Cass. civ., sez. V trib., sentenza 14/10/2015, n. 20629

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Massime1

A seguito della soppressione, disposta dall'art. 8 della legge n. 383 del 2001, dell'obbligo di bollatura del libro giornale e del libro degli inventari previsto dall'art. 22, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, non sono più soggette a sanzione, in applicazione del principio del "favor rei", sancito dall'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, le violazioni, previste dall'art. 51 dello stesso d.P.R. n. 600 del 1973, relative a tale obbligo, ancorché commesse prima dell'entrata in vigore della legge che ne ha disposto la soppressione.

Massima redatta a cura del CED della Cassazione.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. V trib., sentenza 14/10/2015, n. 20629
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 20629
Data del deposito : 14 ottobre 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

Svolgimento del processo

L'appello principale proposto dall'Ufficio di Rieti della Agenzia delle Entrate e l'appello incidentale proposto da M. s.r.l.

erano entrambi rigettati dalla Commissione tributaria della regione Lazio con sentenza 21.9.2007 n. 88.

I Giudici di appello confermavano la decisione di primo grado che aveva in parte accolto i ricorsi della società contribuente avverso gli avvisi di accertamento e la cartella di pagamento aventi ad oggetto la determinazione delle maggiori imposte dovute dalla società a titolo IVA, IRPEG, ILOR ed IRAP per gli anni dal 1997 al 2000.

La Commissione territoriale riteneva illegittimi gli atti impositivi in quanto:

1 - l'ufficio aveva liquidato la maggiore IVA sui maggiori ricavi ed i maggiori costi al lordo anzichè al netto della stessa IVA;

2 - alla violazione dell'obbligo di autofatturazione doveva essere applicata la sanzione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8 essendo stata abrogato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 "anche in applicazione del principio del favor rei";

3 - la violazione di tardiva vidimazione e bollatura delle scritture contabili non poteva essere sanzionata, tenuto conto del favor rei, in quanto la L. n. 383 del 2001, art. 8, comma 2 aveva abolito il relativo obbligo;

4 - illegittimo doveva ritenersi il cumulo materiale delle sanzioni pecuniarie, dovendo trovare applicazione nella specie la continuazione tra gli illeciti tributari D.Lgs. n. 472 del 1997 , ex art. 12;

5 - errata era la determinazione della base imponibile ai fini della applicazione delle imposte dirette in quanto "l'Ufficio non ha provveduto in nessun modo al necessario computo dei costi di gestione che dovevano essere portati in deduzione dagli importi sia in entrata che in uscita risultanti dalle scritture bancarie";

6 - la società aveva provato che aveva venduto gli autoveicoli usati di proprietà di terzi in qualità mandataria, e pertanto le imposte dovevano applicarsi soltanto sulle provvigioni ritratte dalla attività di intermediazione.

La CTR confermava inoltre il maggiore imponibile determinato dall'Ufficio in relazione ai movimenti bancari rilevati sui conti riferibili alla società, in quanto la società appellante- incidentale non aveva fornito alcuna prova contraria idonea a contrastare la presunzione legale.

Avverso la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate, con atto tempestivamente consegnato all'Ufficiale giudiziario in data 6.11.2008 e notificato alla società in data 8.11.2008 presso il difensore domiciliatario, deducendo cinque motivi di impugnazione.

Non ha resistito la società intimata.

Motivi della decisione



1. Il primo motivo, con il quale l'Agenzia fiscale deduce la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 25 in relazione all'art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3) è fondato.

La CTR ipotizza che l'importo dei ricavi per cessioni di beni e prestazioni di servizi, desunto dalle movimentazioni rilevate sui conti bancari riferibili alla società,che non hanno trovato rispondenza nelle scritture contabili e non sono state altrimenti giustificate in relazione alle causali dei versamenti ed ai destinatari dei prelievi, debbano considerarsi al lordo dell'IVA (che la società avrebbe dovuto indicare nelle fatture attive), sicchè la maggiore imposta dovuta dalla società su tali ricavi occulti, secondo la CTR, avrebbe dovuto calcolarsi applicando l'aliquota IVA soltanto al volume di affari al "netto" della imposta.

La tesi è priva di qualsiasi fondamento logico e normativo.

Sotto il profilo logico, in quanto dai ricavi "certi" nell'an e nel quantum (quantificati secondo la presunzione legale di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2) in relazione alla sommatoria degli importi corrispondenti agli accrediti ed addebiti rilevati sul conto e non giustificati), si verrebbe a detrarre una imposta mai versata all'Erario (trattandosi di ricavi conseguiti da operazioni non fatturate): la evidente confusione concettuale in cui incorre la CTR si manifesta in tutta la sua evidenza laddove i Giudici di appello neppure spiegano se la detrazione da applicare ai ricavi debba concernere l'IVA attiva o quella passiva, ed in quest'ultimo caso quali siano gli importi in ipotesi versati come corrispettivi per acquisto di beni e servizi asseritamente comprensivi dell'IVA in rivalsa.

La illogicità appare del tutto evidente considerando che, da un lato, la presunzione legale opera esclusivamente sul piano delle operazioni attive, prevedendo un criterio di determinazione dei soli ricavi occulti, e non invece dei costi di esercizio (la cui deducibilità è subordinata, pertanto, alla relativa prova ove fornita dal contribuente);
dall'altro essendo appena il caso di osservare che la realizzazione di ricavi occulti (od in ipotesi anche di costi occulti) comporta la omessa fatturazione e conseguentemente la evasione della imposta, con la conseguenza che la detrazione dell'IVA virtuale operata dalla CTR si traduce in un vantaggio indebito a favore del contribuente, che viene a beneficiare di una riduzione della base imponibile priva di alcuna giustificazione.



1.1 Quanto al profilo giuridico occorre osservare che, come è stato rilevato da questa Corte, "esiste una differenza sostanziale tra la determinazione del reddito ai fini dell'imposizione diretta e la determinazione del volume di affari ai fini dell'imposta al valore aggiunto, nell'un caso dovendosi considerare per la ricostruzione dell'imponibile i costi e le perdite che incidono negativamente sulle componenti attive, mentre nel secondo caso entra in gioco il coacervo di tutte le operazioni commerciali oggettivamente considerate che costituiscono il volume di affari tassabile". Tali criteri di determinazione della base imponibile non possono essere immutati a discrezione del Giudice tributario mediante applicazione di "criteri di tipo equitativo" che non soltanto non sono previsti, ma si pongono in palese violazione dei criteri indicati dalle norme di diritto tributarie che presiedono all'accertamento dell'imponibile (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 2958 del 10/02/2006).

La sentenza impugnata va pertanto cassata in parte qua, dovendo il Giudice del rinvio provvedere a rideterminare l'imponibile ai fini IVA in conformità ai criteri normativi predetti, come interpretati da questa Corte.

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