Cass. civ., sez. V trib., sentenza 12/07/2018, n. 18394
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Testo completo
B.F., già dirigente della società E. s.p.a., aderiva in data anteriore al 28 aprile 1993, al trattamento di previdenza integrativa aziendale interno, denominato P., istituito a seguito di accordo del 16 aprile 1986 tra E. s.p.a. e F.;successivamente i fondi accumulati in P.I.A. venivano trasferiti al Fondo di Previdenza integrativo esterno denominato Fe. (Fondo D. E.).
Alla cessazione del rapporto di lavoro, sulla somma complessiva corrisposta dal datore di lavoro a titolo di indennità di fine rapporto veniva effettuata una ritenuta con applicazione dell'aliquota pari al 31,52% e, a seguito di richiesta, da parte del B., di liquidazione della quota di partecipazione al Fondo (per un ammontare pari ad Euro 651.129,94), veniva operata una ritenuta a titolo d'imposta Irpef con applicazione dell'aliquota del 31,52 per cento.
Il B., assumendo che la ritenuta applicata non fosse corretta, in quanto in base alla normativa applicabile alle prestazioni erogate in forma di capitale in dipendenza di contratti di assicurazione o capitalizzazione, maturate in favore di coloro che si erano iscritti in data anteriore al 28 aprile 1993, la ritenuta doveva essere operata nella minor misura del 12,5 per cento, in forza del regime fiscale vigente anteriormente alla riforma attuata dalla L. n. 335 del 1995, presentava istanza di rimborso della eccedenza di imposta versata, deducendo che l'erogazione di cui aveva beneficiato, da considerarsi reddito da capitale, era sottoposta alla minore aliquota del 12,5%, prevista dalla L. n. 482 del 1985, art. 6.
A seguito del silenzio rifiuto della Agenzia delle Entrate, il contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale, che lo accoglieva, riconoscendo che il ricorrente era titolare di una forma pensionistica complementare già esistente alla data del 28 aprile 1993, come tale sottratta alla tassazione separata e soggetta a ritenuta sulla base dell'aliquota del 12,5% di cui alla L. n. 482 del 1985, art. 6.
Proposto appello dalla Agenzia delle Entrate, la Commissione tributaria regionale lo accoglieva, motivando che la contribuzione integrativa rappresentava elemento contrattuale del rapporto di lavoro, per cui le somme erogate conservavano la disciplina generale delle somme percepite a seguito della cessazione del rapporto di lavoro ed andavano, quindi, tassate ai sensi dell'art. 16, comma 1, lett. a) e dell'art. 17 t.u.i.r.
Avverso la suddetta decisione il B. proponeva ricorso per cassazione e questa Corte, con sentenza n. 18477/13, richiamando il principio di diritto enunciato con la sentenza n. 13642/11 dalle Sezioni Unite, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale.
Riassunto il giudizio, la Commissione tributaria regionale, in sede di rinvio, rilevando che, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, occorreva verificare se vi fosse stato o meno impiego sul mercato, da parte del Fondo, del capitale accantonato e quale fosse stato il rendimento conseguito in relazione a tale impiego, affermava che sulla base della documentazione prodotta dall'Agenzia delle Entrate si evinceva che nessun rendimento era derivato dall'investimento, da parte del fondo P.I.A., sui mercati finanziari del capitale accantonato, mentre risultava attestato da Fe. un rendimento netto di Euro 26.423,76, su cui doveva essere applicata la aliquota del 12,5 per cento.
Il giudice di appello, pertanto, riconosceva in favore del contribuente il diritto al rimborso della somma di Euro 5.026.00, respingendo per il resto l'appello.
B.F. propone ricorso per cassazione, sulla base di sei motivi, cui resiste l'Agenzia delle Entrate mediante controricorso.
Il contribuente e l'Agenzia delle Entrate hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione della L. n. 482 del 1985, art. 6, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, comma 4, (nel testo applicabile ratione temporis), D.L. 31 dicembre 1986, n. 669, art. 1, comma 5, convertito nella L. 28 febbraio 1997, n. 30, D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 16 e 17, il ricorrente assume che le Sezioni Unite con le sentenze nn. 13642 e 13643 del 2011, quando hanno fatto riferimento al "rendimento netto" imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato, hanno inteso riferirsi al mero "rendimento di polizza", rapportato alla natura previdenziale assicurativa propria della P.I.A.;ha inoltre sottolineato che i "rendimenti" prodotti dalla gestione dei "vecchi fondi" avevano la caratteristica di rendimenti di origine assicurativa, anche se non prodotti da imprese assicuratrici, "a condizione che ricorresse quel minimo comune denominatore da tempo individuato nell'adozione da parte degli stessi Fondi delle "riserve matematiche" e dei sistemi tecnico-finanziari della capitalizzazione tipici delle imprese assicurative".
Secondo la prospettazione del ricorrente, pertanto, la sentenza impugnata, ritenendo che il rendimento percepito dal contribuente non fosse riconducibile al cd. "rendimento" individuato dalla L. n. 482 del 1985, art. 6 avrebbe violato quest'ultima disposizione di legge e non avrebbe correttamente applicato il principio di diritto enunciato da questa Corte.
2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., artt. 115 e 167 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 e sostiene che la certificazione E. a firma del dott. B.P., prodotta nel corso del giudizio di primo grado, attesta l'ammontare del rendimento maturato dal 1 gennaio 1986 al 1 maggio 1998 e costituisce dunque idonea certificazione ai fini della individuazione dei rendimenti netti inglobati nella liquidazione capitalizzata della prestazione previdenziale a favore del contribuente.