Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 15/11/2012, n. 20016

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Massime1

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, allorquando le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall'implicare la soppressione della posizione lavorativa ne impongano, invece, il potenziamento, non sussiste il giustificato motivo oggettivo di licenziamento a fronte di un rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno,

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 15/11/2012, n. 20016
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 20016
Data del deposito : 15 novembre 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. V G - Presidente -
Dott. A G - Consigliere -
Dott. N V - Consigliere -
Dott. N G - rel. Consigliere -
Dott. G F - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 13396/2008 proposto da:
CO.LI. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL

SEMINARIO

85, presso lo studio dell'avvocato M F A, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato C E, giusta delega in atti e da ultimo domiciliata, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;



- ricorrente -


contro
C S, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE BRUNO BUOZZI

59, presso lo studio dell'avvocato G S, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato R F, giusta delega in atti;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 574/2007 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 15/05/2007, r.g.n. 662/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2012 dal Consigliere Dott. GUSEPPE NAPOLETANO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. S G, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. SVOLGMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di Sandra Capezzuoli, proposta nei confronti della società CO.LI, avente ad oggetto l'impugnativa dei licenziamento intimatole da detta società in ragione del rifiuto di svolgere attività lavorativa a tempo pieno come richiesto per esigenze organizzative aziendali.
La Corte del merito ponendo a base del decisum la massima di questa Corte, di cui alla sentenza n. 9130 del 2010, riteneva che il motivo oggettivo di licenziamento, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art.3, richiedeva che le ragioni inerenti all'attività produttiva siano
tali, nella loro oggettività e non in forza di un atto del datore di lavoro che presenti margini di arbitrarietà, da determinare, con stretto nesso di consequenzialità, l'inutilizzabilità della posizione lavorativa. Conseguentemente, affermava la predetta Corte, le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall'implicare la soppressione della posizione lavorativa, imponendone invece il potenziamento escludevano la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo a fronte di un rifiuto del lavoratore (anteriore alla specifica disciplina dettata al riguardo dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, art. 5, che ne escludeva espressamente la configurabilità) di
trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, essendo in tal caso il licenziamento dovuto ad una determinazione dell'imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto a tempo pieno in luogo di una pluralità di rapporti a tempo parziale.
Avverso questa sentenza la società ricorre in cassazione sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va respinta l'eccezione, sollevata da parte resistente, d'inammissibilità del ricorso prospettata in ragione, e della omessa indicazione dell'identità de soggetto che rappresenta la società, e della mancata specificazione nella procura del ruolo della persona che ha conferito il mandato.
Infatti secondo questa Corte nel ricorso per cassazione proposto da persona giuridica, la mancata indicazione, rispetto alla persona fisica che abbia sottoscritto la procura in calce - pur specificata nella sua identità-, della qualifica che le attribuisca la rappresentanza legale della persona giuridica determina - ove tale elemento non sia desumibile neanche da altri atti del processo - la nullità della procura e quindi l'inammissibilità del ricorso (per tutte V. Cass. S.U. 28 aprile 1999 n. 276). Nella specie dagli atti del giudizio ed in particolare dalla sentenza di appello e dal ricorso in appello si desume che il legale rappresentante della società attuale ricorrente è C F il quale firma la procura a margine del ricorso per cassazione. Con il primo motivo la società, deducendo violazione di legge e di norme collettive con riferimento alla clausola n. 5, comma 2, della Direttiva 97/81 CE e alla L. n. 604 del 1966, art. 3, pone il seguente quesito: se l'aver sostenuto, da parte della Corte di Appello di Firenze, che il licenziamento intimato all'appellata non sarebbe giustificato dalla necessità di utilizzare una unità lavorativa a tempo pieno, non essendo esigibile il ricorso ad un ulteriore rapporto part-time in considerazione della difficoltà di reperire una prestazione lavorativa per sole due ore giornaliere, sia per ragioni economiche sia per non perdere la professionalità della dipendente assunta in sostituzione della medesima appellata, comporti la violazione e/o erronea applicazione della clausola n. 5, comma 2, della Direttiva 97/81 CE ritenuta in linea con la richiamata massima della sentenza n. 9310/2001 di codesto Supremo Collegio e della L. n.604 del 1966, art. 3".
Con la seconda censura la società ricorrente, denunciando violazione di legge e di norme collettive in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3, formula il seguente quesito: "se laddove risulti provato che
le esigenze aziendali comportino la necessità di una prestazione di lavoro a tempo pieno e questa non possa essere offerta dalla lavoratrice part-time in presenza di difficoltà obiettive di reperire una seconda prestazione di lavoro part time in misura di due ore al giorno, costituisca violazione della L. 15 luglio 1966, n.604, art. 3, l'aver ritenuto illegittimo il licenziamento comunicato
per giustificato motivo oggettivo a fronte del rifiuto della lavoratrice di trasformare il proprio orario di lavoro da full time a part time". Con la terza critica la società prospetta vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Con il quarto motivo la società ricorrente, allegando violazione di legge e di norme collettive in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3 ed agli artt. 115, 421 e 437 c.p.c., e conseguente omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione, pone il seguente quesito: "se costituisca violazione degli artt. 115, 421 e 437 c.p.c., il fatto di non aver valutato una circostanza acquisita agli
atti che sulla base della comune esperienza, avrebbe consentito al Giudice di merito di pervenire ad altra decisione rispetto a quella attuata".
Con l'ultima censura la società ricorrente, assumendo violazione di legge e di norme collettive con riferimento all'art. 41 Cost., formula il seguente quesito di diritto:" se, l'aver ritenuto da parte della Corte di Appello di Firenze - omissis - che, allorquando le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall'implicare la soppressione della posizione lavorativa ne impongano, invece, il potenziamento, non sussiste il giustificato motivo oggettivo di licenziamento a fronte di un rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, essendo, in tal caso, il recesso datoriale dovuto ad una determinazione dell'imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto di lavoro a tempo pieno in luogo di una pluralità di rapporti a tempo parziale, limiti l'autonomia dell'imprenditore medesimo nella gestione della propria azienda comportando ergo violazione dell'art. 41 Cost.". Preliminarmente rileva la Corte che, come ribadito di recente anche da Cass. S.U. 5 luglio 2011 n. 14661, il quesito di diritto, previsto dall'art. 366 bis c.p.c., ha lo scopo precipuo di porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n. 5353) ed a tal fine è imposto ai ricorrente di indicare, nel quesito, anche l'errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo tale che dalla risposta - negativa od affermativa - che ad esso si dia, discenda in maniera univoca l'accoglimento od il rigetto del ricorso ( Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360). In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell'art.366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del
motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un'enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420);
ovvero quando, essendo la formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, è inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, mentre la norma impone al ricorrente di indicare nel quesito l'errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759 cit.). Pertanto questa Corte ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all'art. 366 bis epe deve comprendere l'indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044). Nè può ritenersi soddisfi la prescrizione di cui all'art. 366 bis c.p.c., la mera indicazione del fatto su cui si appunta la critica
concernente il vizio di motivazione, atteso che oltre al mero fatto il ricorrente deve indicare, in una sintesi riassuntiva simile al quesito di diritto, le ragioni che rendono, in caso d'insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (Cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n. 16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063). Così ancora, il ricorso per cassazione nel quale si denunzi no con un unico articolato motivo d'impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, è bensì ammissibile, ma esso deve concludersi "con una pluralità di quesiti, ciascuno dei. quali contenga un rinvio all'altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (Cass. S.U. 5 luglio 201J n. 14661).
Nè può demandarsi a questa Corte di estrapolare dai singoli quesiti di diritto e dalla parte argomentativa quali passaggi siano riferibili al vizio di motivazione e quali al violazione di legge, diversamente sarebbe elusa la ratio dell'art. 366 bis c.p.c.. Nella specie rileva la Corte che LI terzo motivo del ricorso, con il quale si deduce vizio di motivazione non è accompagnato da alcuna sintesi riassuntiva, ed il quarto motivo pur contenendo la contemporanea deduzione della violazione di legge e del vizio di motivazione si conclude con un solo quesito sicché non consente, in difetto di una pluralità di quesiti, d'individuare quali siano le critiche riferibili alla violazione di legge e quali al vizio di motivazione.
Conseguentemente i richiamati motivi vanno ritenuti inammissibili per violazione dell'art. 366 bis c.p.c.. Tanto premesso rileva il Collegio che tutte le altre censure sono infondate.
Invero le stesse muovono dal presupposto "della inesigibilità del ricorso ad un ulteriore rapporto part-time in considerazione della difficoltà di reperire una prestazione lavorativa per solo due ore giornaliere". Tuttavia tale presupposto non risulta affatto accertato nella sentenza impugnata. Conseguentemente non possono trovare ingresso in questa sede le censure in esame che, rivendicando la detta inesigibilità, contestano la correttezza giuridica della soluzione adottata dal giudice di appello.
Peraltro questa Corte ha già, condivisibilmente, affermato che in tema di lavoro a tempo parziale, il tenore inequivocabile del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, comma 4, convertito con modificazioni
dalla L. 19 dicembre 1984, n. 863 - che vietava la prestazione di lavoro supplementare rispetto a quello concordato, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, anche aziendali, espressamente giustificata con riferimento a specifiche esigenze organizzative - esclude, con riguardo al periodo anteriore alla sua abrogazione da parte del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, art. 12, la possibilità di attribuire rilievo, sul piano interpretativo, alla direttiva CE n. 97/81 del Consiglio, del 15 dicembre 1997, alla quale non può d'altronde riconoscersi, anteriormente all'attuazione da parte del D.Lgs. n. 61 cit., efficacia diretta nei rapporti tra privati (c.d. efficacia orizzontale), essendo detta efficacia limitata, per le direttive comunitarie sufficientemente precise ed incondizionate, ai rapporti tra autorità dello Stato inadempiente e i soggetti privati (ed. efficacia verticale) ( Cass . 14 settembre 2009 n. 19771). Così come ha, altresì, ritenuto che nell'ipotesi di licenziamento motivato da determinate esigenze relative ad una riorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione mediante la trasformazione di alcuni rapporti da tempo pieno a tempo parziale, ai fini della sussistenza o meno del giustificato motivo obiettivo di recesso nel caso di rifiuto della trasformazione, rileva la presenza delle cosiddette clausole elastiche, che (ora legittime a determinate condizioni secondo il D.Lgs. n. 61 del 2000) erano vietate ai sensi del D.L. n. 726 del 1984, art. 5 (convertito nella L. n. 863 del 1984), applicabile "ratione temporis", il quale - nel quadro di una
rigorosa predeterminazione della collocazione temporale dell'orario di lavoro - escludeva la possibilità di attribuire al datore di lavoro la facoltà di disporre unilateralmente variazioni dei tempi della prestazione (Cass. 16 luglio 2005 n. 14215). D'altro canto se, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, vi deve essere anche uno stretto nesso di
consequenzialità e necessità tra esigenze produttive ed eliminazione del rapporto lavorativo, tanto comporta che la sussistenza di tale nesso è sottoposta alla verifica giudiziale la quale però, non intacca l'autonomia dell'imprenditore, in quanto egli rimane pur sempre libero di assumere le scelte -insindacabili nella loro opportunità - ritenute maggiormente idonee ai fini della gestione dell'impresa.
In altri termini quello che viene in considerazione, ai fini di cui trattasi, non è l'opportunità della determinazione datoriale, quanto piuttosto l'effettività della ragione posta a fondamento della scelta e il nesso di questa con il singolo rapporto di lavoro coinvolto dalla scelta.
Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso, in conclusione, va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

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