Cass. civ., sez. I, sentenza 27/08/2004, n. 17142

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Nell'ipotesi in cui l'occupazione di un suolo si protragga oltre la scadenza del termine di occupazione legittima, senza che si verifichi la perdita della proprietà per irreversibile destinazione, il danno derivante dalla mera illegittima occupazione può essere determinato - ove il proprietario del bene non fornisca la prova di un danno maggiore - avvalendosi del criterio sussidiario ed equitativo degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all'indennità di espropriazione del bene, posto che detta indennità, rispecchiando le caratteristiche oggettive dell'immobile, è idonea a fungere in via presuntiva da parametro pienamente reintegrativo del pregiudizio subito dal patrimonio del danneggiato; non è, invece, più giustificabile - dato il superamento( da ultimo con l'art. 5 bis legge n. 359 del 1992 ) del criterio del valore venale dell'immobile, di cui all'art. 39 legge n. 2359 del 1865, ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio - il riferimento a tale valore quale base di calcolo dei predetti interessi, mancando una norma o argomenti letterali o sistematici che legittimino il collegamento con la reale destinazione produttiva o con la effettiva redditività del fondo, ne' essendo praticabile il ricorso al notorio ai sensi dell'art. 115, secondo comma, cod. proc. civ.( non potendosi considerare notorio che la perdita dei frutti di un terreno, agricolo ovvero edificabile, nell'ipotesi di occupazione senza titolo da parte della P.A. debba corrispondere sempre e comunque all'importo degli interessi legali annui sul suo prezzo di mercato ) o all'equità ai sensi degli artt. 1226 e 2056 cod. civ.( perché anche in tal caso il giudice, per evitare che il criterio diventi arbitrario, deve dar conto delle presunzioni nonché degli indici di probabilità e delle ragioni che inducono a ritenere il danno in questione coincidente con gli interessi in questione ).

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 27/08/2004, n. 17142
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 17142
Data del deposito : 27 agosto 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente -
Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo - rel. Consigliere -
Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere -
Dott. CELENTANO Walter - Consigliere -
Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMUNE DI SCICLI, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMANIA G. FERRARI 4, presso l'Avvocato SERGIO CERSOSIMO che lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

- ricorrente -

contro
NO TO ME, elettivamente domiciliata in ROMA VIA TIBULLO 10, presso l'avvocato MARCELLO FURITANO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato LUIGI PICCIONE, giusta mandato a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 84/01 della Corte d'Appello di CATANIA, depositata il 08/02/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/06/2004 dal Consigliere Dott. Ugo Riccardo PANEBIANCO;

udito per il ricorrente l'Avvocato CERSOSIMO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l'Avvocato PICCIONE che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con allo di citazione notificato in data 16.6.1998 CA MI BE conveniva avanti ai Tribunale di Modica il Comune di Scicli, sostenendo di essere proprietaria di un terreno in territorio di Scicli che il Comune aveva occupato l'11.7.1979 e continuava a detenere senza aver eseguito opere od emesso il decreto di espropriazione e senza aver offerto alcuna indennità. Chiedeva quindi la restituzione del fondo ed il risarcimento del danno per il periodo di occupazione legittima e per quello di occupazione illegittima.
Si costituiva il Comune che negava di essere ancora in possesso dell'immobile occupato, ammettendo di averlo occupato per un triennio dall'11.7.1979 e chiedendo che l'indennità di occupazione legittima venisse liquidata con riferimento a tale periodo ed ai frutti che il fondo avrebbe prodotto secondo la sua destinazione agricola. Disposta ed espletata consulenza tecnica d'ufficio, il Tribunale con sentenza del 6.6.1997 condannava il Comune alla restituzione del terreno occupato ed al pagamento della somma di L. 260.153.056, oltre agli interessi legali ed alle spese del giudizio.
Proponeva impugnazione il Comune ed all'esito del giudizio, nel quale si costituiva la controparte chiedendone il rigetto, la Corte d'Appello di Catania con sentenza del 17.7.2000-8.2.2001 rigettava il gravame condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado. Relativamente alla questione sulla competenza funzionale sollevata in ordine alla liquidazione da parte del Tribunale dell'indennità di occupazione legittima, osservava la Corte d'Appello in primo luogo che, essendo il giudice d'appello funzionalmente competente al riguardo ai sensi dell'art. 19 (recte art. 20) della Legge 865/71, la pronuncia sull'indennità, pur emessa da giudice incompetente, può essere sostituita da quella della stessa Corte ed, in secondo luogo, che la configurabilità di un periodo di occupazione legittima era comunque preclusa in radice in quanto l'occupazione era stata effettuata per l'esecuzione di un piano edilizio annullato dal giudice amministrativo.
Su tale ultimo punto dichiarava altresì l'infondatezza dell'eccezione con cui il Comune appellante aveva contestato la proponibilità in appello della questione in quanto prospetterebbe un ambito di giudizio del tutto differente da quello esaminato dal giudice di primo grado, precisando che l'attrice aveva già affermato in primo grado che l'occupazione del terreno era avvenuta "sine titillo" per scadenza di tutti i termini previsti dall'art. 13 della Legge 2359 del 1865. che la sentenza impugnata aveva ritenuto che non
ricorressero le condizioni per configurare l'acquisizione del fondo da parte del Comune come occupazione appropriativa o accessione invertita considerandola correttamente come fatto illecito compiuto al di fuori di ogni potere espropriativo ed infine che la pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa del 25.10.1990 di annullamento del PEEP, prodotta in primo grado, rappresentava, anche se non espressamente richiamata, un argomento "a fortiori" della carenza di potere.
Condivideva quindi la liquidazione del danno per l'occupazione illegittima effettuata con riferimento al parametro del valore venale dell'area, senza l'applicazione dei correttivi previsti dall'art. 5 bis della Legge 359/92 e successive integrazioni.
Escludeva poi che il possesso del terreno, di cui la proprietaria era stata privata in esecuzione di un formale atto amministrativo, possa essere riacquistato in assenza di un formale atto di restituzione e che quindi legittimamente ne era stata disposta la restituzione, precisando che l'area concessa in affitto riguardava quella residua non occupata dal Comune.
Riteneva infine che, ai fini della determinazione del danno conseguente alla occupazione del terreno, correttamente il Tribunale aveva adottato il criterio degli interessi legali sul valore del terreno, determinato, quest'ultimo, sulla base della sua natura edificatoria, in quanto si trova in zona C del PRG, e con riferimento ai prezzi di mercato.
Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione il Comune di Scicli, deducendo tre motivi di censura.
Resiste con controricorso CA MI BE.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso il Comune di Scicli denuncia violazione degli artt. 345 vecchio testo. 346 e 112 C.P.C., in relazione all'art. 360 n. 4 C.P.C. Lamenta che la Corte d'Appello non abbia considerato che in primo grado l'attrice aveva chiesto il pagamento dell'indennità per il periodo di occupazione legittima e per quello successivo di occupazione illegittima e che, solo dopo che il Comune aveva sostenuto con l'atto di appello che gli interessi per la determinazione di tale indennità dovevano essere calcolati non sull'asserito valore del terreno, come aveva fatto il Tribunale, ma su quella che sarebbe stata l'indennità di esproprio, parte appellata aveva chiesto il risarcimento dei danni secondo i criteri ordinaria deducendo che si era fuori dall'ipotesi di occupazione legittima in quanto il decreto di esproprio era stato annullato dal TAR. Sostiene quindi che non corrispondono alle risultanze processuali i rilievi espressi al riguardo dalla Corte d'Appello, secondo cui parte attrice sin dal primo grado aveva lamentato un'occupazione senza titolo, con la conseguenza che illegittimamente era stato introdotto un nuovo tema d'indagine che doveva ritenersi inammissibile e che la decisione doveva essere basata sulla prospettazione originaria relativa all'indennità per l'occupazione legittima seguita da quella per l'occupazione illegittima in relazione all'esecuzione di un'opera pubblica.
La censura è fondata nei limiti appresso precisati.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che spetta al giudice di primo grado il compito di definire il contenuto e la portata delle domande avanzate dalle parti, identificando e qualificando giuridicamente i beni della vita destinati a formare oggetto del provvedimento richiesto (cosiddetto "petitura") nonché il complesso degli elementi della fattispecie da cui derivino le pretese dedotte in giudizio (cosiddetta "causa petendi"), mentre al giudice di appello è devoluta la facoltà di procedere, a sua volta, ad una nuova qualificazione giuridica dei suddetti elementi, purché circoscritta entro i limiti dei fatti originariamente prospettati dalle parti medesime.
Ciò comporta che il giudice d'appello può dare al rapporto in contestazione una qualificazione giuridica diversa da quella data dal giudice di primo grado o prospettata dalle parti, avendo egli il potere dovere di inquadrare nell'esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia, anche in mancanza di una specifica impugnazione ed indipendentemente dalle argomentazioni delle parti, purché nell'ambito delle questioni riproposte col gravame, con la conseguenza che egli non viola il principio del "tantum devolutum guantum appellatum" qualora fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall'appellante nei suoi motivi ovvero prenda in esame questioni da lui non specificamente proposte purché siano, nell'ambito della censura formulata, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi in quanto ne costituiscono un necessario antecedente logico e giuridico.
Il solo limite imposto a detto giudice dall'art. 112 C.P.C. è dato dal divieto di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d'impugnazione;
sicché non gli è permesso: a) anzitutto sostituire un'azione diversa a quella formalmente ed espressamente esercitata dalla parte;
b) porre a base della decisione fatti diversi da quelli dedotti dalle parti;
c) pronunciando oltre i limiti del petitum e delle questioni hinc et inde dedotte (e/o che non abbiano formato oggetto del giudizio),
attribuire un bene non richiesto e diverso da quello domandato (Cass. 8501/2003;
10734/2002;
10547/2002;
397/2002;
9597/1998
).
Siffatti principi condizionano anche il sindacato consentito alle parti in sede di legittimità sull'interpretazione delle loro domande ed eccezioni compiuta dal giudice di appello nonché sui poteri della Corte di Cassazione al riguardo. Infatti qualora si censuri (in concreto ed a prescindere dalle formule usate) l'interpretazione data alla domanda, ritenendosi in essa compresi od esclusi alcuni aspetti della controversia in base ad una valutazione non condivisa dalla parte, una tale interpretazione e l'apprezzamento della sua ampiezza e del suo contenuto

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