Cass. civ., sez. II, sentenza 03/09/2013, n. 20155

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Massime1

Allorché si sia verificata, in corso di causa, la morte dell'usufruttuario di un compendio immobiliare, mentre deve ritenersi inammissibile - per carenza di interesse ad agire, conseguente all'intrasmissibilità "mortis causa" del diritto di usufrutto - la domanda dal quello proposta e proseguita dai suoi eredi, finalizzata allo scioglimento della "comunione impropria"(ovvero all'individuazione dei beni su cui l'usufrutto avrebbe dovuto essere concretamente esercitato, nell'ambito di quelli collettivamente gravati dallo stesso), a differente conclusione deve pervenirsi con riferimento alla pretesa risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. azionata dall'usufruttuario in relazione al rifiuto frapposto dalla curatela fallimentare dei nudi proprietari a consentire la locazione di taluni beni facenti parte di detto compendio, giacché mirante all'accertamento di un comportamento sostanzialmente appropriativo ed estromissivo della curatela ed al conseguente ristoro del diritto dell'usufruttuario a godere della "res fructifera" e farne propri i frutti civili, ai sensi dell'art. 984 cod. civ., diritto la cui trasmissibilità agli eredi non è esclusa da alcuna norma.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. II, sentenza 03/09/2013, n. 20155
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 20155
Data del deposito : 3 settembre 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. P L - rel. Presidente -
Dott. M L - Consigliere -
Dott. B B - Consigliere -
Dott. F M - Consigliere -
Dott. S A - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 15475-2007 proposto da:
GI PATRIZIA GNNPRZ65F57I829N, GI DILETTO GNNDTT60D03L329P, GI GIORGIO GNNGRG36B17I829Y, GI MARINELLA GNNMNL59D47L392R questi ultimi due eredi di GI PPINO, nonché tutti eredi universali della defunta MORETTI LINA, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall'avvocato A F;



- ricorrenti -


contro
FLL GI PPINO, FLL GI FRANCO, FLL GI FRANCO PPINO &
B SNC, FLL GI B, in persona del Curatore Dr. M CTICA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

GERMANICO

146, presso lo studio dell'avvocato G F U, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato S A;



- controricorrenti -


sul ricorso 19769-2010 proposto da:
GI PATRIZIA GNNPRZ65F57I829N, GI DILETTO GNNDTT60D03L329P, GI GIORGIO GNNGRG36B17I829Y, GI MARINELLA GNNMNL59D47L392R questi ultimi due eredi di GI PPINO, nonché tutti eredi universali della defunta MORETTI LINA, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall'avvocato A F;

- ricorrenti al ricorso incidentale -
e contro
FLLIMENTO GI DI GI FRANCO PPINO &
B SNC, FLLIMENTO GI B FLLIMENTO GI FRANCO, FLLIMENTO GI PPINO;



- intimati -


avverso la sentenza n. 843/2006 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 30/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/07/2013 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l'Avvocato Ernesto MOCCI, con delega depositata in udienza dell'Avvocato

GUICCIARDI

Francesco Ugo, difensore dei resistenti che si riporta agli atti depositati;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO

Lucio che ha concluso previa riunione dei ricorsi, rigetto di entrambi i ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La sig.ra Lina M, usufruttuaria al 50% di un complesso di beni immobili di proprietà di Gianoncelli Franco, Peppino e Bruno, che erano stati dichiarati falliti unitamente alla società in nome collettivo tra i medesimi, con atto notificato in data 12.1.2000 citò al giudizio del Tribunale di Sondrio le curatele dei fallimenti della società e dei soci, al fine di sentir individuare i beni su cui esercitare il proprio diritto di usufrutto, di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dall'illegittimo impedimento frapposto dal curatore alla locazione dei beni ed un'indennità per l'utilizzo esclusivo degli stessi da parte della curatela del fallimento della società.
Costituitosi il comune curatore dei fallimenti, contestò il fondamento di tutte le domande, tra l'altro e segnatamente eccependo il difetto di legittimazione passiva della curatela del fallimento della società in relazione ai primi due capi di domanda e l'opportunità della scelta di non locare gli immobili, per non comprometterne le possibilità di vendita, proponendo domanda riconvenzionale per lo scioglimento della "comunione impropria". Esperite le prove testimoniali ritenute ammissibili e la consulenza tecnica, con sentenza non definitiva del 4/6 luglio 2002 l'adito tribunale respinse tutte le domande attrici ed, in accoglimento di quella riconvenzionale, dispose il prosieguo del giudizio per l'estrazione a sorte dei lotti. Tale sentenza venne impugnata dalla M, al cui gravame resistette il curatore. A seguito della morte dell'appellante, avvenuta il 3.4.2003, il giudizio venne riassunto dai suoi eredi G G, D, P e M, che ne fecero proprie le domande ed il gravame, tra l'altro deducendo che la defunta aveva, con testamento olografo, disposto in loro favore dell'usufrutto sui beni immobili. Con sentenza n. 843 dell'8/2-30/3/2006 la Corte di Milano dichiarò cessata la materia del contendere, per sopravvenuta estinzione dell'usufrutto, sul primo capo della domanda attrice e sulla riconvenzionale, e rigettò gli altri capi della domanda principale, con condanna degli eredi dell'appellante alle spese. La corte confermava, quanto al risarcimento dei danni per la mancata locazione degli immobilità legittimità della scelta della curatela dei soci di non concedere in locazione gli immobili e riteneva, quanto alla "indennità" (rectius: risarcimento) per la occupazione degli stessi da parte della curatela del fallimento della società, che la prova articolata fosse inammissibile, per genericità, tanto più che non era dimostrato che a seguito del fallimento la detenzione dei beni fosse passata proprio alla curatela del fallimento della società e non invece, come ritenuto dal primo giudice verosimile, essendo stati gli stessi in possesso dei singoli soci, alla curatele di questi ultimi.
Il giudizio di primo grado era, intanto, proseguito con l'estrazione a sorte dei lotti, avvenuta all'udienza dell'11.11.2002, cui fece seguito, dopo alcuni rinvii, la sentenza definitiva dei 20/11- 5/12/2006, con la quale il giudice, preso atto del contenuto della sentenza n. 843/06 della Corte d'Appello, si limitò, per la ritenuta "totale soccombenza" della parte attrice, a condannare la stessa alle spese del giudizio, liquidate in Euro 18.501,18 in favore della curatela del fallimento della società ed in Euro 14.852,58 in favore della curatela dei singoli soci falliti.
Quest'ultima sentenza venne appellata da G G, P, D e M, "in proprio e nella loro qualità di eredi di M Lina" ed il gravame, cui non aveva resistito il comune curatore dei fallimenti, fu respinto dalla Corte di Milano con sentenza n. 182 dei 2.12.2009-26.1.2010, escludendo: a) la nullità del giudizio di primo grado proseguito dopo il decesso della M, per non essere stato l'evento dichiarato ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 300 c.p.c.;
b) l'illegittimità della protrazione del giudizio dopo l'estrazione a sorte dei lotti, essendovi state concordi richieste di rinvio dei procuratori delle parti;
c) l'ingiustizia della condanna alle spese della M, in considerazione della soccombenza della medesima;
d) l'eccessività delle liquidazioni di tali spese, per genericità della relativa doglianza, in quanto non corredata dalle note spese delle parti, il cui mancato deposito non consentiva l'eventuale giudizio di comparazione. Le due citate sentenze di secondo grado sono state impugnate dai Gianoncelli, nella qualità di eredi della M ed in proprio (nell'impugnazione di quella n. 182/2010), con distinti ricorsi, cui ha resistito, con rispettivi controricorsi, il curatore dei fallimenti.
È stata infine depositata una memoria illustrativa per i ricorrenti. MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi, considerata l'inscindibile connessione tra le questioni dedotte, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, che ritiene l'art. 335 c.p.c. estensivamente applicabile ai casi di impugnazione avverso
sentenze non definitive e definitive emesse nell'ambito del medesimo processo (v., in particolare, nn. 9377701, 9288/95, 8922/95 c.p.c.). Va altresì disattesa l'eccezione, sollevata dalle parti resistenti con riferimento al luogo di notificazione del ricorso n. 15745/07, tenuto conto che l'assunta assunta nullità risulta sanata, per raggiungimento dello scopo dell'atto, dall'intervenuta costituzione con rituale e tempestivo controricorso della comune curatela dei fallimenti.
Oggetto del ricorso n. 15475/07 è la sentenza n. 843/06 della Corte di Milano (relativa all'impugnazione della sentenza non definitiva del Tribunale), che viene attaccata con una serie di motivi, con il primo gruppo dei quali, quelli sub A/1, A/2, A/3, A/4, A/5, si censura, per violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 306 c.p.c., art. 796 c.c., artt. 979 e 1014 c.c., art. 698 c.c., comma 1,
artt. 974 e 1014 c.c. in relazione a varie norme in materia di successioni, nonché per connessi vizi della motivazione, la statuizione di "cessazione della materia del contendere" adottata dal giudice di appello in ordine alle reciproche domande di individuazione dei beni su cui avrebbe dovuto essere esercitato l'usufrutto da parte della M, evidenziando come la contesa tra le parti fosse tutt'altro che cessata, in cospetto della domanda degli eredi della suddetta di esserne riconosciuti successori mortis causa o, comunque, legatari, in virtù di testamento olografo, nel diritto di usufrutto già alla medesima spettante.
Le doglianze, pur evidenziando l'improprietà della formula, con la quale è stata parzialmente definita la controversia su un capo che vedeva ancora attestate le parti su posizioni apertamente conflittuali (al riguardo v. Cass. nn. 8448/12, 10478/04, secondo cui la cessazione della materia del contendere esige che le parti abbiano desistito dalle originarie rispettive richieste ed eccezioni, in considerazione del venir meno delle ragioni che ne avevano determinato il contrasto), sono tuttavia sostanzialmente infondate, in quanto basate su un presupposto manifestamente erroneo in diritto, secondo cui l'usufrutto sarebbe trasmissibile, in virtù di disposizione testamentaria del soggetto titolare dello stesso, con la conseguenza di poter essere esercitato dai successori (o legatari) anche dopo il decesso del suddetto.
La tesi si scontra con un solido principio, inequivocamente recepito dall'art. 979 c.c., secondo cui tale diritto reale, che ha conservato attraverso i secoli, dalla sua origine romanistica fino ad oggi, il suo essenziale ed ineludibile connotato di temporaneità, non può comunque eccedere la durata della vita del titolare. Siffatto connotato ne comporta, come è stato più volte evidenziato da questa Corte (v n.. 4376/02) e non messo in discussione dalla dottrina, l'intrasmissibilità mortis causa neppure in virtù di disposizione testamentaria, restando soltanto possibile la trasmissione agli eredi del cessionario, nell'ipotesi in cui il diritto abbia formato oggetto di cessione inter vivos ai sensi dell'art. 980 c.c., ove questi sia deceduto prima del cedente, ferma restante, ovviamente, la cessazione di ogni diritto alla morte (o alla scadenza, in caso di usufrutto a tempo determinato) dell'originario titolare. Evidenti sono le ragioni di tale disciplina e della sua inderogabilità, considerato che, in caso contrario, il diritto dominicale del proprietario di un bene gravato da usufrutto, resterebbe di fatto, attesa l'ampiezza delle facoltà spettanti all'usufruttuario ai sensi degli artt. 981 e segg. c.c., del tutto svuotato di ogni pratico contenuto economico.
Pertanto, una volta accertata la morte della titolare dell'usufrutto, essendosi estinto proprio il diritto che la medesima aveva azionato, era da ritenersi venuto meno, sul piano sia sostanziale, sia processuale, ogni interesse alla pronunzia, hinc et inde richiestaci scioglimento della "comunione impropria", vale a dire all'individuazione dei beni, nell'ambito di quelli collettivamente gravati dal diritto reale de quo, su cui il diritto avrebbe dovuto essere concretamente esercitato, posto che gli eredi comunque non avrebbero potuto succedere alla de cuius, neppure nel possesso, dei beni in questione (v. Cass. n. 1791/12);
sicché, in quel contesto processuale, la ribadita domanda di scioglimento della suddetta impropria comunione, da cui aveva invece correttamente desistito la curatela, era inammissibile.
In tal senso va, dunque, emendata ai sensi dell'art. 384 c.p.c., u.c. la decisione della corte territoriale, risultata comunque conforme a diritto, considerato che su tale capo di domanda neppure poteva sollecitarsi una pronunzia nel merito da parte del giudice, in funzione delle insoddisfatte spettanze reddituali della usufruttuaria, in relazione alle quali i relativi diritti di credito ex artt. 981-984 c.c., maturati in vita dalla medesima e trasmessi (quelli sì) agli eredi, ben avrebbero potuto essere soddisfatti con proporzionale riferimento alla quota ideale sul compendio, rimasto nel materiale possesso della curatela, senza necessità di individuazione di singoli beni in tale ambito. Con un secondo gruppo di motivi, B/1, B/2, B/3, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., con connessi vizi della motivazione, con riferimento al capo della sentenza n. 843/06, confermativo di quella, non definitiva, di primo grado, reiettiva della domanda risarcitoria e delle connesse richieste istruttorie, in relazione al mancato esercizio, da parte della M, del proprio diritto di godimento gravante sul compendio immobiliare, segnatamente per il frapposto impedimento alla locazione dei beni, o di alcuni di essi, censurando in particolare le ragioni di ritenuta liceità, in narrativa menzionate, dell'operato della curatela. Le censure, non accoglibili nella parte riferibile al fallimento della società, non attaccando specificamente le ragioni in base alle quali i giudici di merito hanno ritenuto che l'apprensione dei beni, di proprietà delle tre persone fisiche fallite fosse avvenuta ad opera soltanto delle curatele di queste ultime e non anche di quella della s.n.c. tra le medesime, vanno invece ritenute fondate nella parte riferibile alla comune curatela dei tre fallimenti individuarla quale, come si è avuto modo di riferire, ha chiaramente ammesso, rivendicandone l'assunta legittimità, la propria scelta di non locare gli immobili o parte degli stessi.
Ma tale operato, contrariamente quanto ritenuto dai giudici di merito, non può ritenersi legittimo, essendosi risolto nella totale vanificazione dei diritti dell'usufruttuaria di godere, sia pur nei limiti del 50%, dei beni in questione, facendone propri i frutti civili ex art. 984 c.c., la cui produzione le è stata di fatto impedita dal comportamento, sostanzialmente appropriativo ed estromissivo, ammesso dalla curatela, la cui giustificazione, di non voler pregiudicare le possibilità di conveniente alienazione dei beni stessi a terzi nell'ambito del procedimento concorsuale, ancorché dettata da finalità di tutela del ceto creditorio, non avrebbe potuto del tutto conculcare le facoltà della usufruttuaria, allo stesso estranea, al concreto esercizio del proprio diritto reale gravante sulla massa. Non condivisibile, pertanto, è l'assunto della corte di merito, confermante la non configurabilità nella fattispecie degli estremi soggettivi dell'atto illecito, posto che il fatto posto in essere ed ammesso dalla comune curatela dei falliti, nudi proprietari del 50% dei beni, si è tradotto nella volontaria estromissione dell'usufruttuaria, titolare della corrispondente quota di possesso, dal godimento relativo, in ragione di un interesse, quello della tutela dei creditori dei falliti, che non avrebbe potuto prevalere su quello della suddetta, di fatto coinvolgendola nelle vicende di un fallimento al quale la medesima era del tutto estranea. Siffatto spossessamento, ancorché non violento o clandestino, tuttavia operato volontariamente, per la sua oggettiva lesività, ravvisabile in re ipsa in ragione della naturale attitudine dei beni a produrre reddito, comportava il diritto ex art. 2043 c.c. del soggetto passivo al conseguente risarcimento dei danni, in misura corrispondente, pro quota e fino alla morte dell'usufruttuaria, diritto la cui trasmissibilità agli eredi non è esclusa da alcuna norma, al reddito che dai beni in questione avrebbe potuto ricavarsi sulla base del corrente valore locativo.
L'accoglimento del motivo di ricorso appena esaminato, comportante la cassazione in parte qua della sentenza impugnata, comporta l'assorbimento del successivo motivo sub C/1, riguardante il regolamento delle spese del giudizio di appello, mentre quello sub C/2, relativo alla contestata legittimazione del curatore a chiedere, in riconvenzionale, lo scioglimento della "comunione impropria", resta assorbito dalla reiezione del primo gruppo di motivi, posto che anche su tale domanda è cessato ogni interesse.
L'esito del ricorso sopra esaminato, in considerazione del quale la causa dovrà essere rinviata per nuovo esame dell'appello sul capo risarcitorio della domanda attrice, agevola l'esame del successivo ricorso (n. 19769/10), avente ad oggetto la sentenza della Corte d'Appello n. 182/10, confermativa di quella, definitiva, con la quale il giudice di primo grado, preso atto della pronunzia n. 843/06 della corte territoriale, aveva condannato la M, in quanto ritenuta soccombente, alle spese del giudizio.
Tale soccombenza, la cui conferma viene censurata con il quarto motivo, per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., è risultata tuttavia esclusa con la presente decisione, nella parte in cui è stata ritenuta illegittima la reiezione, pronunziata dal primo giudice e confermata dal secondo, del capo risarcitorio della domanda della M;
sicché il motivo deve essere accolto, con conseguente cassazione, in parte qua, della sentenza impugnata, mentre restano assorbiti i primi tre motivi, con i quali vengono dedotti vari errores in procedendo in cui sarebbe incorsi i giudici di merito, in relazione al cui rilievo l'accoglimento dell'anzidetta censura, che elimina l'unica statuizione sfavorevole ai ricorrenti contenuta nella sentenza, i medesimi difettano ormai di interesse. In conclusione, accolti i ricorsi nei limiti di cui in motivazione e cassate le sentenze impugnate in relazione alle recepite censure, si dispone il rinvio in relazione alla sola questione risarcitoria, alla corte di provenienza, cui si demanda anche il regolamento delle spese del presente giudizio.

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