Cass. civ., SS.UU., sentenza 13/09/2005, n. 18128

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In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall'art.1384 cod. civ. a tutela dell'interesse generale dell'ordinamento, può essere esercitato d'ufficio per ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l'obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacchè in quest'ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 13/09/2005, n. 18128
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 18128
Data del deposito : 13 settembre 2005
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. C V - Presidente Aggiunto -
Dott. P G - Presidente di Sezione -
Dott. S S - Presidente di Sezione -
Dott. P G - Consigliere -
Dott. E A - Consigliere -
Dott. L M G - Consigliere -
Dott. L P M - rel. Consigliere -
Dott. E S - Consigliere -
Dott. S G - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S G elettivamente domiciliato in ROMA, VIA,

FLAMINIA

109, presso lo studio dell'avvocato B B che lo rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;



- ricorrente -


contro


CONDOMINIO DI VIA ISCHIA DI CASTRO

25

FABB

3 - ROMA;



- intimato -


avverso la sentenza n. 19880/99 del Tribunale di ROMA, depositata il 21/10/99;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23/06/05 dal Consigliere Dott. M L P;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. P R che ha concluso per l'accoglimento del primo motivo del ricorso, accoglimento per quanto di ragione dei successivi. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il condominio di Via Ischia di Castro, in Roma, convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace, il condomino G S e ne chiese la condanna al pagamento della somma di lire 3.562.355, a titolo di sanzione pecuniaria, dovuta, in base agli artt. 18 e 23 del regolamento condominiale, per il mancato pagamento di lire 1.045.281, dovute per spese di condominio.
Il Sidoti chiese il rigetto della domanda, sostenendo che le clausole del regolamento comportavano l'obbligo di corrispondere un interesse usurario per il ritardato pagamento dei ratei relativi alle spese condominiali e, in via riconvenzionale, chiese che dette clausole fossero dichiarate nulle.
Il Giudice di pace accolse la domanda, osservando che le norme del regolamento erano legittime ed erano state liberamente accettate dal Sidoti.
Questi propose appello insistendo perché fossero dichiarate nulle le norme del regolamento ai sensi dell'art. 1815, secondo comma, cod. civ., applicabile in tutte "le convenzioni di interessi" e "quindi
anche in quelle contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale". Chiese anche che le suddette clausole fossero dichiarate nulle, perché prevedevano che la sanzione fosse applicata per il mancato pagamento dei ratei entro venti giorni dall'approvazione del bilancio preventivo senza una formale messa in mora.
Il condominio non si costituì in giudizio.
Il Tribunale di Roma respinse l'appello, osservando:
che alla fattispecie in esame non era applicabile il disposto del secondo comma dell'art. 1815 cod. civ. perché le somme dovute dal condomino, per il caso di ritardo nell'adempimento dell'obbligo di corrispondere i ratei condominiali, non erano interessi pattuiti per la ritardata restituzione di un prestito di denaro, ma erano oggetto di una penale, contenuta nel regolamento di natura contrattuale debitamente trascritto, con la quale era pattiziamente determinato il risarcimento dovuto in caso di inadempimento o ritardo nell'adempimento;

che la penale sarebbe potuta essere diminuita dal giudice ove il condomino ne avesse fatto richiesta, non potendo il giudice provvedere d'ufficio;

che non era necessaria, al fine della decorrenza dell'obbligo del pagamento della somme dovute a titolo di penale, la messa in mora del condomino, poiché era lo stesso regolamento di condominio a prevedere la mora ex re e che tale previsione era conforme al disposto dell'art. 1219, secondo comma, cod. civ.. G S ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta sentenza.
Il condominio intimato non ha svolto attività difensiva. La causa è stata assegnata alla seconda sezione civile di questa Corte, che, con ordinanza del 30 marzo 2004, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alla Sezioni Unite, avendo ravvisato l'esistenza di un contrasto, all'interno delle sezioni semplici, in ordine al potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale ai sensi dell'art. 1384 cod. civ. (questione dedotta con il primo motivo del ricorso).
Il Primo Presidente ha assegnato la causa alle sezioni unite per la risoluzione del contrasto.
MOTIVI DELLA DECISIONE


1. All'esame dei motivi occorre premettere che il Tribunale ha qualificato come clausola penale la sanzione prevista, negli artt. 18 e 23 nel regolamento di natura contrattuale, a carico dei condomini inadempienti nel pagamento dei contributi dovuti.
Tale qualificazione non è posta in discussione dalle parti ed anzi il ricorrente su detta qualificazione poggia il motivo di ricorso, con il quale denuncia come erronea la decisione del giudice di merito nella parte in cui ha negato che il giudice possa ridurre d'ufficio la penale.
Pertanto, il ricorso deve essere esaminato da questa Corte sulla base di tale avvenuta qualificazione.
2. È preliminare l'esame del secondo motivo, perché con esso si deduce la nullità della clausola penale, cosicché se la censura fosse fondata cadrebbe la necessità di esaminare il primo motivo, con il quale la sentenza impugnata è censurata, invece, per avere negato il potere del giudice di ridurre la penale in assenza di una richiesta di parte.


3. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione ed erronea applicazione dell'art 1815, secondo comma, cod. civ. e difetto di motivazione in relazione all'art 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. Si deduce che - non contestata l'usurarietà del tasso di interesse previsto nella penale - "la cd. funzione calmieratrice prevista dall'art. 1815 cod. civ., come modificato dalla legge 7 marzo 1996 n. 108, trova applicazione sempre, allorquando ricorra nel contratto un
vantaggio usurario, quale che sia il rapporto obbligatorio sottostante, creandosi in caso contrario una indebita sperequazione nel trattamento delle clausole penali e delle clausole fissanti tassi di interessi moratori, che altro non sono che una sanzione per il mancato pagamento nei tempi stabiliti della obbligazione pecuniaria".

4. La censura è infondata.
Il ricorrente, sostanzialmente, invoca l'applicazione dei criteri fissati dalla legge 7 marzo 1996 n. 108 per attribuire carattere usurario alla somma dovuta in forza della penale pattuita. Senonché - a prescindere da ogni altro rilievo in ordine alla esattezza o meno della tesi prospettata - il ricorrente non considera che i criteri fissati dalla legge n. 108 del 1996, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori all'entrata in vigore della stessa legge, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, primo comma, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394 (convertito, con modificazioni, nella l. 28 febbraio 2001 n. 24), norma riconosciuta non in contrasto con la Costituzione con sentenza n. 29 del 2002 Corte cost (principio ripetutamente affermato da questa Corte: v., tra le più recenti, Cass. 25 marzo 2003 n. 4380;
Cass. 13 dicembre 2002 n. 17813;
Cass. 24 settembre 2002 n. 13868). Ora poiché, come è pacifico, la convenzione alla quale il ricorrente attribuisce natura usuraria, è anteriore alla entrata in vigore della legge 7 marzo 1996 n. 108, già per questa sola ragione la sua disciplina non le si può applicare e pertanto appare superfluo l'esame del problema relativo alla trasponibilità della disciplina dell'art. 1815 cod. civ. ad una clausola, come quella oggetto della presente controversia, che trae origine da un rapporto in cui non è identificabile una causa di finanziamento.

5. Con il primo motivo del ricorso si denuncia;
Violazione ed erronea applicazione degli artt. 1382 e 1384, cod. civ. - Difetto di motivazione. Il tutto in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. Si deduce l'erroneità dell'assunto del Tribunale in ordine alla ritenuta non riducibilità d'ufficio della penale e si richiama a sostegno della censura la sentenza n. 10511/99 di questa Corte.

6. La censura pone il problema se il potere di ridurre la penale, conferito al giudice dall'art. 1384 cod. civ., possa essere esercitato d'ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della parte tenuta al pagamento.


6.1. Il dato normativo, come detto, è costituito dall'art. 1384 cod. civ. secondo cui "La penale può essere diminuita equamente dal
giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento".


6.2. Fin dall'entrata in vigore del codice civile del 1942, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio, pur manifestando nell'ambito di questo orientamento, notevoli oscillazioni in ordine al modo ed ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto esercitare il loro riconosciuto dovere di sollecitare la pronuncia del giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazione poi superata dalla successiva prevalente giurisprudenza, a ritenere che la richiesta di riduzione della penale dovesse ritenersi implicita nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo.
Tale orientamento è stato, tuttavia, posto in discussione dalla sentenza n. 10511/99 di questa Corte, la quale ha, invece, ritenuto che la penale possa essere ridotta dal giudice anche d'ufficio. Questo nuovo orientamento non ha però trovato seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/03 che ad esso si è adeguata) ha ribadito l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03, n. 8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00.

6.3. Queste sezioni unite, chiamate a risolvere il richiamato contrasto, ritengono di dover confermare il principio affermato dalla sentenza n. 10511/99, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/03.

6.4 Non vi è dubbio che la svolta operata dalla sentenza n. 10511/99 è stata influenzata da due concorrenti elementi.
Il primo relativo al riscontro nella giurisprudenza, che fino ad allora aveva negato il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto che, in alcune delle pronunzie, l'ossequio al principio tradizionale appariva solo formale, poiché si giungeva talvolta a ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte di nulla dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa proponibile in appello. Il secondo fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti co- distici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 cod. civ.).

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