Cass. civ., SS.UU., sentenza 11/03/2013, n. 5942

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E manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost. - della normativa di cui al d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, in combinato disposto con l'art. 379 cod. proc. civ., nella parte in cui (prevedendo per la fase di impugnazione del giudizio disciplinare l'applicazione delle norme del codice di procedura civile e, tra esse, quella secondo cui il P.G. presso la Corte di Cassazione prende la parola per ultimo nell'udienza pubblica di discussione) - non assicurerebbe parità di trattamento tra l'incolpato ed il P.G., non consentendo al primo ed al suo difensore di conoscere le posizioni assunte dal titolare dell'azione disciplinare. Invero, il potere del P.G. di esporre oralmente le sue conclusioni motivate, dopo che l'avvocato dell'incolpato ha svolto le proprie difese, non preclude, nel quadro della generale disciplina del ricorso per cassazione, il pieno dispiegarsi del diritto di difesa nel contraddittorio di tutte le parti, tenuto conto, per un verso, che in quella sede le funzioni di imparziale tutore della legge esplicate dal P.G. risultano preminenti rispetto a quelle, già svolte in sede di merito, di promotore del procedimento disciplinare, nonché, per altro verso, del fatto che la scelta in favore del modulo procedimentale penale, in quanto più adeguato allo svolgimento del giudizio disciplinare, si giustifica in relazione alla sola fase di merito e non di legittimità, nella quale il giudizio si svolge essenzialmente sugli atti già acquisiti e le posizioni delle parti - l'incolpato ed il Ministero della giustizia - sono affidate ai rispettivi difensori, spettando, oltretutto, a quello dell'incolpato di interloquire comunque per ultimo, in virtù, ai sensi del quarto comma dell'art. 379 cod. proc. civ., della facoltà di replicare "con brevi osservazioni scritte".

In tema di misure cautelari adottate nell'ambito del procedimento disciplinare a carico di magistrati, in assenza di disposizioni specifiche, il generale richiamo alle norme del codice di procedura penale - con il solo limite della compatibilità - operato dall'art. 18, quarto comma, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 deve essere inteso nel senso che alla decisione cautelare resa dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura non si applica il principio dell'immediatezza, sancito dall'art. 525 cod. proc. pen., atteso che lo svolgimento con rito camerale, ai sensi dell'art. 13 del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006, di tale fase eventuale ed incidentale del procedimento comporta che alla stessa debba applicarsi l'art. 127 cod. proc. pen., a norma del quale "il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo", non prevedendo pertanto come necessaria la lettura in udienza del provvedimento adottato o del relativo dispositivo.

L'art. 2, comma primo, lettera c), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, consistente nella "consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge" non richiede - sotto il profilo soggettivo - uno specifico intento trasgressivo, tantomeno finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti, essendo sufficiente la consapevolezza nell'agente di quelle situazioni di fatto, in presenza delle quali l'ordinamento esige, al fine della tutela dell'immagine del singolo magistrato e dell'ordine di appartenenza nel suo complesso, che lo stesso non compia un determinato atto, versando in una situazione tale da ingenerare, se non il rischio, quantomeno il sospetto di parzialità di chi lo compie. Ne consegue che ad integrare l'elemento psicologico dell'illecito non è necessaria la "coscienza dell'antigiuridicità" del comportamento integrante la violazione del precetto, ma è sufficiente la conoscenza di quelle circostanze di fatto in presenza delle quali, in considerazione della ricorrenza dell'interesse proprio o di un proprio congiunto, sussista l'obbligo di astensione, nonché l'adozione, cosciente e volontaria, dell'atto medesimo, pur versandosi in quella situazione.

In materia di illecito disciplinare non rileva, ai fini dell'applicazione - ex art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 - della misura cautelare del trasferimento d'ufficio di un magistrato, la duplice circostanza, da un lato, che l'incolpato fosse a conoscenza o condividesse il consolidato orientamento della giurisprudenziale secondo cui, ai fini disciplinari, l'obbligo generale di astensione si configura prescindendo dall'applicazione dell'art. 52 cod. proc. pen., basandosi invece sulla disciplina sostanziale di cui all'art. 323 cod. pen., nonché, dall'altro, che taluno degli atti in relazione al quale è stato ravvisato il dovere di astenersi si presentasse di mera natura organizzativa e non strettamente giurisdizionale. In particolare, in relazione a tale secondo profilo, le esigenze di distacco, correttezza e imparzialità che devono assistere, soprattutto in termini di immagine, l'esercizio di tutte le funzioni giudiziarie "lato sensu" intese, comportano che il magistrato debba restare estraneo al compimento di atti destinati ad incidere, direttamente o indirettamente, sull'andamento e la conduzione del procedimento. (Nella specie, si è ritenuto l'obbligo di astensione violato per avere il capo di un ufficio di Procura della Repubblica apposto il visto sull'atto determinativo di una misura cautelare, a carico di taluni indagati per reati commessi in danno della società in cui il congiunto del magistrato rivestiva un'importante carica dirigenziale, e per avere affiancato, nella conduzione di indagini nelle quali il predetto congiunto rivestiva le qualità di indagato e di persona offesa, ai sostituti già titolari altri magistrati dell'ufficio ed, infine, per avere apposto un "visto di congruità" sulla liquidazione, sempre in favore del medesimo congiunto, di un compenso peritale di rilevante importo).

L'art. 13, comma secondo, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, nel prevedere la possibilità del trasferimento d'ufficio di un magistrato ad altra sede o la destinazione dello stesso ad altre funzioni, non contempla l'irrogazione di una sanzione, a titolo definitivo, bensì l'applicazione di una misura cautelare, per sua natura provvisoria e destinata ad operare fino alla definizione del giudizio di merito, sicché tale norma non pone alcuna necessaria correlazione tra la misura "de qua" e la sanzione disciplinare di cui l'incolpato risulti astrattamente passibile (salva la condizione che quella irrogabile nel caso di specie risulti diversa sia dall'ammonimento che dalla rimozione), non configurando, pertanto, la prima una sorta di espiazione anticipata della seconda, con conseguente necessità di una loro corrispondenza. Ne deriva che non integra alcun "demansionamento" del magistrato incolpato la decisione adottata - in sede cautelare - dal giudice disciplinare, allorché esso, pur optando per la misura del trasferimento ad altra sede con conservazione delle precedenti funzioni, abbia privato temporaneamente l'incolpato, presso il nuovo ufficio, dell'esercizio delle funzioni direttive o semidirettive precedentemente espletate.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 11/03/2013, n. 5942
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 5942
Data del deposito : 11 marzo 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PREDEN Roberto - Primo Presidente f.f. -
Dott. TRIOLA Roberto Michele - Presidente di sez. -
Dott. RORDORF Renato - Presidente di sez. -
Dott. PICCIALLI Luigi - rel. Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere -
Dott. DI PALMA Salvatore - Consigliere -
Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere -
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 21707-2012 proposto da:
R.U. , elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 24, presso lo studio 74 dell'avvocato GIACOBBE GIOVANNI, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

- intimati -

sul ricorso 21708-2012 proposto da:
M.M. , elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE dei MELLINI 24, presso lo studio dell'avvocato GIACOBBE GIOVANNI, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

- intimati -

avverso l'ordinanza n. 114/2012 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 19/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/02/2013 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l'Avvocato Giovanni GIACOBBE;

udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso in via principale per il rigetto del ricorso, in subordine per l'accoglimento, p.q.r., del terzo motivo, con rigetto degli altri motivi per quanto riguarda il ricorso r.g. n. 21707/2012;

estinzione per rinuncia per quanto riguarda il ricorso r.g. n. 21708/2012.
FATTO E PROCESSO
Il Ministero della Giustizia, all'esito di un'inchiesta amministrativa espletata dal proprio Ispettorato Generale, disposta a seguito di notizie di stampa e di un'interrogazione parlamentare, esponenti sospetti di collusioni e favoritismi, a sfondo prevalentemente economico, tra magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa ed un noto penalista locale, l'avv. Pietro Amara, con due distinte comunicazioni del 27.12.2012 chiese alla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura l'applicazione della misura cautelare del trasferimento di ufficio a carico dei dottori U..R. e M..M. , rispettivi titolare e sostituto procuratore di quell'ufficio. Nella prima relazione ispettiva del 4.6.2012 erano stati configurati una serie di illeciti disciplinari a carico del secondo dei suddetti magistrati e prospettate circostanze di fatto, rilevanti della Legge sulle guarentigie, art. 2 nei confronti del primo, oltre ad altri illeciti ascrivibili ad un terzo, non coinvolto nel procedimento cautelare.
In una seconda, redatta il successivo 19 giugno dal Capo dell'Ispettorato Generale, erano stati delineati anche a carico del dott. R. specifici elementi di illeciti disciplinari, in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. c) per avere consapevolmente e reiteratamente mancato ai doveri di correttezza ed imparziale distacco, omettendo di astenersi in procedimenti penali nei quali erano coinvolti interessi patrimoniali diretti di propri familiari ovvero nei quali sussistevano legami di lavoro o economici tra i medesimi e taluna delle parti. Alle suddette relazioni aveva fatto seguito una terza, del Direttore Generale Reggente del Dipartimento dell'Organizzazione Giudiziaria del Ministero della Giustizia, prospettante l'opportunità di chiedere il trasferimento di ufficio, in cospetto di una serie di illeciti disciplinari ascrivibili all'uno ed all'altro inquisito. All'esito del conseguente procedimento camerale, con ordinanza del 19 settembre 2012 depositata in pari data, la Sezione Disciplinare del C.S.M. disponeva il trasferimento di ufficio di entrambi i magistrati suddetti, destinando, ciascuno con le funzioni di sostituto procuratore, il dott. R. alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Enna ed il dott. M. a quella di Palermo.
Nel provvedimento si dava atto, con una preliminare considerazione, che dall'esame della documentazione acquisita ed anche alla luce delle difese scritte ed orali degli "imputati", protestanti l'esistenza di un vero e proprio complotto finalizzato a delegittimarne l'opera di moralizzazione intrapresa nell'ambiente locale, era emersa la prevalente infondatezza delle più pesanti accuse, concernenti fatti che, se provati, avrebbero costituito non semplici illeciti disciplinari, ma gravi reati, desumendosi pertanto "l'impressione" che, traendo spunto da pur sussistenti "irregolarità", si fosse colta l'occasione di delegittimare alcuni magistrati dell'ufficio di Procura "attraverso la commistione di fatti veri e circostanze false".
Nondimeno, la pur accertata sussistenza di gravi elementi di fondatezza di illeciti disciplinari a carico di entrambi i magistrati in questione, tutti connessi al mancato esercizio del dovere di astensione, nel quadro di strette relazioni amicali ed economiche tra i medesimi o loro familiari e l'avv. Pietro Amara ed alcuni familiari di quest'ultimo, rendeva incompatibile la permanenza di entrambi presso l'ufficio siracusano.
Nel prosieguo della motivazione venivano esaminati, passando in rassegna i singoli episodi, ritenuti disciplinarmente rilevanti, con analitico riferimento alle posizioni dell'uno e dell'altro interessato, i rispettivi quadri indiziari, ravvisandosi, sulla base di dettagliate ricostruzioni delle rispettive vicende, la gravità e convergenza.
Veniva, altresì, evidenziata, in punto di diritto e con richiamo alla corrente giurisprudenza (sia del giudice disciplinare, sia di queste S.S.U.U.), l'ampia portataci fini disciplinari, dell'obbligo di astensione del P.M., in base "al collegato disposto" di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, art. 52 c.p.p. e art. 323 c.p.. In punto di sussistenza degli altri presupposti richiesti dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13, venivano infine ravvisate sia la
possibilità, in considerazione del trattamento sanzionatorio degli illeciti disciplinari ritenuti configurabili (punibili con sanzione non inferiore alla censura) irrogazione di una sanzione diversa da quella minima dell'amonimento, sia i particolari motivi di urgenza dei motivi ostativi alla permanenza in sede dei due magistrati, tenuto conto delle preminenti esigenze di buon andamento dell'amministrazione della giustizia, compromesse dalla risonanza non solo locale, ma anche nazionale, della vicenda, e di consentire ai suddetti di esercitare le funzioni giudiziarie con la necessaria serenità e nelle condizioni indispensabili di prestigio e distacco, ormai non più sussistenti nella sede siracusana, dove si erano verificate le condotte sanzionabili e gli episodi divenuti di pubblico dominio.
Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, avvalendosi del medesimo difensore di fiducia, il dott. R. ed il dott. M. , articolando rispettivamente quattro e sei motivi.
Non ha svolto attività difensive il Ministero della Giustizia. Dopo il deposito delle memorie illustrative per l'uno e per l'altro magistrato ricorrente, è pervenuta a questa Corte una dichiarazione di rinuncia al ricorso in data 7.12.2013 del dottor M. , controfirmata per autentica dal suo difensore prof. avv. Giovanni Giacobbe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
p.

1. Va preliminarmente disposta ai sensi dell'art. 335 c.p.c. la riunione dei due ricorsi, in quanto proposti contro la medesima sentenza.
p.

2. La regolare rinuncia al ricorso, comportaci sensi degli artt.306, 390 e 391 c.p.c., la dichiarazione di estinzione del giudizio,
quanto alla posizione del dott. M. , senza regolamento delle spese, in assenza di controparti costituite.
p.

3. Passando all'esame del ricorso proposto dal dottor R. , va anzitutto dichiarata la manifesta infondatezza dell'eccezione, sollevata dal difensore nella memoria illustrativa e ribadita nel corso della discussione orale, di illegittimità, per contrasto con l'art. 24 Cost. e l'art. 111 Cost., comma 2, che inficierebbe la normativa di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, in combinato disposto con l'art. 379 c.p.c., nella parte in cui, prevedendosi per la fase dell'impugnazione della sentenza disciplinare davanti a queste S.S.U.U. l'applicazione della disciplina del codice di procedura civile, non sarebbe assicurata parità di trattamento tra l'incolpato
ed il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, tenuto conto dell'ordine degli interventi nel corso della discussione in pubblica udienza, che non consentirebbe al magistrato accusato ed al suo difensore di conoscere le posizioni assunte dal requirente, titolare dell'azione dell'azione disciplinare. Tale disciplina risulterebbe poco coerente sia alla disposizione dell'art. 18, comma 4 cit. D.Lgs., prevedente l'applicazione, nella precedente fase davanti alla Sezione Disciplinare del C.S.M., delle norme del codice di procedura penale, sia alla "evoluzione della giurisprudenza", che
avrebbe ritenuto essersi determinato, "a seguito della recente riforma del procedimento disciplinare, un più accentuato parallelismo tra questo procedimento ed il procedimento penale", analogia che avrebbe reso necessario consentire anche all'"incolpato", non diversamente dall'imputato di far sentire la sua parola per ultimo, sia pure tramite il proprio difensore. L'eccezione è palesemente generica, nella parte in cui lamenta l'incoerenza, nel sistema introdotto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, dell'avvicendamento nei due gradi del giudizio delle discipline processuali, penale prima, civile poi, censurando una insindacabile scelta del legislatore, che non si vede in qual modo possa confliggere con i richiamati principi costituzionali garantistici, che anche nel processo civile trovano adeguate garanzie nel rispetto delle regole del contraddittorio e della difesa, in regime di assoluta parità

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