Cass. civ., sez. I, sentenza 26/03/2004, n. 6080

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Massime1

Ai fini della decettività del marchio (art. 18, comma 1, lett. e, del regio decreto 21 giugno 1942, n. 929, nel testo sostituito dall'art. 18 del d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480), è necessario accertare se il marchio sia di natura tale da trarre in inganno, inducendoli in errore, i consumatori interessati, dovendo, a questo riguardo, fare riferimento, non già ad una ristretta cerchia elitaria ne' ad un modello di consumatore del tutto sprovveduto e marginale, bensì alle capacità critiche del consumatore medio (secondo una tipologia culturale astratta e non statistica), che si identifica nel destinatario mediamente intelligente, accorto ed informato sui prodotti del settore merceologico di appartenenza. (Sulla base del principio di cui in massima, in una controversia concernente il marchio "Parmacotto", la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di merito, la quale, nell'escludere il carattere ingannevole del marchio, respinta la richiesta di affidare ad una c.t.u. l'espletamento di un'indagine demoscopica tesa ad accertare e ricostruire l'atteggiamento della maggioranza dei consumatori, aveva individuato il consumatore medio nel destinatario in grado di conoscere le qualità distintive essenziali del prosciutto crudo, quindi anche di quello di Parma, e di sapere che prosciutto crudo e prosciutto cotto sono due prodotti con caratteristiche organolettiche e merceologiche diverse, senza lasciarsi ingannare dall'uso del toponimo per individuare la qualità del prodotto).

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 26/03/2004, n. 6080
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 6080
Data del deposito : 26 marzo 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. V U - Presidente -
Dott. B G M - Consigliere -
Dott. P C - Consigliere -
Dott. D P S - Consigliere -
Dott. G P - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
ROVAGNATI S.p.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via della Vite n.7, presso lo studio dell'Avv. Piero d'Amelio che la rappresenta e difende, unitamente all'Avv. Prof. G F ed all'Avv. O P C, in forza di procura speciale a margine del ricorso;



- ricorrente -


contro
PRMACOTTO s.p.a., elettivamente domiciliata in Roma, Lungotevere Michelangelo n. 9, presso lo studio dell'Avv. L B che la rappresenta e difende, anche disgiuntamente dall'Avv. Prof. A V e dall'Avv. M F, in forza di procura speciale a margine del controricorso;



- controricorrente -


e contro
PROCURATORE GENERALE della REPUBBLICA presso la CORTE di APPELLO di BOLOGNA

- intimato -


avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna n. 1175/2000 pubblicata il 26.10.2000;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30.9.2003 dal Consigliere Dott. P G;

Uditi i difensori delle parti;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Apice Umberto, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 14.4.1993, la S.p.A. Rovagnati conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Parma la Parmacotto s.p.a., premettendo:
a) di essere divenuta una primaria impresa produttrice di prosciutti cotti, guadagnandosi la posizione di leader del settore;

b) che, recentemente, tale sua posizione era stata turbata da illeciti comportamenti concorrenziali posti in essere dalla convenuta, segnatamente consistiti nell'avere utilizzato il marchio decettivo "Parmacotto", nullo in quanto contrario alla disciplina del ed. marchio geografico e, al tempo stesso, tale da integrare atto di concorrenza sleale in ragione dell'effetto di "trascinamento" illegittimamente indotto, sotto diversi profili, dalla rinomanza e dalla fama di qualità del prosciutto crudo di Parma.
Tanto premesso, l'attrice chiedeva, in via principale, che venisse dichiarata la nullità di detto marchio e di tutti quelli consimili, registrati dalla convenuta, nei quali risultasse associata la parola "cotto" al toponimo "Parma" ed, in via subordinata, che ne fosse dichiarata la decadenza per uso idoneo ad ingannare il pubblico dei consumatori, in ogni caso inibendosene l'uso anche come denominazione sociale nonché dichiarandosene l'illiceità ai sensi dell'art. 11 della legge sui marchi e quale attività di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 2, c.c., con condanna al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede.
Costituendosi in giudizio, la convenuta eccepiva l'improponibilità della domanda siccome oggetto di transazione stipulata in occasione di controversia di identico contenuto davanti al Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria, chiedendo quindi nel merito che venisse respinta ogni avversa pretesa, di cui si contestava la fondatezza in fatto ed in diritto, nonché spiegando domanda riconvenzionale tesa ad ottenere la condanna dell'attrice al risarcimento dei danni per l'attività di concorrenza sleale svolta in pregiudizio di essa deducente.
Il giudice adito, con sentenza del 15.1.1999, rigettava le domande hic et inde proposte ed in particolare:
a) riteneva l'infondatezza dell'eccezione di rito sollevata dalla convenuta;

b) disattendeva tutti i profili per i quali l'attrice medesima aveva sostenuto, anche sulla scorta di indagine demoscopica eseguita dietro suo incarico dalla Doxa, la decettività dei marchi avversari;

c) disattendeva la domanda di decadenza del marchio in oggetto ex art. 41, n. 1, lettera b), della legge sui marchi, in quanto del tutto sfornita di prova circa il compimento di atti di uso ingannevole ed essendo anzi rimasta dimostrata la corretta informazione offerta dalla convenuta sulle metodiche di lavorazione dei propri prodotti;

d) disattendeva la domanda di nullità ex art. 18, lettera c), della legge sui marchi, escludendone sia la natura di marchio esclusivamente geografico, per il fatto di essere questo composto di altra parola con funzione descrittiva, sia l'assoggettamento alla disciplina dell'art. 13 del regolamento CEE n.2081/1992, per il fatto di non rientrare il prosciutto cotto tra le denominazioni registrate destinatane della specifica tutela;

e) riteneva, ad abundantiam, che fossero maturati i presupposti di notorietà del marchio idonei ad escludere, ex art. 47-bis della legge sui marchi, la dichiarazione di nullità o di decadenza ai sensi degli artt. 47 e 18 della medesima legge;

f) escludeva la nullità del marchio per violazione della speciale disciplina di tutela della denominazione di origine del prosciutto di Parma.
Avverso la decisione, proponeva appello la società Rovagnati, deducendo molteplici censure.
Resisteva nel grado l'appellata, la quale contrastava gli argomenti svolti nei diversi motivi di gravame (soprattutto evidenziando come tutta l'indagine demoscopica fosse largamente inattendibile) e, a propria volta, spiegava appello incidentale vuoi in ordine alla questione della pretesa improponibilità della domanda per intervenuta rinuncia all'azione a seguito della transazione conclusa tra le parti in sede di controversia davanti al Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria, vuoi in ordine al rigetto della domanda riconvenzionale di accertamento di attività concorrenziale denigratoria, vuoi in ordine ad una diversa ripartizione delle spese relative al primo grado di giudizio.
La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 30.6/26.10.2000, respingeva il gravame principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale, condannava la Rovagnati a rifondere alla Parmacotto la metà delle spese sopra indicate, confermando nel resto la pronuncia impugnata.
Assumeva, in particolare, detto giudice:
a) che fossero da disattendere le censure dedotte dall'appellante principale in relazione al metodo di valutazione della decettività del marchio "Parmacotto", respingendo così l'istanza, ad esse logicamente connessa, di consulenza tecnica demoscopica;

b) che siffatto metodo dovesse fondarsi sulle capacità critiche del consumatore medio (identificato in una categoria astratta di soggetti normalmente informati e mediamente attenti), non già sull'aggregazione statistica degli esiti di indagini demoscopiche volte ad accertare in concreto le opinioni di un campione di potenziali acquirenti del prodotto contraddistinto dal marchio de quo;

c) che fosse pertanto compito del giudice discernere le possibilità di inganno di un determinato segno distintivo, non potendo affidarsi il giudizio di validità di un marchio alle risposte, fornite da un campione di consumatori, sulla percezione di quel segno;

d) che, comunque, sulla base dei risultati dell'indagine demoscopica realizzata per conto della Rovagnati e da questa prodotti in giudizio, non emergesse, anche per le censurabili modalità seguite nello svolgimento dell'indagine stessa, alcuna dimostrazione del carattere decettivo del marchio "Parmacotto";

e) che, del resto, il toponimo "Parma", se inserito in segni distintivi di imprese alimentari aventi sede in quella città, non potesse indurre il pubblico a ritenere i prodotti contraddistinti da quei segni migliori di quelli realizzati altrove o fosse comunque ingannevole, non avendo altra funzione se non quella di indicare l'effettiva provenienza di quei prodotti da un distretto internazionalmente rinomato per le sue tradizioni di qualità in campo alimentare;

f) che non potesse, ancora, dubitarsi della validità di un segno costituito dall'originale combinazione di due espressioni e del quale il toponimo costituiva solo un prefisso;

g) che non potesse, comunque, negarsi l'applicabilità al marchio dell'appellata della disposizione di cui all'art. 47-bis della legge sui marchi, essendo stati ampiamente dimostrati, e risultando in ogni caso notori, l'estesa diffusione dei prodotti contraddistinti da quel marchio e l'intensa pubblicità della quale erano stati fatti oggetto;

h) che il marchio "Parmacotto" non fosse decaduto per uso ingannevole, dal momento che il riferimento a Parma, in quel segno, era pienamente giustificato dal fatto che in quella città e nel suo circondario si trovano la sede e gli stabilimenti produttivi della società titolare;

i) che fosse da escludere qualsiasi violazione, da parte dell'appellata, della legge n. 26 del 1990 sulla tutela della denominazione d'origine del prosciutto crudo di Parma, trattandosi di disposizioni chiaramente inapplicabili ai prosciutti cotti. Avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione la Rovagnati S.p.A., deducendo un solo, complesso motivo di gravame, illustrato da memoria, cui resiste la Parmacotto s.p.a. con controricorso del pari illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente violazione e/o falsa applicazione degli articoli 11, 18, comma primo, lettera e) e 47, comma primo, lettera b), della legge sui marchi, 2598, n. 3, c.c., 61 e 191 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, assumendo:
a) che la Corte territoriale ha ritenuto che la valutazione di decettività di un marchio registrato non vada condotta con riguardo alla capacità di decodifica del pubblico effettivo dei consumatori, bensì con riguardo al parametro di un'astratta elite la quale abbia "il grado di intelligenza, prudenza e informazione" che a priori ed in astratto, nella valutazione del giudice, "si deve pretendere da un consumatore", così da ritenere preclusa al giudice stesso la possibilità di servirsi, ai fini della valutazione, di un accertamento tecnico (sub specie di indagine demoscopia);

b) che detta Corte ha statuito, con riguardo al pubblico di riferimento al quale riferire l'effetto decettivo, che la valutazione vada effettuata assumendo come parametro il c.d. "consumatore medio", da intendere tuttavia nel senso di "una tipologia culturale astratta e non già statistica di consumatore (che) può identificarsi per assurdo (e probabilmente si sostanzia) in una modesta minoranza dei consumatori di un determinato settore merceologico", così contrapponendo questo consumatore medio, assurto a parametro della valutazione del giudice, alle "quantità medie o maggioranza di consumatori" che risultano dalle "aggregazioni matematiche effettuate sulla base delle indagini demoscopiche" cui la Corte medesima ha negato ogni utilità nell'accertamento giudiziale;

c) che, ancora ad avviso di detto giudice, "l'individuazione del concetto di consumatore medio non può essere col legata all'individuazione della media dei consumatori che assumono un determinato atteggiamento nei confronti di un certo prodotto, ma è il frutto di un'operazione squisitamente giudiziale che individua a priori il grado di intelligenza, prudenza ed informazione che si deve attribuire ad un consumatore (e pretendere da un consumatore) per valutare la decettività del marchio", onde "la delega all'equipe demoscopica di un'indagine comunque diretta a tale finalità (l'unica rilevante ai fini del giudizio) violerebbe quelli che essenzialmente sono i limiti dello strumento processuale, cioè la valutazione, sotto il profilo tecnico, di fatti già acquisiti, con esclusione di qualsivoglia giudizio rimesso alla competenza giuridica o valutativa del giudice";

d) che la sentenza impugnata è innanzi tutto in violazione delle norme relative all'illiceità e alla nullità del marchio ingannevole, nonché in palese contrasto con la funzione stessa dell'istituto, risultando in particolare arbitraria la scelta di adottare quale parametro per la valutazione non già il vero consumatore medio bensì "una tipologia culturale astratta che probabilmente si sostanzia in una modesta minoranza dei consumatori di un determinato settore merceologico", là dove è palese che la sostituzione, da parte del giudice, di un prototipo astratto di consumatore all'effettivo consumatore medio nasconde un arbitrio evidente, ovvero quello di ricondurre il giudizio di decettività non alle capacità di decodifica (del messaggio veicolato dal marchio) del pubblico dei consumatori, bensì al soggettivo giudizio del medesimo giudice, il quale, in base ad un proprio personale apprezzamento, seleziona tra tutti i modelli di decodifica presenti nel pubblico quello che reputa "avveduto" e innalza esso (ma soltanto esso) a parametro oggettivo, contrabbandandolo come giudizio del consumatore "medio" anche quando tale giudizio non rappresenti che il comportamento "di una modesta minoranza dei consumatori";

e) che, allo stesso modo, la decisione della Corte territoriale è viziata in quanto essa, immotivatamente ed in violazione delle norme in materia di segni distintivi, mostra di non tenere in alcun conto la circostanza che il marchio di cui si discute costituisce il segno distintivo di un prodotto di largo consumo commercializzato dai rivenditori al dettaglio e dai supermercati, onde è appunto immotivata l'individuazione del consumatore medio del prodotto in una ristretta ed elitaria cerchia di consumatori, specialmente quando il prodotto viene commercializzato anche tramite i supermercati, rivolgendosi ad un consumatore medio non particolarmente sofisticato, laddove l'immotivata ed erronea individuazione del pubblico medio dei consumatori del prodotto in una ristretta cerchia elitaria è una statuizione che incide, impostandone i criteri, sulla correttezza di tutta la motivazione;

f) che, in terzo luogo, la sostituzione del personale giudizio (elitario) del giudice alla rilevazione dell'effetto decettivo sul pubblico reale dei consumatori ha necessariamente indotto la Corte territoriale a ritenere che la delega all'equipe demoscopica di un'indagine diretta a verificare la reazione del pubblico reale dei consumatori al messaggio insito nel segno "Parmacotto" violerebbe i limiti dello strumento processuale, invadendo la sfera del "giudizio rimesso alla competenza giuridica e valutativa del giudice", mentre, al contrario, l'indagine demoscopica, per sua natura, altro non offre che dati, raccolti sulla base di quesiti e indicazioni dettati direttamente dal giudice, i quali costituiscono il presupposto conoscitivo su cui deve innestarsi il processo di valutazione giuridica vera e propria (ciò che è e resta di esclusiva competenza del medesimo giudice), tanto vero che lo strumento dell'indagine demoscopica è riconosciuto del tutto ammissibile da parte non solo della Corte di Giustizia Europea (sentenza 4 maggio 1999, in cause riunite C-108/97 e C-109/97), ma anche dei giudici italiani. Il motivo non è fondato.
L'art. 18, lettera e), del decreto legislativo 4 dicembre 1992, n. 480 (recante "Attuazione della direttiva n.89/104/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988, recante ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri in materia di marchi di impresa" e d'ora in avanti, per brevità, denominato semplicemente "legge marchi") prevede, per escluderne la registrazione come marchio (e, se registrati, per determinarne la nullità, ex art. 47, lettera "b", del regio decreto 21 giugno 1942, n. 929, come sostituito dall'art. 42 della legge
marchi sopra citata), "i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi".
Analoghe disposizioni contengono l'art. 3, n. 1, lettera g), della richiamata direttiva e gli artt. 7, lettera g) e 51, lettera a), del regolamento 40/94/CE adottato il 20 dicembre 1993 (come successivamente modificato), istitutivo del marchio comunitario, mentre, del resto, la stessa regola era dettata dall'art. 18, n. 5, del vecchio testo della nostra legge marchi (di cui al suindicato regio decreto n. 929 del 1942) e nell'art.

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