Cass. pen., sez. I, sentenza 28/12/2018, n. 58478
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la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da P G, nato a San Luca il 20/08/1960 avverso l'ordinanza del 09/11/2017 della Corte di appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;udita la relazione svolta dal consigliere F C;lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale G P, che ha chiesto il rigetto del ricorso;RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza in epigrafe la Corte di appello di Reggio Calabria, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, rigettava la richiesta, avanzata nell'interesse del condannato G P, volta ad ottenere il riconoscimento della fungibilità tra la pena sofferta senza titolo - pari a due anni e ventisette giorni di reclusione, derivante dalla differenza tra quella espiata e quella rideterminata per effetto dell'avvenuta unificazione in continuazione dei reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, giudicati con le sentenze emesse dalla medesima Corte in data 11 luglio 2002, irrevocabile il 4 novembre 2003, e in data 6 luglio 2015, irrevocabile il 4 aprile 2016 - e la pena da scontare in forza della seconda sentenza. A fondamento della decisione rilevava come al riconoscimento della fungibilità ostasse il disposto dell'art. 657, comma 4, cod. proc. pen., in quanto il surplus era stato espiato anteriormente alla commissione del secondo delitto associativo. 2. Avverso tale decisione P propone ricorso per cassazione, mediante atti distinti, entrambi sottoscritti dal difensore di fiducia, avvocato L C. 2.1. Il primo atto è articolato su due motivi. Nel primo motivo il ricorrente, denunciando la violazione degli artt. 81 cpv. cod. pen. e 657, comma 4, cod. proc. pen, assume che il divieto di fungibilità, richiamato dal giudice territoriale, non avrebbe ragione di applicarsi rispetto a P, dovendosi considerare unico il reato associativo in relazione a cui l'espiazione era in corso. L'unicità deriverebbe dall'avvenuto riconoscimento della continuazione già in sede di cognizione, nel giudizio definito ad opera della seconda sentenza sopra citata. Una contraria interpretazione renderebbe inutile il riconoscimento della continuazione, e condurrebbe P a scontare una pena maggiore di quella realmente inflitta. Nel secondo motivo il ricorrente - per l'ipotesi del mancato recepimento di una tale interpretazione - eccepisce l'illegittimità costituzionale della disciplina codicistica, per contrasto con svariati parametri della Carta repubblicana, e con l'art. 7 CEDU. Disconoscere nella specie l'unicità della pena espianda, e privare così l'istituto della continuazione di effetti pratici, sarebbe esito ermeneutico illogico e contraddittorio con la ratio dell'istituto, ingiustamente pregiudizievole per la libertà personale, nonché contrario ai principi di tassatività della fattispecie penale, di prevedibilità e irretroattività della risposta sanzionatoria e di finalizzazione della pena all'esigenza di risocializzazione. 2.2. Nel secondo atto il ricorrente deduce profili di contraddittorietà della motivazione. L'ordinanza impugnata avrebbe negato il presupposto della unicità di condotta, testualmente risultante dalla sentenza di riconoscimento della continuazione, e implicitamente desumibile dal provvedimento che, nelle more del relativo processo, aveva dichiarato la perdita di efficacia della misura cautelare ai sensi dell'art. 300, comma 4, cod. proc. pen., dopo aver constatato che la pena come sopra unificata aveva ecceduto la detenzione complessiva, ricomprendente l'espiazione imputabile al primo titolo. Sarebbe inoltre violata la giurisprudenza di questa Corte, la quale affermerebbe che - ai fini dell'applicazione dell'art. 657, comma 4, cod. proc., onde stabilire se la fungibilità possa operare rispetto a pena riferibile a un reato associativo contestato senza espressa indicazione della data di cessazione della permanenza - il giudice dell'esecuzione debba verificare se realmente questa si sia protratta sino alla condanna di primo grado, o si sia arrestata antecedentemente ai periodi di custodia cautelare sofferta o di pena espiata senza titolo. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Emerge dagli atti che G P sia stato condannato: - con sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria 11 luglio 2002, irrevocabile il 4 novembre 2003, in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., alla pena di cinque anni di reclusione;- con sentenza ulteriore della medesima Corte, datata 6 luglio 2015, irrevocabile il 4 aprile 2016, in relazione al medesimo titolo di reato, accertato sino al 14 aprile 2011, posto in continuazione con quello antecedente, alla pena complessiva di otto anni, quattro mesi e dieci giorni di reclusione;di cui due anni a titolo di aumento, ex art. 81 cpv. cod. pen., per il reato satellite anteriormente giudicato (sei mesi ulteriori di reclusione sono stati inflitti per tentata estorsione, aggravata ai sensi dell'art. 7 d.l. 152 del 1991, conv. dalla legge n. 203 del 1991, pro tempore vigente). Avendo espiato, in relazione al primo reato associativo, quattro anni e ventisette giorni di reclusione (tra il 12 settembre 2001 e 1'8 ottobre 2005), P ha chiesto al giudice dell'esecuzione di detrarre l'eccedenza (pari a due anni e ventisette giorni), dalla pena distintamente imputabile al secondo reato associativo (in totale ammontante a sei anni, quattro mesi e dieci giorni), e impugna in questa sede la decisione reiettiva, basata sul divieto di cui all'art. 657, comma 4, cod. proc. pen.
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