Cass. pen., sez. VI, sentenza 16/03/2023, n. 11343

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. VI, sentenza 16/03/2023, n. 11343
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 11343
Data del deposito : 16 marzo 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da G C, nato a Potenza il 28/04/1963 avverso la sentenza del 18/03/2022 della Corte di appello di Potenza;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere M R. udito Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, S S, che ha concluso per il rigetto ricorso;
udito il difensore del ricorrente, avv. M B, che ha chiesto l'accoglimento dell'impugnazione.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Potenza ha confermato la condanna di C G per i detitt di peculato ed abuso d'ufficio continuati. Secondo i giudici di merito, nella sua qualita di assistente giudiziario in servizio presso la sezione civile di quella stessa Corte, eciii si era appropriato di numerosissime marche da bollo, consegnategli da avvocati per le relative attività d'ufficio e rinvenute, libere e non annullate, presso la sua abitazione e nel suo ufficio, per un importo complessivo di oltre cttomila cui -o;
nonché aveva reiteratamente favorito l'avvocato L D M, omettendo da lui l'esazione dei dovuti diritti di cancelleria relativi a quaranta procedimenti civili dal medesimo promossi ai sensi della c.d. "legge Pinto" e, in tal modo, intenzionalmente procurandogli il corrispondente vantaggio patrimoniale, pari a 1.080 euro, con correlativo danno per l'Erario.

2. Egli ricorre avverso tale decisione, con atto del proprio difensore, rassegnando quattro doglianze.

2.1. Con la prima lamenta violazione di legge penale e processuale e vizi di motivazione in ordine alla configurabilità del delitto di peculato, là dove i giudici di merito hanno ritenuto che le marche da bollo si trovassero nella sua disponibilità per ragione del proprio ufficio. Per giungere a tale affermazione, però, sarebbe stato necessario dimostrare, per ciascuna di esse, la pregressa consegna da parte di un avvocato e la riferibilità ad uno specifico procedimento. La sentenza impugnata, invece, si è limitata a valorizzare tre elementi, ovvero: l'elevato numero di quelle, l'essere "libere" - cioè non annullate né incollate ad alcun atto - e le dichiarazioni di alcuni avvocati, che avrebbero confermato la prassi della consegna in tale forma alla cancelleria. Nessuno di tali profili, tuttavia, sarebbe concludente: il numero elevato, infatti„ avrebbe valenza neutra, poiché non spiegherebbe la ragione del relativo possesso;
in secondo luogo, erano libere soltanto le marche rinvenute in casa ma non anche quelle trovate in ufficio, che invece erano unite ai relativi atti mediante fermagli;
infine, le dichiarazioni degli avvocati hanno riguardato soltanto ricorsi relativi alla c.d. "legge Pinto", perciò riferendosi ai fatti oggetto di contestazione come abuso d'ufficio. L'elemento indiziante appurato sarebbe, dunque, uno soltanto - ovvero l'elevato numero di quei valori - e, come tale, sarebbe insufficiente ad integrare la prova di reità, secondo il disposto dell'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., che richiede la pluralità di indizi.

2.2. Sempre relativamente al peculato, la Corte d'appello sarebbe incorsa in violazione di legge penale e processuale anche nella parte in cui ha ravvisato una condotta appropriativa di quei valori da parte di esso ricorrente. Essi, infatti, divengono un bene della pubblica amministrazione solo al momento del rilascio del correlato documento da parte dell'ufficio. L'appropriazione, e quindi la interversio possessionis, presuppongono che dette marche, consegnate dall'utente, non siano mai state apposte sui relativi documenti o, se apposte, siano state successivamente rimosse e distratte. L'affermazione di colpevolezza, dunque, sarebbe dovuta passare dall'accertamento della richiesta cui si collegava ogni singola marca, degli importi dovuti, della consegna di essa da parte di un utente e dell'assenza della stessa nel fascicolo di riferimento: verifica, questa, della quale invece non v'è traccia in sentenza.

2.3. Il terzo motivo riguarda il delitto di abuso d'ufficio e consiste nella violazione della relativa norma incriminatrice, sì come riformulata dalla novella del 2020, nella parte in cui prevede che la regola di condotta violata debba essere contenuta in una norma di legge. Esso ricorrente, invece, avrebbe violato il disposto dell'art. 30, d.P.R. n. 115 del 2022 (testo unico delle spese di giustizia), che la stessa sentenza indica come «atto normativo di rango immediatamente inferiore alla legge», erroneamente ritenendone comunque rilevante la violazione sulla base del principio - affermato da questa Corte - per cui integra il reato anche la violazione della norma secondaria, qualora essa contenga solo una specificazione tecnica di un precetto compiutamente definito già dalla legge. Tale principio, tuttavia, nel caso specifico non sarebbe conferente, mancando comunque una norma primaria di riferimento.

2.4. L'ultima censura riguarda la violazione dell'art. 323, cod. pen., in punto di elemento psicologico del reato. L'esistenza di rapporti confidenziali tra esso ricorrente e l'avvocato D M e la sua quotidiana frequentazione con tutti i soggetti operanti, come D M, nello studio dell'avvocato R D B di Potenza, dalle quali la sentenza inferisce l'intenzionalità dell'omessa esazione dei diritti di cancelleria per i relativi fascicoli, in realtà non sarebbero dimostrate. I giudici d'appello, infatti, hanno completamente trascurato le dichiarazioni dello stesso D M e del segretario dello studio, A Lo Scalzo, che hanno concordemente riferito di un rapporto di risalente amicizia soltanto tra quest'ultimo ed esso ricorrente. Né può ritenersi significativo, come invece si legge in sentenza, i'omesso invio all'avv. D M delle pec di sollecito, come previsto dal regolamento interno dell'ufficio nel caso di mancata consegna delle marche da parte dell'avvocato richiedente l'atto. Dei sei avvocati che hanno reso dichiarazioni, infatti, soltanto uno ha riferito di aver ricevuto tale sollecito, sì che l'omissione del medesimo nei confronti del D M non può reputarsi espressiva di alcun favoritismo verso di lui. Peraltro, considerando che il carattere dovuto del versamento del bollo per i ricorsi relativi alla "legge Pinto" era contestato da diversi avvocati, la mancata esazione di esso potrebbe semmai ascriversi a colpa, ma non a dolo, tanto più intenzionale.
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