Cass. civ., sez. I, sentenza 16/10/2013, n. 23541

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Massime1

La disciplina dell'art. 2432 cod. civ., in base alla quale, ove il compenso previsto per i promotori, i soci fondatori e gli amministratori sia stabilito in forma di partecipazione agli utili, lo stesso va determinato sugli utili netti risultanti dal bilancio, fatta deduzione della quota di riserva legale e delle imposte, si applica anche alla remunerazione degli amministratori "investiti di particolari cariche" ai sensi dell'art. 2389, cod. civ., tra cui rientra l'amministratore delegato.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 16/10/2013, n. 23541
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 23541
Data del deposito : 16 ottobre 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. S G - Presidente -
Dott. D M - Consigliere -
Dott. C P - Consigliere -
Dott. B G - Consigliere -
Dott. D C C - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SNTENZA
sul ricorso proposto da:
S COSTRUTTORI s.p.a., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dall'avv. I G ed elett.te dom.ta presso lo studio del medesimo in Roma, Viale Bruno Buozzi n. 82;



- ricorrente -


contro
S Francesco Saverio, in proprio e quale legale rappresentante della SA.PAR. s.r.l., S Alessandro, S Fabio, S Claudio, tutti rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del controricorso, dagli avv.ti prof. B M, prof. A N ed E L M, ed elett.te dom.ti presso lo studio dei medesimi in Roma, Via

XXIV

Maggio n. 43;



- controricorrenti -


e contro
S Simonpietro;



- intimato -


avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma n. 4035/2010 depositata il 7 ottobre 2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 aprile 2013 dal Consigliere dott. C D C;

udito per la ricorrente l'avv. G I;

uditi per i controricorrenti gli avv.ti prof. M B ed E L M;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

SORRENTINO

Federico che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 30 gennaio 2002 i sig.ri Francesco Saverio S e Alessandro S, componenti del consiglio di amministrazione della S Costruttori s.p.a., convennero la società davanti al Tribunale di Roma per l'annullamento delle delibere consiliari del 31 ottobre e del 7 novembre 2001, con le quali, rispettivamente, era stata respinta la proposta di revoca delle deleghe conferite all'amministratore delegato, sig. P S, ed stati attribuiti al medesimo emolumenti costituiti da L. 400.000.000 annue e dal 3 % degli utili annui della società, calcolati al lordo delle imposte, nonché da un ulteriore premio una tantum di L.

3.000.000.000 quale remunerazione per l'attività di amministratore delegato svolta dal 1994 al 2001. Gli attori sostenevano l'illegittimità delle delibere in quanto adottate col voto determinante del sig. P S, che versava in conflitto d'interessi, e, con specifico riferimento alla delibera del 7 novembre, perché la relativa competenza spettava all'assemblea e perché era stato attribuito all'amministratore delegato un compenso sproporzionato, che si andava a sommare a quanto percepito dal S in qualità di direttore generale.
Con un secondo atto di citazione, notificato il 16 settembre 2002, i sig.ri Francesco Saverio S, anche quale legale rappresentante della SA.PAR. s.r.l., Alessandro S, Simonpietro S, S Fabio e Claudio S impugnarono, sempre davanti al Tribunale di Roma, la delibera assembleare del 6 maggio 2002 di ratifica delle cennate Delib. consiliari, deducendone l'illegittimità, fra l'altro, perché non era stata raggiunta la maggioranza necessaria, non essendosi tenuto conto delle azioni proprie in possesso della società, e perché la Delib. era stata assunta col voto determinante di un socio in conflitto d'interessi - la S S s.a.p.a., i cui accomandatari erano S S e P S, rispettivamente padre e figlio - e riconosceva all'amministratore delegato un compenso pari al 3 % dell'utile lordo di esercizio prima delle imposte, in violazione dell'art. 2432 c.c.. La S Costruttori s.p.a. resistette in entrambi i giudizi, poi riuniti dal Tribunale, che li definì respingendo le domande di annullamento della Delib. consiliare 31 ottobre 2001 e della parte della Delib. 7 novembre 2001 che aveva riconosciuto
all'amministratore delegato una remunerazione di L. 3 miliardi una tantum per l'attività pregressa;
dichiarando la sopravvenuta carenza d'interesse ad agire sull'impugnativa della Delib. consiliare 7 novembre 2001 nella parte in cui aveva riconosciuto a S P un compenso di L. 400 milioni annui, in quanto sostituita dalla Delib. assembleare 6 maggio 2002, non potendosi ritenere il riconoscimento dell'emolumento in questione di competenza del consiglio di amministrazione ai sensi dell'art. 2389 c.c., comma 2, poiché la Delib. consiliare non precisava quale parte del medesimo riguardava l'opera di amministratore delegato e quale la carica di componente del comitato esecutivo;
annullando le Delib. nella sola parte in cui riconoscevano all'amministratore delegato un compenso pari al 3 % dell'utile di esercizio prima delle imposte. La Corte di Roma ha rigettato l'appello principale della S Costruttori e, in parziale accoglimento dell'appello incidentale delle controparti, ha annullato sia la Delib. consiliare del 7 novembre 2001 nella parte in cui riconosceva all'amministratore delegato un compenso una tantum di L. 3.000.000.000 (ferma restando la statuizione del Tribunale di difetto di interesse ad impugnare la medesima Delib. nella parte relativa alla remunerazione di L. 400.000.000 annue, in quanto sostituita dalla competente Delib. assembleare 6 maggio 2002), sia la Delib. assembleare del 6 maggio 2002.
Per quanto ancora rileva, la Corte ha affermato che l'appello principale della società andava respinto perché, ai sensi dell'art.2389 c.c., comma 1, è competente l'assemblea, e non il consiglio di
amministrazione, a disporre la partecipazione degli amministratori agli utili, i quali, ai sensi dell'art. 2432 c.c., vanno calcolati al netto degli accantonamenti delle riserve e dopo aver detratto gli altri costi, tra i quali rientrano le imposte gravanti sulla società.
Quanto all'appello incidentale, la Corte ha affermato che:
era condivisibile la contestazione mossa dagli appellanti alla configurazione della Delib. assembleare quale ratifica di quelle del consiglio di amministrazione, non potendo l'assemblea sostituirsi agli amministratori nell'esercizio del potere gestorio loro spettante in esclusiva;
ciò non toglieva nulla, però, all'efficacia della delibera assembleare nelle materie di competenza dell'assemblea, e cioè l'attribuzione dei compensi del 3 % sugli utili e di L. 400 milioni annui a P S;

risultava dagli atti che quest'ultimo era stato remunerato con L. 300.000.000 annue, quale direttore generale, fino alla nomina, nel luglio 1994, ad amministratore delegato, a seguito della quale gli venne riconosciuto, per la carica, un compenso complessivo di L. 600 milioni annui in cui erano compresi i L. 300 milioni già percepiti in precedenza, onde quanto dichiarato dal S al consiglio di amministrazione il 7 novembre 2001 - e cioè che fino al 2001 aveva percepito quale unico compenso per la sua attività di amministratore delegato la somma di L. 24.000.000 annue e gli altri L. 600 milioni erano riferiti esclusivamente alla sua attività di direttore generale - era frutto di una sua unilaterale valutazione;

attesa la mancata contestazione dei dati di bilancio e di altre circostanze enunciate dagli appellati per dimostrare la sproporzione degli emolumenti attribuiti per il passato a P S, già la sola attribuzione una tantum del premio di L. 3.000.000.000, in aggiunta agli altri emolumenti, era idonea a determinare un ingiustificato detrimento patrimoniale per la società;

pertanto la Delib. consiliare 7 novembre 2001, assunta col voto determinante del sig. S, era annullabile per conflitto d'interessi, nella parte appunto relativa al compenso una tantum di L. 3 miliardi, e del pari annullabile era la Delib. assembleare 6 maggio 2002, riproduttiva della prima sul punto la Delib. assembleare 6 maggio 2002, inoltre, era invalida anche perché assunta senza la maggioranza necessaria, trattandosi di assemblea ordinaria in prima convocazione nella quale avevano votato a favore della delibera la S S &
C. s.a.p.a., titolare del 47,12 % delle azioni, e avevano votato contro gli altri soci, ossia gli appellati, titolari del 43,12 % delle azioni: sicché, dovendosi tener conto della presenza dell'ulteriore 9,76 % delle azioni, in possesso della stessa società partecipata, non era stata raggiunta la necessaria maggioranza assoluta, in applicazione dell'art. 2357 ter c.c., comma 2, secondo periodo, (nel testo vigente all'epoca della Delib., a
mente del quale per le azioni proprie in possesso della società "il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per la deliberazione dell'assemblea"), il cui chiaro tenore testuale impediva di affermare che le azioni proprie fossero da computare nella base di calcolo dei soli quorum assembleari riferiti al "capitale sociale" e non anche di quelli riferiti al "capitale rappresentato in assemblea", come indirettamente confermato dal fatto che soltanto con la modifica del testo dell'art. 2370 c.c. introdotta dal D.Lgs. 28 dicembre 2004, n.310 era stato specificato che l'intervento in assemblea è riservato
ai soli azionisti aventi diritto al voto.
La S Costruttori s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi, cui i sig.ri Francesco Saverio S, S Alessandro, Fabio S, Claudio S e la SA.PAR. s.r.l. hanno resistito con controricorso. Il sig. Simonpietro S non ha svolto difese. La ricorrente ha anche presentato memoria e i controricorrenti osservazioni scritte sulle conclusioni del P.M..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo di ricorso si denunciano violazione di norme di diritto e vizio di motivazione per avere la Corte d'appello annullato la Delib. assembleare 6 maggio 2002, oltre che per il mancato raggiungimento del quorum deliberativo, anche per violazione dell'art. 2432 c.c. e per conflitto d'interessi, nonostante tali ultimi vizi fossero assorbiti nel primo.
1.1. - Premesso che non è esatto che la delibera in questione sia stata annullata dalla Corte d'appello anche per conflitto d'interessi (l'annullamento per tale ragione riguarda invece la sola Delib. consiglio di amministrazione attributiva del compenso di L. 3 miliardi una tantum per l'attività di amministratore delegato svolta da P S nel passato), ben poteva la medesima Corte enunciare una duplice ratio a fondamento della decisione di annullare la delibera assembleare. Questa Corte, invero, ha ritenuto di censurare tale prassi soltanto per il caso - che qui non ricorre - in cui a una statuizione processuale di inammissibilità, comportante l'esclusione della potestas iudicandi, il giudice di merito affianchi, contraddittoriamente, anche una statuizione di merito (cfr. Cass. Sez. Un. 3840/2007). 2. - Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si lamenta che la Corte d'appello abbia calcolato la maggioranza assoluta, necessaria per deliberare all'assemblea ordinaria in prima convocazione, non sul solo ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all'assemblea stessa, bensì aggiungendovi quello delle azioni proprie appartenenti alla società, con il risultato che sul voto favorevole della maggioranza del 47 % circa del capitale finiva col prevalere quello contrario della minoranza del 43 % circa.
2.1. - Il motivo è fondato.
Sulla questione se debbano o meno considerarsi le azioni proprie della società nella base di calcolo della maggioranza necessaria per deliberare all'assemblea ordinaria delle società per azioni - posta ovviamente con riguardo alla disciplina vigente alla data della delibera per cui è causa (6 maggio 2002) - si registra diversità di posizioni sia in dottrina che nella giurisprudenza di merito, mentre questa Corte non ha avuto sinora occasione di pronunciarsi. Ad avviso del Collegio la maggioranza va calcolata sulle sole azioni rappresentate dai soci partecipanti all'assemblea, come sostiene la ricorrente, per le seguenti ragioni.
L'art. 2357 ter c.c., comma 2, secondo periodo, nel testo qui applicabile introdotto dal D.P.R. 10 febbraio 1986, n. 30 e che si trascrive nuovamente per comodità, stabilisce, come si è visto: "Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le Delib. dell'assemblea". Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, il dato testuale depone nel senso che le azioni proprie della società vanno incluse nella base su cui calcolare i quorum costitutivi o deliberativi esclusivamente allorché questi si configurino quali quote del capitale sociale, posto che per "capitale" si intende propriamente appunto il capitale sociale;
il che sicuramente non si verifica per il quorum deliberativo dell'assemblea ordinaria in prima convocazione (la presenza del quorum costitutivo della metà del capitale sociale, previsto dall'art. 2368 c.c., comma 1 nella specie è pacifica), che non è espresso in termini di quota del capitale sociale. È infatti previsto (dal richiamato art. 2368 c.c., comma 1, secondo periodo) che l'assemblea deliberi a "maggioranza assoluta", ed è evidente che tale maggioranza va calcolata non sul capitale sociale, bensì sulla parte di esso rappresentata dai soci presenti in assemblea:
diversamente si verificherebbe - com'è stato esattamente rilevato in dottrina - il paradosso di un quorum costitutivo più basso del quorum deliberativo, essendo il primo pari alla "metà" del capitale e il secondo alla "maggioranza" (ossia la metà più uno) del medesimo.
Alla suddetta interpretazione della lettera dell'art. 2357 c.c., comma 2, secondo periodo, sostenuta da una parte della dottrina, non
potrebbe obiettarsi che, in realtà, nel testo richiamato dell'art.2357 ter c.c., comma 2, il riferimento al "capitale" è comprensivo
anche del solo "capitale rappresentato in assemblea". Va infatti ribadito che il significato proprio del termine "capitale" è quello di capitale sociale ed è una evidente forzatura comprendere in esso anche il riferimento a parte soltanto del medesimo, quale quella rappresentata in assemblea.
Nè sarebbe comunque corretto, per altro verso, qualificare le azioni proprie della società come azioni rappresentate o presenti in assemblea (sul che, del resto, dichiarano di concordare, nel controricorso, gli stessi controricorrenti), per la fondamentale ragione (anche questa già evidenziata in dottrina) che non già le azioni, bensì i soci che le detengono compongono l'assemblea (ancorché con diritto di voto proporzionale alle azioni possedute), mentre la società, nonostante detenga proprie azioni, non può, per definizione, essere socia di se stessa, ne' parte di un proprio organo interno.
Le conclusioni sopra raggiunte trovano poi conferma alla luce della ratio del più volte richiamato art. 2357 ter c.c., comma 2, secondo periodo.
È vero, infatti, che l'estensione della base di calcolo dei quorum assembleari alle azioni proprie della società, introdotta, come si è detto, dal D.P.R. n. 30 del 1986, ha lo scopo di evitare vantaggi per gli amministratori e i soci di maggioranza relativa, dato che quanto minore è la base di calcolo della maggioranza, tanto più agevole è il controllo dell'assemblea, per il quale sarà sufficiente un minor numero di azioni;
questo scopo, però, non viene perseguito ad ogni costo dal legislatore del 1986, essendo prevalente rispetto ad esso il fine di evitare situazioni di stallo, per l'impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni da cui dipende la stessa sopravvivenza della società, quali l'approvazione del bilancio e la nomina delle cariche sociali, di competenza appunto dell'assemblea ordinaria. Per questa ragione la maggioranza assoluta con cui l'assemblea ordinaria Delib., sia in prima che in seconda convocazione, è riferita al capitale rappresentato in assemlea e non all'intero capitale sociale. Nel controricorso viene infine richiamata la recente riformulazione - ad opera del D.Lgs. 29 novembre 2010 n. 224 - dell'art. 2357 ter c.c., comma 2. secondo periodo, che ora recita: "Il diritto di voto
è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell'assemblea". Tale riformulazione, con la soppressione del riferimento al "capitale" e l'introduzione del riferimento alle "maggioranze", eliminerebbe, secondo il controricorrente, ogni possibile dubbio sulla necessità del computo delle azioni proprie della società nella base di calcolo di qualsiasi maggioranza assembleare e non farebbe che confermare quanto già ricavabile dalla formulazione precedente.
Ad avviso del Collegio, invece, quale che sia la corretta interpretazione della nuova formulazione della norma, non è possibile riferire tale interpretazione anche alla ben diversa formulazione precedente, in mancanza di chiare indicazioni in tal senso.
3. - Con il terzo motivo si denuncia vizio di motivazione e violazione di norme di diritto. La ricorrente premette che il Tribunale aveva dichiarato la carenza di interesse ad agire dell'attrice in ordine alla domanda di annullamento della Delib. consiglio di amministrazione 7 novembre 2001, con cui era stato liquidato a favore di S P un compenso di L. 400.000.000 annue per la carica di membro del comitato esecutivo e per l'attività di amministratore delegato, in quanto sostituita dalla successiva delibera assembleare, di identico contenuto, del 6 maggio 2002;
cen-sura quindi la statuizione con cui la Corte d'appello ha riformato quella del Tribunale ed ha annullato la Delib. consiliare a causa del conflitto di interessi in cui versava S P, che l'aveva votata, per avere i giudici di secondo grado scorrettamente ricostruito i fatti a base della loro statuizione.
3.1. - Il motivo è inammissibile in quanto riferito ad una statuizione in realtà inesistente, non avendo affatto la Corte d'appello riformato la sentenza di primo grado ove questa afferma la carenza d'interesse ad impugnare la Delib. consiliare del 7 novembre 2001, nella parte in cui liquidava il cennato compenso di L. 400 milioni annui in favore di S P, per essere stata la stessa sostituita dalla successiva Delib. assembleare di identico contenuto. Vero è, al contrario, che la Corte espressamente conferma la statuizione del Tribunale su quel punto, mentre annulla per conflitto di interesse, riformando la sentenza di primo grado, una parte diversa della Delib. consiliare 7 novembre 2001, ossia la parte relativa alla liquidazione a favore dell'amministratore delegato di un compenso di L. 3 miliardi per l'attività pregressa. 4. - Con il quarto motivo di ricorso, denunciando vizio di motivazione e violazione di norme di diritto, si censura la statuizione della sentenza impugnata di annullamento delle menzionate Delib. consiliare e assembleare nella parte in cui liquidano il predetto compenso di L. 3 miliardi in favore di P S per l'attività di amministratore delegato svolta dal 1994 al 2001. La ricorrente osserva che:
a) dal verbale del consiglio di amministrazione del 7 novembre 2001 risulta chiaramente che era pacifico, per averlo dichiarato sia il sig. S P sia lo stesso presidente Francesco Saverio S, che il primo aveva ricevuto in precedenza il compenso di L. 600.000.000 annue a fronte del solo incarico di direttore generale e che per l'incarico di amministratore delegato il medesimo aveva percepito un compenso di soli L. 24 milioni all'anno, e ciò del resto risultava anche dalle buste paga e dalla contabilità sociale;

b) quanto alla asserita non contestazione dei dati di bilancio e di altre circostanze enunciate dagli appellati per dimostrare la sproporzione degli emolumenti attribuiti per il passato a P S, l'assunto della Corte d'appello - che così recita testualmente: "la corrispondenza la vero dei dati di bilancio e delle altre circostanze subb. 10/b, 10/c, 12) non è stata contestata" - è incomprensibile e privo comunque di qualsiasi riscontro in atti, dato che nella sentenza non è presente alcuna indicazione contrassegnata con i nn. 10/b e 10/c e quella di cui al n. 12 della stessa non ha alcuna attinenza con il tema in esame.
4.1. - Il motivo è inammissibile.
Il rilievo sub a), infatti, non è decisivo. La questione da decidere è se il voto favorevole dell'amministratore delegato Piero S alla Delib. consiliare relativa al suo compenso comportasse l'annullamento della medesima per conflitto di interesse del predetto, in quanto il compenso proposto era assolutamente sproporzionato. Ciò che conta, dunque, non è tanto quale il consiglio di amministrazione ritenesse essere (per il passato) il compenso corrisposto all'amministratore delegato, bensì quale esso fosse nella realtà (se sia, cioè, esatto o meno che, come affermato dalla Corte d'appello, Piero S aveva percepito il compenso di L. 600 milioni annui anche quale amministratore delegato. Quanto a tale profilo, però, la ricorrente, pur rubricando il motivo in esame quale deduzione di vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 e violazione delle norme codicistiche di ermeneutica
contrattuale, in concreto non articola alcuna specifica censura inquadrabile nei relativi schemi, ma resta sul piano della pura e semplice critica di merito.
Il rilievo sub b) rivela la mancanza di qualsiasi, pur doveroso sforzo di comprensione della sentenza impugnata. La quale effettivamente richiama punti della motivazione inesistenti (i punti 10/b e 10/c) o attinenti ad altre questioni (il punto 12);
e tuttavia non sarebbe stato difficile per la ricorrente comprendere che - come giustamente osservano i controricorrenti -si trattava di un semplice refuso e dunque i punti da prendere in considerazione erano i punti 13/b, 13/c e 15, nei quali si da atto delle considerazioni degli appellanti incidentali, critiche nei confronti della sentenza di primo grado quanto alla affermata non esorbitanza del compenso di L. 3 miliardi per l'attività di amministratore delegato svolta dal S negli anni dal 1994 al 2001, come segue:
il punto 13/b) contiene il rilievo che in quegli anni
l'indebitamento, pari a L. 23 miliardi nel 1994, era aumentato sino a L. 194 miliardi nel 2001, senza che il fatturato fosse corrispondentemente aumentato (essendo passato soltanto da L. 168 a 224 miliardi), e i risultati complessivi erano stati raggiunti iscrivendo nei ricavi ordinari partite straordinarie derivanti da controversie risalenti nel tempo, puntualmente indicate;

il punto 13/c) contiene il rilievo che nel periodo 1993-2000, a parte una commessa in Nigeria, non vi erano state altre acquisizioni di lavori e addirittura la società era passata, nella classifica delle maggiori imprese italiane stilata da Mediobanca, dal 358mo al 609mo posto;

il punto 15) contiene il rilievo che uno dei dati contabili tenuto in considerazione dal Tribunale per escludere la sproporzione del compenso in questione era costituito dalla definizione di un contenzioso per la costruzione delle dighe di Acerenza e Genzano, che però non poteva deporre in tal senso in quanto si trattava di un risarcimento di danni subiti in precedenza dalla società riguardo a lavori ultimati nel 1990 e nel 1994;
ne' potevano deporre nel medesimo senso i dividendi maturati dal 1993 al 2000 per circa L.20,5 miliardi, sia perché il premio di 3 miliardi in favore
dell'amministratore delegato avrebbe rappresentato ben il 15 % di essi, sia perché quei dividendi non erano solo il risultato di utili maturati dal 1993 al 2000, ma per ben 9 miliardi costituivano distribuzione di riserve e di utili realizzati in esercizi precedenti.
La censura della ricorrente è pertanto priva di effettivo riferimento alla sentenza impugnata.
5. - Il quinto motivo, con cui si denuncia nuovamente violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, attiene alla conferma della sentenza di primo grado sul capo relativo alla illegittimità dell'attribuzione al sig. P S di una remunerazione per l'attività di amministratore delegato nella misura del 3 % degli utili prima delle imposte. Secondo la ricorrente la Corte d'appello ha errato nel fare applicazione dell'art. 2432 c.c. - per il quale la partecipazione agli utili da parte dei promotori, soci fondatori o amministratori dev'essere invece computata sugli utili netti dedotta la quota di riserva legale - senza considerare che tale norma si riferisce ai soli "compensi", ai sensi dell'art. 2389 c.c., comma 1 spettanti per le generica attività di amministratore e la connessa responsabilità, mentre nella specie si trattava della "remunerazione" - variabile e parametrata agli utili di gestione - della particolare attività svolta dall'amministratore delegato, inquadrabile nel comma 2 del predetto articolo, dunque da computarsi sull'utile prima delle imposte, costituendo un costo per la società, e da attribuirsi con Delib. del consiglio di amministrazione. 5.1. - Le complessa censura non può essere accolta.
La qualificazione della remunerazione dagli amministratori "investiti di particolari cariche" (tale è pacificamente l'amministratore delegato) ai sensi dell'art. 2389 c.c., comma 2 (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma di cui al D.Lgs.17 gennaio 2003, n. 2006) quale corrispettivo della particolare
attività da essi svolta non è - come osservato dalla dottrina che ha approfondito la questione - affatto decisiva per escludere che a tale remunerazione, allorché sia attribuita in forma di partecipazione agli utili, si applichi la disciplina restrittiva di cui all'art. 2432 c.c.. Il ragionamento sotteso a tale esclusione è che la remunerazione, essendo un corrispettivo e dunque un costo, dev'essere deducibile dall'attivo, onde non può che essere calcolata sull'utile prima delle imposte, perché dopo le imposte (nonché la deduzione della riserva legale) non può più esservi deduzione di alcun costo. Ciò non è però esatto ove si applichi il criterio della cassa, anziché della competenza, come dimostra proprio la normativa fiscale prevedendo che "i compensi spettanti agli amministratori delle società in nome collettivo e in accomandita semplice sono deducibili nell'esercizio in cui sono corrisposti;

quelli erogati sotto forma di partecipazione agli utili sono deducibili anche se non imputati al conto dei profitti e delle perdite" (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 62, comma 3, T.U.I.R. nel testo - vigente all'epoca dei fatti per cui è causa - introdotto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 3, lett. c), applicabile anche agli amministratori di società di capitali in forza del richiamo operato dall'art. 95 T.U.I.R. nella versione originaria, anch'essa vigente all'epoca dei fatti di causa;
analoga formulazione è stata poi adottata direttamente dall'art. 95 cit., comma 5, come modificato dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344). Non vi è dunque ragione per non applicare alle "rimunerazioni" di cui all'art. 2389 c.c., comma 2 il criterio di calcolo - pacificamente applicabile ai "compensi" di cui al comma 1 - previsto dall'art. 2432 c.c. e ispirato a una ratio di tutela del capitale sociale
indubbiamente valevole sia per le une che per gli altri. La statuizione di annullamento della Delib. consiliare attributiva del compenso in questione, assunta dal Tribunale sul rilievo della incompetenza del consiglio di amministrazione e confermata dalla Corte d'appello sia in base a tale rilievo sia per l'accertato contrasto con il richiamato art. 2432 c.c., resta dunque confermata anche all'esito del presente scrutinio di legittimità per quest'ultima ragione, con conseguente assorbimento della questione della competenza - consiliare o assembleare - a deliberare sulle remunerazioni di cui all'art. 2389 c.c., comma 2 (nel testo anteriore alla riforma del 2003) adombrata nell'ultima parte del motivo in esame.
Per la medesima ragione resta confermata la statuizione di annullamento, in parte qua, della Delib. assembleare 6 maggio 2002 (impugnata sotto il profilo della violazione dell'art. 2432 c.c. e non sotto quello della incompetenza dell'organo che l'ha adottata). 6. - La sentenza impugnata va in conclusione cassata, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, con rinvio al giudice indicato in dispositivo affinché provveda sulla domanda di annullamento della Delib. assembleare 6 maggio 2002, nella sola parte relativa al riconoscimento in favore del sig. P S del compenso annuo di L. 400 milioni (essendosi invece formato il giudicato sulle deliberazioni della medesima assemblea relative agli altri compensi di cui si è detto), attenendosi al seguente principio di diritto: ai sensi dell'art. 2357 ter c.c., comma 2, - nel testo introdotto con il D.P.R. n. 30 del 1986 e anteriore alla modifica di cui al D.Lgs. n.224 del 2010 - la maggioranza assoluta necessaria per deliberare
all'assemblea ordinaria di una società per azioni in prima convocazione va calcolata sul solo ammontare delle azioni rappresentate dai soci partecipanti all'assemblea, senza tener conto delle azioni proprie di cui sia titolare la società.
È equo compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, considerata la novità della questione in relazione alla quale il ricorso viene accolto.

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