loro DNA la mission del non profit, ogni indagine in fatto sarebbe superflua, salvo il caso in cui l'amministrazione finanziaria avesse accertato che l'ente, tradendo il dettato legislativo avesse svolto attività di impresa. Ritiene invece il Collegio che l'originario modello legislativo degli enti conferenti era orientato verso una missione che aveva ad oggetto essenzialmente e prevalentemente lo sviluppo dell'attività dell'impresa bancaria e che le attività sociali, in ipotesi fiscalmente meritevoli, avevano rilevanza marginale, non inquadrabili nei paradigmi delle norme eccezionali agevolative. A parte la considerazione che, in concreto, non è stata fornita la prova della "qualità" e "quantità" delle attività che avrebbero dovuto fare da traino agli sconti fiscali. Nè possono essere invocati i poteri istruttori ex officio, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che è norma di utilizzo eccezionale, la quale non consente al giudice "di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo" (Cass. 18976/2007). 2.3. (La pronuncia della Corte di giustizia) Con ordinanza n. 8319 del 30 aprile 2004, pronunciata nel giudizio di legittimità promosso dal Ministero dell'Economia e delle Finanze contro la Cassa di Risparmio di Firenze SpA, avente ad oggetto l'applicabilità alle fondazioni di origine bancaria delle agevolazioni di cui alla L. n.1745 del 1962, art. 10 bis, correlata con quella di cui al D.P.R. n.601 del 1973, art. 6, questa Corte - premesso che "ove in via
interpretativa si affermi l'applicazione dei benefici fiscali menzionati anche alle Fondazioni Bancarie, sulla base dell'affermata natura non commerciale di tali enti e del carattere d'interpretazione della L. n. 153 cit., si può ipotizzare un contrasto di tale sistema normativo sia con le norme e i principi del Trattato CE, in materia di concorrenza, e della disciplina degli aiuti di Stato (artt. 87 e 88), sia in relazione al principio di non discriminazione, e con riguardo alla libertà di stabilimento e circolazione dei capitali (artt. 12, 43 e segg., art. 56 e segg.)";
- ha effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'UE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, ponendo le seguenti questioni;"se le Fondazioni bancarie italiane, per essere titolari di partecipazioni di controllo di società bancarie, in relazione ad una quota assai rilevante che tali soggetti hanno sul mercato, e potendo destinare il ricavato della dismissione di tali partecipazioni all'acquisto in imprese non bancarie, anche per perseguire la finalità dello sviluppo economico, siano sottoposte alla disciplina comunitaria della concorrenza, da un lato, e a quella stabilita in materia di aiuti di Stato, da un altro;e, nel caso di risposta affermativa a tale quesito, se sia valida, sotto il profilo della legittimità e della sufficienza della motivazione, la decisione della Commissione CE del 22 agosto, con la quale è stata ritenuta inapplicabile alle Fondazioni, per il sistema agevolativo menzionato, la disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato". Con sentenza 10 gennaio 2006 nel procedimento C-222/04, instaurato sulla base del citato rinvio pregiudiziale, la Corte di giustizia ha considerato:
- che "nell'ambito del diritto della concorrenza il concetto di impresa comprende qualsiasi ente che eserciti un'attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (v., in particolare, sentenze 23 aprile 1991, causa C- 41/90, H e E, Racc. pag. 1 - 1979, punto 21, e 16 marzo 2004, cause riunite C- 264/01, C- 306/01, C- 354/01 e C- 355/01, AOK Bundesverband e a., Racc. pag. 1-2493, punto 46)" e che "Costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nelFoffrire beni o servizi su un determinato mercato (v., in particolare, sentenze 18 giugno 1998, causa C- 35/96, Commissione/Italia, Racc. pag. 1-3851, punto 36, e 12 settembre 2000, cause riunite da C- 180/98 a C- 184/98, Pavlov e a., Racc. pag. 1-6451, punto 75)" (punti 107-108). - che "nella maggior parte dei casi, l'attività economica è svolta direttamente sul mercato", ma "non è tuttavia escluso che essa sia il prodotto di un operatore in contatto diretto con il mercato e, indirettamente, di un altro soggetto controllante tale operatore nell'ambito di un'unità economica che essi formano insieme" (punti 109-110);
- che, in linea di principio, "il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un'attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso da luogo soltanto all'esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti della proprietà di un bene";ma che invece "un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, deve essere considerato partecipe dell'attività economica svolta dall'impresa controllata", e, quindi dev'essere considerato, a tale titolo, un'impresa ai sensi dell'art. 87, n. 1, CE (punti 111-113);
- che, se così non fosse, "la semplice suddivisione di un'impresa in due enti distinti, uno con il compito di svolgere direttamente l'attività economica precedente e il secondo con quello di controllare il primo, intervenendo nella sua gestione", consentirebbe di eludere le norme comunitarie sugli aiuti di Stato (un tale sistema consentirebbe all'ente controllante di beneficiare di sovvenzioni o di altri vantaggi concessi dallo Stato e di utilizzarli in tutto o in parte a beneficio dell'impresa controllata, sempre nell'interesse dell'unità economica costituita dai due enti) (punto 114). - che l'ingerenza, nella gestione di una società bancaria, di un soggetto come la fondazione bancaria, parte nella causa principale, ben può realizzarsi nell'ambito di una disciplina come quella prevista, per il periodo che qui interessa, dalla L. n. 218 del 1990, e dal D.Lgs. n. 356 del 1990, atteso che "nell'ambito di tale disciplina, una fondazione bancaria che controlla il capitale di un'impresa bancaria, benché non possa svolgere direttamente l'attività bancaria, deve assicurare la continuità operativa tra se stessa e la banca controllata, per cui vi devono essere disposizioni che prevedano che alcuni membri del comitato di gestione od organo equivalente della fondazione bancaria siano nominati nel consiglio di amministrazione, e alcuni membri dell'organo di controllo nel collegio sindacale della società bancaria e la fondazione bancaria deve destinare una determinata quota dei proventi derivanti dalle partecipazioni nella società bancaria ad una riserva finalizzata alla sottoscrizione degli aumenti di capitale di tale società", oltre a potere investire la riserva, in particolare, in titoli della società bancaria controllata (punti 115-116);
- che le norme in esame "configurano un ruolo delle fondazioni bancarie che va al di là della semplice collocazione di capitali da parte di un investitore";in particolare rendono "possibile lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario", "dimostrano l'esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le società bancarie" (come è confermato anche dal mantenimento, in particolare, della sorveglianza sugli enti conferenti, da parte del Ministro del Tesoro, ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 14) (punto 117);
- che ai fini della eventuale qualificazione come "impresa" della fondazione bancaria spetta al giudice nazionale valutare se quest'ultima detenga soltanto partecipazioni di controllo in una società bancaria, senza poi esercitare tale controllo, con interventi diretti o indiretti nella gestione della stessa, tenendo presente che "quando una fondazione bancaria, agendo direttamente negli ambiti di interesse pubblico e utilità sociale, fa uso dell'autorizzazione conferitale dal legislatore nazionale ad effettuare operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari necessarie o opportune per realizzare gli scopi che le sono prefissi, essa può offrire beni o servizi sul mercato in concorrenza con altri operatori, ad esempio in settori come la ricerca scientifica, l'educazione, l'arte o la sanità". In tal caso, che deve essere valutato dal giudice nazionale, "la fondazione bancaria deve essere considerata come un'impresa, in quanto svolge un'attività economica, nonostante il fatto che l'offerta di beni o servizi sia fatta senza scopo di lucro, poiché tale offerta si pone in concorrenza con quella di operatori che invece tale scopo perseguono e devono applicarsi, di conseguenza, le norme comunitarie sugli aiuti di Stato" (punti 118 - 122).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di giustizia ha concluso nel senso che
a) "In esito ad una valutazione che spetta al giudice nazionale compiere sulla base della disciplina applicabile nel periodo rilevante, una persona giuridica come quella oggetto della causa principale può essere qualificata come impresa ai sensi dell'art. 87, n. 1, CE e in quanto tale essere sottoposta, per tale periodo, alle norme comunitarie in materia di aiuti di Stato";
b) "In esito ad una valutazione che spetta al giudice nazionale compiere, un'esenzione dalla ritenuta sui dividendi come quella oggetto della causa principale può essere qualificata come aiuto di Stato ai sensi dell'art. 87, n. 1, CE".
2.4. (La sentenza 27619/2006 delle SS.UU.) Intanto, la trattazione del ricorso che ha determinato il rinvio pregiudiziale alla CGE è stata rimessa alle SS.UU. di questa Corte, essendosi verificato un contrasto nella giurisprudenza della Sezione tributaria circa l'applicabilità delle norme agevolati ve alle fondazioni bancarie. Il contrasto è stato risolto con la sentenza n. 27619/2006, secondo la quale "il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell'esenzione dalla ritenuta d'acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, prevista dalla L. 29 dicembre 1962, n.1745, art. 10 bis, (introdotto dalla D.L. 21 febbraio 1967, n. 22, art. 6, convertito in L. 21 aprile 1967, n. 209), è subordinato alla
prova, posta a carico del soggetto che invoca l'agevolazione, dell'effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche. In tale prospettiva, non può attribuirsi portata determinante alle trasformazioni disposte dalla L. 30 luglio 1990, n. 218 e dal D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, tenuto conto del perdurare nel nuovo regime di un collegamento genetico e funzionale tra fondazioni ed imprese bancarie, dovendosi invece conferire rilievo, indipendentemente dal possesso di partecipazioni azionarie di controllo (anche per il tramite di società finanziarie), all'eventuale stipulazione di patti parasociali idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l'esercizio di un'influenza sulla gestione dell'impresa bancaria, nonché allo svolgimento di attività economica, anche non caratterizzata da scopo di lucro. L'accertamento di tali elementi, che consentono di qualificare l'attività della fondazione come esercizio d'impresa, conformemente alla nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, impone al giudice di disapplicare l'art. 10 bis cit., ponendosi l'agevolazione da esso prevista come misura fiscale selettiva che, in quanto potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza, viene a configurarsi come aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune". Quindi, questa Corte non ha escluso in linea di principio che gli enti conferenti possano beneficiare delle agevolazioni fiscali in questione, sempre che offrano la prova che in concreto abbiamo svolto attività che possano essere riportate ai modelli legislativi previsti della L.1745 del 1962, art. 10 bis, e D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6,.
Pertanto, la causa è stata poi rinviata ai giudici di merito per accertare l'eventuale sussistenza dei presupposti per godere delle ripetute agevolazioni, sulla base delle regole e dei parametri fissati dalla stessa sentenza di rinvio, riassumibili nel principio che la gestione di partecipazioni di controllo sull'impresa bancaria costituisce attività di impresa e che la prova della sussistenza di circostanze di fatto che, in deroga a tale principio, dimostrino che in realtà l'ente di gestione ha perseguito prevalentemente finalità diverse da quelle proprie dell'impresa bancaria, rendendosi meritevole di un trattamento fiscale agevolato, è a carico dell'ente che invoca il beneficio (secondo la regola generale di distribuzione dell'onere della prova).
2.5. (La giurisprudenza della sezione tributaria successiva all'arresto delle SS.UU.). Dopo l'intervento di queste SS.UU. la giurisprudenza della sezione tributaria ha affermato, in linea di principio, che ai fini del riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio della riduzione a metà dell'aliquota, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 6, "occorre accertare che l'attività della fondazione non presenti i connotati dell'azione imprenditoriale, i quali possono sussistere anche in mancanza del fine di lucro e pur nella dimostrata destinazione dei profitti, in parte o nel loro intero ammontare, al raggiungimento di scopi di utilità sociale, restando escluso il carattere d'impresa commerciale solo dalla previsione, statutaria o legale, dell'esclusività dei predetti scopi, e dalla dimostrazione che tali attività siano state effettivamente svolte e che la fondazione non abbia alcuna possibilità d'influire, quale azionista maggioritario o non maggioritario o in virtù di accordi parasociali o di patti di sindacato, sulla gestione della banca conferitaria o di altre imprese da essa partecipate. In applicazione di tale principio, è stata confermata la sentenza del giudice di appello, il quale aveva rigettato il ricorso del contribuente, sul rilievo che lo stesso contribuente non aveva dedotto di possedere quei requisiti che, escludendo in radice la natura commerciale dell'iniziativa, consentivano di fruire dell'agevolazione in esame senza incorrere nel divieto degli aiuti di Stato (Cass. Sez. 5^, 5740/2007). Secondo quest'ultima pronuncia, per beneficiare dell'applicazione delle norme agevolative, occorre una previsione legale o statutaria della esclusività degli scopi di utilità sociale dell'ente, accompagnata dalla accertata impossibilità dell'ente stesso di influire sulla gestione della banca conferitaria. A nulla rileva che l'attività non sia stata svolta per fini di lucro e/o che i profitti siano stati destinati al raggiungimento di scopi di utilità sociale, se comunque la fondazione ha svolto funzioni di governo della banca. Con la sentenza n. 7883/2007 è stato confermato che il beneficio fiscale di cui al L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, è subordinato all'effettivo perseguimento in via esclusiva da parte dell'ente di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni in imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche. La prova di tale requisito è posta a carico del soggetto che invoca l'agevolazione, e può essere fornita mediante la produzione di estratti dei libri contabili o idonee certificazioni del collegio dei revisori o del collegio sindacale delle società partecipate;la relativa verifica postula un'indagine sull'esercizio in concreto dell'attività d'impresa, non limitata ai modi di gestione della partecipazione di origine, ma estesa all'attività complessivamente esercitata dalla fondazione nell'anno d'imposta, e presuppone innanzitutto che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all'Amministrazione finanziaria l'onere di sollevare in proposito precise contestazioni" (conf. 10259/2007). In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato senza rinvio la decisione impugnata dall'Agenzia delle Entrate e, decidendo nel merito, ha rigettato il ricorso introduttivo dell'ente conferente, che non aveva soddisfatto l'onere di allegazione.
Così pure, con sentenza 10258/2007, la sezione tributaria ha confermato che occorre sempre "accertare che l'attività della fondazione non presenti i connotati propri dell'esercizio di un'impresa, tenendo conto che è qualificabile come tale, indipendentemente dal carattere non lucrativo dei compiti istituzionalmente assegnati all'ente, anche l'esclusiva gestione dell'originaria partecipazione nella banca conferitaria, e che la completa dismissione di tale partecipazione non comporta automaticamente il venir meno dei predetti connotati, quando le risorse da essa ricavate siano state utilizzate per acquisire partecipazioni in altre imprese, anche non bancarie". Sostanzialmente la sentenza pone l'accento sul fatto che la dismissione delle partecipazioni non equivale alla cessazione della attività dell'impresa bancaria, dal momento che non si tratta di una dismissione con perdita della proprietà, ma di
dismissione/conferimento, con l'effetto che la proprietà e la gestione dell'azienda non sono passate di mano, sono state soltanto cartolarizzate in titoli azionari. rimasti quasi completamente nelle mani degli stessi enti conferenti. Ne deriva che la prova della sussistenza dei requisiti per beneficiare delle agevolazioni fiscali deve essere fornita dal soggetto che invoca l'agevolandone, il quale deve dimostrare che l'ente pubblico economico originario si è totalmente svuotato delle proprie connotazioni imprenditoriali, acquisendo la veste esclusiva o prevalente dell'ente di beneficenza, assistenza, istruzione, ecc.. Anche in questo caso i giudici di legittimità hanno deciso nel merito il ricorso a favore dell'Agenzia delle Entrate, sul rilievo che il tema della realizzazione in concreto delle attività meritevoli delle agevolazioni, non risultava nemmeno introdotto nel giudizio.
Su tale scia si pongono le successive pronunce sezionali nn. 10253/2007, 13559/2007, 16818/2007, 18980/2007, 18981/2007, 5963/2008, 14485/2008.
La giurisprudenza appena esaminata, superando la precedente statuizione di queste SS.UU., ha sostanzialmente escluso la necessità del rinvio al giudice del merito per l'esame della sussistenza dei presupposti di fatto richiesti dalle norme agevolative, sul rilievo che se il tema specifico della prova del perseguimento in concreto delle finalità sociali non risulta prospettato con il ricorso introduttivo, lo stesso non può più essere introdotto come tema di indagine, nemmeno invocando il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, e quindi il rinvio comporta soltanto un
inutile prolungamento dell'iter processuale. Di qui la necessità di una nuova verifica da parte di queste SS.UU.
2.6. (L'analisi delle norme di riforma). Ritiene il Collegio che debba essere confermato l'ultimo indirizzo giurisprudenziale, sia perché deriva direttamente dai principi affermati in precedenza da queste SS.UU., sia perché la rilettura delle norme di riforma, calate nel loro contesto storico - legislativo, confortano la tesi che il legislatore della prima riforma (c.d. riforma Amato) ha inventato un tipo di ente assolutamente nuovo nel nostro panorama legislativo, difficile da classificare, ma comunque con caratteristiche che non si conciliano con quelle degli enti elencati nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 o indicati nella L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis. Sulla base delle norme positive si riscontra una
chiara inconciliabilità tra gli enti conferenti (incaricati della gestione del pacchetto di maggioranza delle banche privatizzate) e gli enti (di assistenza, beneficenza, istruzione, ecc.) cui competono le agevolazioni. Sul piano processuale questa inconciliabilità si risolve in una presunzione legale di svolgimento di attività bancaria, superabile soltanto se si dimostrasse che gli enti conferenti abbiano privilegiato, rispetto al governo delle aziende bancarie (scopo per il quale sono nate), la realizzazione di scopi sociali considerati preminenti (se non esclusivi) rispetto agli interessi della banca. In altri termini, per accedere alla tesi prospettata dagli enti conferenti, bisognerebbe dimostrare che il legislatore del 1990 abbia inteso costituire innanzitutto enti di beneficenza in senso lato, limitandosi a disciplinare in via residuale la riforma del sistema creditizio. Il che evidentemente non è. La riforma non nasce per revisionare o disciplinare sistematicamente il settore del non profit (come è avvenuto poi, successivamente, con la L. n. 490 del 1997), ma per dettare Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico (questo il titolo della Legge Delega per la riforma n. 218 del 1990). Secondo quanto dispone l'art. 12 delle c.d. preleggi l'interpretazione delle norme deve prendere le mosse dall'elemento letterale, dal significato delle parole e dalla intenzione del legislatore. Il ricorso a strumenti di consentono di superare (ampliando o limitando) l'interpretazione letterale, come l'inquadramento sistematico o la incompatibilità con precetti di rango superiore, appartiene ad un momento successivo. Pertanto, mettendo momentaneamente da parte il contesto della normativa comunitaria (considerato anche che la Corte di giustizia ha ribadito che deve essere il giudice nazionale a ricostruire sistema e significato delle norme interne), ritiene il Collegio che già il testo delle norme che hanno attuato la riforma evidenziano, come accennato, una chiara incompatibilità con le previsioni di cui alle norme agevolati ve.
È noto che la riforma del sistema bancario è stata attuata in due momenti:
a) il primo realizzato con la già menzionata L. 30 luglio 1990, n.218, recante Disposizioni in materia di ristrutturazione e
integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico e con il D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, recante Disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio (c.d. riforma Amato)
b) il secondo realizzato in base alla L. 23 dicembre 1998, n. 461, recante Delega al Governo per il riordino della disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti, di cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1, e della disciplina fiscale
delle operazioni di ristrutturazione bancaria, e al D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, recante la Disciplina civilistica e fiscale degli enti
conferenti di cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1, e disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione
bancaria, a norma della L. 23 dicembre 1998, n. 461, art. 1, (c.d. riforma Ciampi).
2.6.1. (La riforma Amato). Le cc.dd. fondazioni bancarie (nome attribuito agli enti conferenti soltanto con la successiva riforma del 1999) nascono dallo sdoppiamento degli originari enti pubblici economici-Casse di Risparmio in a) società per azioni, alle quali sono state conferite le aziende di credito, ed b) enti conferenti, gravati dall'obbligo di detenere e conservare la titolarità della maggioranza delle azioni con diritto di voto, ottenute a fronte dei conferimenti.
La riforma era intesa a rafforzare il sistema creditizio italiano, ad incrementarne la dimensione patrimoniale e ad accrescerne la capacità competitiva. Il fine principale della riforma era, dunque, quello di razionalizzare il sistema creditizio per adeguarlo alla realtà del mercato unico europeo e renderlo competitivo nel nuovo scenario della liberalizzazione valutaria e dei servizi. In questa ottica, la missione che il legislatore ha assegnato agli enti conferenti è essenzialmente quella di garantire, nel periodo di transizione, gli equilibri tra controllo pubblico e gestione privata delle società conferitarie. Le finalità sociali cui dovrà poi ispirarsi l'azione degli enti (pubblici) conferenti sono destinate, in questa prima fase, a restare compresse dal peso della continuazione della gestione bancaria, attraverso la titolarità del pacchetto di controllo, fino al momento in cui le società bancarie non saranno affrancate dalla tutela degli enti pubblici, oramai privatizzati, in forza della riforma Ciampi. Infatti, per espresso disposto della L. n. 218 del 1990, art. 1, comma 3, le operazioni di trasformazioni, proprio perché finalizzate alla esigenza di razionalizzazione del sistema creditizio dovevano essere "approvate con decreto del Ministero del tesoro, sentito il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (CICR)". La L. n. 218 del 1990, art. 2, nel dettare le norme alle quali doveva ispirarsi la normativa delegata, ha stabilito, tra l'altro che lo statuto dell'ente conferente "dovrà prevedere che oggetto dell'ente sia la gestione di partecipazioni bancarie e finanziarie, dirette e indirette, e che lo scopo si ispiri alle finalità originarie dell'ente". Dovrà inoltre "fissare i limiti per l'acquisto e la cessione di partecipazioni, prevedendo, in particolare, che la cessione di azioni delle società per azioni risultanti dai conferimenti dovrà essere approvata dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, qualora l'ente conferente perda il controllo della maggioranza delle azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria della società conferitaria. Lo statuto potrà, infine, prevedere limitazioni all'erogazione degli utili, finalizzate alla costituzione di riserve utilizzabili anche per la sottoscrizione di aumenti di capitale" Dal tenore complessivo della norma si evince chiaramente che la principale preoccupazione del legislatore era quella di assicurare agli enti conferenti il controllo della gestione societaria, sotto la vigilanza del CICR (art. 2, comma 1, lett. c). Infatti l'art. 2, comma 1, e la successiva lett. d), prevedeva la introduzione di "una disciplina volta a garantire la permanenza del controllo diretto o indiretto di enti pubblici sulla maggioranza delle azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria delle società per azioni di cui all'art. 1." Soltanto in casi eccezionali, ma al solo fine di rafforzare il sistema creditizio italiano, la sua presenza internazionale, la sua dimensione patrimoniale, e di permettere allo stesso di raggiungere dimensioni che ne accrescessero la capacità competitiva, per finalità di pubblico interesse, uno speciale regime autorizzatorio poteva consentire deroghe al principio del controllo pubblico, "subordinando le relative operazioni:
1) alla presenza, negli statuti degli enti creditizi interessati, di disposizioni volte a impedire che soggetti individuali o gruppi non bancari acquisiscano posizioni dominanti e comunque pregiudizievoli per l'indipendenza dell'ente creditizio;
2) al parere della Banca d'Italia, che provvede all'istruttoria;
3) all'approvazione del Consiglio dei Ministri, con comunicazione alle competenti commissioni parlamentari".
Tutte disposizioni che si preoccupavano esclusivamente, o comunque in maniera assorbente, della "gestione" bancaria e non dei fini di beneficenza, assistenza, istruzione, e così via.
In attuazione di tali disposizioni, il D.Lgs. n. 356 del 1990, art.12 (abrogato poi dal D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 30), stabiliva i
principi ai quali dovevano conformarsi gli statuti degli enti conferenti. Dopo una disposizione di carattere programmatico, che stabiliva quali fossero i fini e cosa potessero fare tali enti, l'art. 12 cit., (comma 1, lett. a) stabiliva, invece, cosa dovessero fare e cosa non dovessero fare gli enti stessi. In base a tale disposizione (D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, comma 1, lett. a), gli enti erano obbligati ad enunciare nello statuto l'intento di perseguire "fini di interesse pubblico e di utilità sociale preminentemente nei settori della ricerca scientifica, della istruzione, dell'arte e della sanità." Inoltre, "potevano" mantenere "le originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli". In questa prima parte, il precetto indicava gli obbiettivi programmatici, la cui eventuale realizzazione non era assolutamente garantita. A fronte di una siffatta norma programmatica "in bianco", il legislatore ha attribuito agli enti conferenti il potere di compiere tutte "le operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari", ritenute necessarie, o anche soltanto opportune, per il conseguimento dei propri scopi. In altri termini, non essendovi l'obbligo di effettuare le operazioni commerciali o finanziarie, imputandole direttamente ad una specifica finalità privilegiata, l'eventuale riconoscimento di benefici fiscali "sulla parola" (ritenendo cioè che siano sempre connesse a scopi meritevoli di agevolazione fiscale) sarebbe priva di copertura costituzionale, prima ancora che in contrasto con la normativa comunitaria sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato.
L'unica attività preclusa in assoluto era quella dell'"esercizio diretto" dell'impresa bancaria. Ma si tratta di un limite strutturale ed ovvio che, per un verso non esclude l'esercizio indiretto dell'attività bancaria e, per altro verso, è diretta conseguenza della riforma, in forza della quale gli enti originari hanno conferito l'azienda bancaria alle nuove società, conservando però il compito della gestione delle partecipazioni di controllo (art. 12, comma 1, lett. b). Vale a dire, se con la riforma gli enti pubblici gestori diretti dell'attività bancaria sono scomparsi per lasciare posto alla gestione attraverso le spa appositamente costituite, è evidente che tali enti non potessero poi svolgere direttamente, come era avvenuto per il passato, l'impresa bancaria, se non vanificando la riforma stessa. Ma ciò non significa che l'attività bancaria delle spa sia stata lasciata priva di governance (proprio nel momento in cui tale attività si apriva al mercato e doveva affrontarne le incognite). Questa è rimasta saldamente nelle mani degli enti conferenti attraverso le partecipazioni. Come ha rilevato la Corte di Giustizia nella già citata sentenza pronunciata nel procedimento C- 222/04, "una fondazione bancaria che controlla il capitale di un'impresa bancaria, anche se non può svolgere direttamente l'attività bancaria, deve assicurare la continuità operativa tra se stessa e la banca controllata" (punto 116). Quindi, le norme della riforma hanno attribuito alle fondazioni bancarie un "ruolo che va al di là della semplice collocazione di capitali da parte di un investitore. Esse rendono possibile lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario. Esse dimostrano l'esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le società bancarie, il che è confermato dal mantenimento, in particolare ai sensi del D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 14, di una sorveglianza da parte del Ministero del Tesoro" (CGE,
sentenza citata, punto 117).
La legge di riforma non ha precluso, invece, l'esercizio indiretto dell'impresa bancaria, assicurato appunto dall' "obbligo", a carico dell'ente pubblico, di amministrare la partecipazione di controllo e "da disposizioni che prevedono la nomina di membri del comitato di gestione o di organo equivalente dell'ente nel consiglio di amministrazione e di componenti l'organo di controllo nel collegio sindacale della suddetta società" (art. 12, comma 1, lett. c). Gli enti conferenti, inoltre, non potevano possedere partecipazioni di controllo nel capitare di imprese bancarie o finanziarie diverse dalla società per azioni conferitaria, ma potevano acquisire e cedere partecipazioni di minoranza al capitale di altre imprese bancarie e finanziarie (art. 12, comma 1, lett. b), cpv.). Il divieto di acquisire partecipazioni di controllo è espressione del divieto di concorrenza sancito in via di principio dall'art. 2390 c.c. e costituisce una conferma al fatto che il fine principale degli enti conferenti era quello della gestione attiva della impresa bancaria:
per questa ragione era loro preclusa la possibilità di acquisire altre partecipazioni di controllo, per evitare una situazione conflittuale. Il divieto non avrebbe avuto senso se gli enti conferenti non avessero avuto un ruolo di gestione attiva, ma soltanto di mero godimento delle azioni.
Gli enti, poi, erano anche tenuti a costituire una riserva finalizzata alla sottoscrizione di aumenti di capitale delle società partecipate, per conservarne il controllo (art. 12, comma 1, lett. d) ed anche questo precetto era finalizzato alla gestione attiva. Soltanto i proventi di natura straordinaria, che non fossero destinati a riserva o a non meglio precisate finalità gestionali dell'ente dovevano essere utilizzati, in via soltanto residuale, per la realizzazione di strutture stabili attinenti alla ricerca scientifica, alla istruzione, all'arte e alla sanità. Dal quadro normativo tracciato, risulta evidente che gli enti conferenti, fino a quando hanno amministrato in regime pubblicistico le partecipazioni nelle società conferitane, hanno svolto essenzialmente e/o prevalentemente una vera e propria attività di gestione (pubblica) dell'impresa bancaria (privatizzata). Come ha rilevato la Corte costituzionale, a seguito della ristrutturazione ex D.Lgs. n. 356 del 1990 degli originali istituti di credito di diritto pubblico, gli enti conferenti hanno dismesso, con il conferimento, la loro originaria natura di enti creditizi, e tuttavia la sussistenza di un vincolo genetico e funzionale fra l'ente pubblico conferente e la società bancaria conferitaria ha prodotto un effetto di attrazione per cui si è continuato ad applicare anche agli enti conferenti il regime di enti e aziende creditizie (Corte Cost. sent. n. 163/1965). Soltanto la successiva evoluzione legislativa (c.d. riforma Ciampi) "ha spezzato il vincolo genetico e funzionale che legava l'ente pubblico conferente e la società bancaria, trasformando la natura giuridica del primo in persona giuridica privata senza scopo di lucro" (Corte Cost. sent. 300/2003). Le fondazioni hanno svolto una attività di impresa rapportabile, sul piano sistematico, al modello della holding. La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo affermato che anche la detenzione di partecipazioni, quando si traduce in un vero e proprio controllo, da luogo ad esercizio di impresa e ad assoggettamento a procedura concorsuale (ed. holding individuale) (v. Cass. 25275/2006). Peraltro, secondo il nuovo testo dell'art. 2497 sexies c.c., la detenzione del capitale di controllo di una società di capitali pone a carico del soggetto detentore una presunzione di esercizio di attività di direzione nei confronti della società partecipata, regola che non fa altro che consacrare il principio della ed. holding individuale elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte, che viene generalmente letta come espressione di uri principio generale già contenuto nell'ordinamento (v. Cass. SS. UU. 27619/2006). Nè rileva, ai fini fiscali, l'eventuale assenza di una apposita organizzazione:
"La nozione tributaristica dell'esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacché il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51, intende come tale l'esercizio per professione
abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall'art.2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde
quindi dal requisito organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell'impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l'attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, ancorché non esclusiva" (Cass. 27211/2006). Infine, per il legislatore e per gli organi di vigilanza, l'impresa bancaria, la fanno i possessori di partecipazioni rilevanti, i quali devono avere specifici requisiti soggettivi (di onorabilità e professionalità) per ottenere la prescritta autorizzazione (R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, artt. 19 - 27 Testo unico bancario). In altri
termini, vi è la presunzione legale che il soggetto che acquisti partecipazioni rilevanti in una banca svolga in concreto l'attività di banchiere e, quindi, deve avere determinati requisiti di ingresso, che altrimenti non avrebbero senso (v. in particolare, D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 19, comma 1, e art. 25, commi 1 e 7, prima alinea: "La
Banca d'Italia autorizza preventivamente l'acquisizione a qualsiasi titolo di partecipazioni rilevanti in una banca e in ogni caso l'acquisizione di azioni o quote di banche da chiunque effettuata quando comporta, tenuto conto delle azioni o quote già possedute, una partecipazione superiore al 5 per cento del capitale della banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto";"Il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Banca d'Italia, determina con regolamento emanato ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 3, i requisiti di onorabilità dei titolari di
partecipazioni rilevanti. ... In mancanza dei requisiti non possono essere esercitati i diritti di voto e gli altri diritti, che consentono di influire sulla società, inerenti alle partecipazioni eccedenti il suddetto limite). Nè si può obiettare che si tratta di requisiti richiesti da un provvedimento legislativo successivo alla prima riforma, atteso che già il D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350, art.1, comma 2, lett. c), (che ha recepito la direttiva CEE 780/1977, ed.
direttiva bancaria, recante il progetto di trasformazione e coordinamento della disciplina del settore creditizio negli Stati membri, nel quadro di un mercato globale liberalizzato, in regime di concorrenza, affrancato da ogni forma di protezionismo) prevedeva che l'autorizzazione all'esercizio dell'attività bancaria, da parte della Banca d'Italia, fosse condizionata al possesso di specifici requisiti da parte di coloro che, in virtù della partecipazione al capitale, fossero in grado di influire sull'attività dell'ente. A maggior ragione, quindi, vale la presunzione che il governo effettivo delle aziende bancarie sia rimasto nelle mani degli enti conferenti, titolari della partecipazione pressoché totalitaria e comunque di maggioranza delle ss.pp.aa.;questi avevano il compito principale di (sono nati per) governare la delicatissima fase di avviamento della riforma che vedeva esordire nel mercato internazionale l'impresa bancaria appena privatizzata. In definitiva, con la riforma Amato gli enti conferenti anziché gestire direttamente l'azienda bancaria, mediante un modello organizzativo di tipo pubblicistico, come era avvenuto per il passato, hanno continuato a svolgere tale attività utilizzando un nuovo modello organizzativo privatistico (quello della spa), mantenendo saldamente nelle proprie mani le leve di comando. La proprietà dell'azienda è rimasta nelle stesse mani. Gli enti conferenti, a fronte del conferimento dell'azienda di proprietà, hanno ottenuto azioni rappresentative (in tutto o in quota ampiamente maggioritaria) del medesimo titolo di proprietà: una semplice cartolarizzazione, che non spostava gli assetti della governarne. Per le cc.dd. fondazioni i requisiti soggettivi richiesti per svolgere attività bancaria erano in re ipsa, avendo già svolto direttamente, fino alla riforma, l'attività creditizia. 2.6.2. (il raffronto con gli enti di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, e L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis). Alla stregua delle
considerazioni svolte, risulta evidente che gli enti di gestione delle partecipazione bancarie, così come sono stati ideati dal legislatore del 1990, non possono essere assimilati alle persone giuridiche pubbliche di cui alla L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica. In questo parametro possono riconoscersi enti nati per tali finalità, anche quando eventualmente svolgano una attività lucrativa strumentale, ma non certamente gli enti pubblici, come quelli in esame, nati dalla necessità di garantire innanzitutto la continuità della gestione delle banche e di accompagnarle nell'ingresso del mercato globale. A tali enti non sono stati posti limiti nell'esercizio delle attività commerciali e finanziarie (salvo quelli specificamente previsti dal D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12), per cui eventuale sconti fiscali, come già è stato rilevato, non potrebbero sfuggire ad eccezioni di incostituzionalità, sul piano della disparità del trattamento, e di incompatibilità con le norme sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato. Nè ha pregio l'eccezione che il contrasto con il diritto comunitario non sia verificabile di ufficio nel giudizio di cassazione": "Il giudice nazionale deve verificare la compatibilità del diritto interno con le disposizioni comunitarie vincolanti e fare applicazione delle medesime anche d'ufficio;
pertanto, nel giudizio di cassazione la verifica della compatibilità col diritto comunitario non è condizionata alla deduzione di uno specifico motivo e, come nei casi dello jus superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative questioni possono essere conosciute purché l'applicazione alla fattispecie del diritto interno sia ancora controversa costituendo oggetto del dibattito introdotto con i motivi di ricorso" (Cass. 9242/2004). Lo stesso dicasi per gli enti, elencati per tipologia dal D.P.R. n.601 del 1973, art. 6, che rispondono ad un preciso profilo
soggettivo, che non si rinviene negli enti conferenti. Infatti, sulla base delle considerazioni svolte, le "fondazioni" di origine bancaria pubbliche non possono essere assimilate agli enti ed istituti di assistenza sociale, ne' alle società di mutuo soccorso, ne' agli enti ospedalieri, ne' agli enti di assistenza e beneficenza (art. 6, comma 1, lett. a). È da escludere anche qualsiasi affinità con gli istituti di istruzione e gli istituti di studio e sperimentazione di interesse generale che non hanno fini di lucro, corpi scientifici e accademie (art. 12, comma 1, lett. b), tutti enti caratterizzati da una loro ben individuata specializzazione e dall'assenza del fine di lucro. Quanto alle fondazioni occorre che queste abbiano fini esclusivamente culturali (art. 12, lett. b), e non è certo il caso degli enti conferenti. Infine non si tratta evidentemente di enti il cui fine è "equiparato per legge" ai fini di beneficenza o di istruzione. La disposizione in esame, infatti, contiene una "norma di chiusura", in forza della quale l'agevolazione fiscale non può essere estesa ad enti che non rientrano nelle tipologie tassativamente elencate, salvo che non si tratti di enti per i quali sia lo stesso legislatore a sancire, expressis verbis, l'equiparazione (art. 6, comma 1, lett. c).
Per tutte le considerazioni svolte, gli enti conferenti, a causa del particolare vincolo genetico, che le univa alle aziende scorporate, e della particolare missione loro assegnata dal legislatore (di traghettamento dell'attività creditizia dal pubblico statale al privato mondiale, in forza delle direttive comunitarie 780/1977 e 646/1989, recepite, rispettivamente con D.P.R. n. 350 del 1985 e D.Lgs. n. 481 del 1992, tendenti a realizzare un mercato bancario libero, concorrenziale ed immune da interventi protezionistici), almeno nella fase di avviamento della riforma, fino a quando non è intervenuta la privatizzazione, non avevano alcuna "somiglianza" con gli enti fiscalmente agevolati e quindi la relativa normativa non può essere loro applicata ne' in via analogica (trattandosi di disposizioni eccezionali), ma neanche in via estensiva, posto che la ratio delle norme agevolative è da ricercarsi nella esclusività e tipicità del fine sociale in senso ampio, previsto per ciascun ente individuato in maniera tassativa. Nè sono ammesse equiparazioni se non espressamente dichiarale dal legislatore. Infatti, come già accennato, lo stesso art. 6 in esame, alla lett. c) del comma 1, contiene una norma di chiusura che impedisce ogni forma di interpretazione estensiva che non sia espressamente prevista dalla legge. Tale disposizione ha un senso soltanto se la si interpreta appunto come divieto di applicazione estensiva della norma stessa, dal momento che l'interpretazione analogica è già preclusa dal carattere di eccezionalità della norma, ai sensi dell'art. 12 disp. gen. La riprova del carattere casistico/esclusivo della disposizione in esame è data dal fatto che allorquando il legislatore ha inteso includere una nuova tipologia di enti lo ha fatto espressamente. È il caso degli istituti autonomi per le case popolari, ai quali la riduzione di imposta è stata concessa attraverso l'aggiunta del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, comma 1, lett. c bis, in forza del D.L. n. 331 del 1993, art. 66, comma 8, modificato dalla Legge di Conversione n. 427 del 1993. Si tratta di una modifica intervenuta mentre era in piena attuazione la prima fase della riforma del sistema creditizio e non è senza significato il fatto che a nessuno sia venuto in mente, in tale contesto storico-legislativo, di estendere l'agevolazione agli enti in questione.
In definitiva, nella specie non è ipotizzabile nessuna forma di estensione delle disposizioni agevolative, per due ordini di ragioni. Innanzitutto, perché la eccezionalità della figura degli enti conferenti, che non aveva precedenti e non ha avuto repliche, impedisce di ipotizzare che il legislatore nel formulare la norma abbia potuto implicitamente riferirsi anche a tale tipo di ente (extraordinem) assolutamente assente dal mondo giuridico allora conosciuto. In secondo luogo, perché lo stesso legislatore ha escluso, in relazione al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 6, ogni estensione che non sia giustificata da una equiparazione espressamente indicata dal legislatore. Per la L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, il requisito della esclusività del fine preclude
l'applicazione della norma agli enti in esame. Non si tratta di argomenti meramente formali, perché non va dimenticato che la disciplina del prelievo fiscale, specialmente nella parte in cui comporta una riduzione del gettito, deve essere oggetto di apposita valutazione legislativa che tenga conto dei vincoli di bilancio (a parte gli altri vincoli derivante dai principi costituzionali di razionalità ed uguaglianza).
2.6.3. (La riforma Ciampi). Occorre ora esaminare la successiva riforma del sistema creditizio per verificare se sia fondata la tesi secondo la quale la nuova disciplina nell'estendere il regime fiscale di favore di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, agli enti che si siano adeguati alle nuove prescrizioni della seconda riforma (D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12), abbia valenza interpretativa e quindi
efficacia retroattiva.
Con la L. 23 dicembre 1998, n. 461, è stata data Delega al Governo per il riordino della disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti, di cui al D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, art. 11, comma 1, e della disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione
bancaria. In attuazione di tale delega è stato promulgato il D.Lgs.17 maggio 1999, n. 153, in forza del quale gli enti conferenti hanno
acquisito la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato (art. 2). Lo stesso D.Lgs. ha chiarito che le fondazioni "Possono esercitare imprese solo se direttamente strumentali ai fini statutari ed esclusivamente nei settori rilevanti" (art. 3, comma 1), confermando, implicitamente, che in precedenza il sistema non poneva un vincolo del genere e potevano essere svolte tutte le attività considerate genericamente opportune. Altre norme, contenute nel titolo I, prevedono in maniera dettagliata gli adempimenti prescritti per la "privatizzazione" delle fondazioni, i quali poi condizionano il passaggio al regime tributario proprio degli enti non commerciali, ai sensi del medesimo D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12. Tra tali adempimenti, vi è quello della dismissione
delle partecipazioni di controllo possedute e del divieto di acquisizione di altre partecipazioni di controllo (salvo quelle in imprese direttamente strumentali) (art. 5, comma 4). Il D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, detta la disciplina fiscale dei "nuovi" enti privatizzati e stabilisce che le fondazioni che hanno adeguato gli statuti alle disposizioni del titolo I si considerano enti non commerciali ai sensi del T.U.I.R. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 87, comma 1, lett. c), (art. 12, comma 1) e, conseguentemente, "si applica il regime previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art.