Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 11/04/2013, n. 8855
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In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 cod. civ., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. (Nella specie, relativa alla pretesa del dipendente di un istituto di credito di ottenere il risarcimento dei danni permanenti alla salute derivati da una serie di rapine compiute presso l'agenzia ove egli aveva prestato attività di addetto allo sportello bancario e dal trasferimento disposto dall'istituto in altra sede "notoriamente" soggetta a rapine, la sentenza di merito aveva respinto la domanda, sul presupposto che il lavoratore si fosse limitato ad allegare l'esistenza e l'entità del danno e il nesso causale fra questo e i fatti dedotti, senza porre a fondamento della domanda né la negligenza della banca circa la mancata adozione di misure di sicurezza idonee ad evitare le rapine, né l'illegittimità del trasferimento; la S.C., nel confermare la sentenza impugnata, ha affermato il principio su esteso).
Sul provvedimento
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. S P - Presidente -
Dott. C P - Consigliere -
Dott. D'ANTONIO Enrica - Consigliere -
Dott. B D - rel. Consigliere -
Dott. F G - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11062/2011 proposto da:
S L nato a ALTAMURA il 03/11/1947, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati REALE RAFFAELE, SBARRA ETTORE, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
INTESA SANPAOLO S.P.A. 00799960158, (quale incorporante il SANPAOLO IMI S.P.A.);
- intimata -
Nonché da:
INTESA SANPAOLO S.P.A. 00799960158, (quale incorporante il SANPAOLO IMI S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio TOFFOLETTO - DE LUCA TAMAJO, rappresentata e difesa dall'avvocato DE L T R che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
S L nato a ALTAMURA il 03/11/1947;
- intimato -
avverso la sentenza n. 5053/2010 della CORTE D'APPELLO di BARI, depositata il 27/10/2010 R.G.N. 2451/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/02/2013 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, inammissibilità dell'incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
S L ha agito nei confronti del Banco di Napoli, ora Intesa Sanpaolo s.p.a. (quale incorporante Sanpaolo Imi s.p.a.) per il risarcimento dei danni biologico, morale e alla vita di relazione che assumeva essergli derivati dalle numerose rapine di cui era stato vittima nell'espletamento della propria attività di addetto allo sportello bancario.
A sostegno della domanda aveva dedotto che, a seguito delle prime tre rapine, subite tra il 1972 e il 1981, la Banca lo aveva trasferito ad attività impiegatizie, dove era rimasto addetto per oltre quindici anni fino al marzo 1996 quando era stato trasferito presso l'agenzia di via Crispi di Bari;qui nell'ottobre 1996 era rimasto vittima di una quarta rapina;trasferito presso lo sportello Tesoreria della Regione Puglia di Bari aveva subito la quinta rapina nel maggio 1997;
dopo un'assenza dal lavoro per motivi di salute dal novembre 1997 al marzo 1998, essendogli stata diagnosticata una "ischemia coronarica" con successivo intervento chirurgico, aveva infine ottenuto il trasferimento all'Ufficio Fidi.
In primo grado la domanda veniva respinta con sentenza confermata dalla Corte di appello di Bari, la quale, disattesa l'eccezione di inammissibilità dell'appello per genericità dei motivi sollevata dalla parte appellata, respingeva nel merito il gravame osservando che in primo grado S L aveva fondato la propria domanda sulla pretesa illegittimità del trasferimento del marzo 1996, da lui definito "inspiegabile", mentre in appello aveva prospettato anche altre violazioni, quali l'inadeguatezza dei sistemi di sicurezza e la condotta della Banca che aveva tardato nel disporre il mutamento delle mansioni;l'appellante aveva così operato una inammissibile mutatio libelli, incidente sulla causa petendi della domanda risarcitoria;quanto al trasferimento, non vi erano elementi per ravvisare una colpa datoriale, non essendo a tal fine sufficiente il mero rilievo della rischiosità dell'attività bancaria. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso S L sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso Intesa San Paolo s.p.a. che propone a sua volta ricorso incidentale, seguito altresì da memoria ex art. 378 c.p.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente principale, denunciando violazione di legge in relazione all'art. 420 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 3), censura la sentenza per avere ritenuto inammissibile l'allegazione relativa alla tardiva rideterminazione delle mansioni, mentre sin dal ricorso introduttivo egli aveva dedotto di avere più volte richiesto di essere adibito a mansioni che non lo esponessero al rischio di rapine e tale richiesta era stata soddisfatta solo nel maggio 1998, dopo la quinta rapina subita;anche in merito alla mancata predisposizione di misure di sicurezza, le allegazioni originarie tendevano a denunciare non tanto il mancato allestimento di sistemi tecnologici, quanto l'inosservanza del più generale obbligo di diligenza di cui all'art. 2087 c.c., gravante sull'imprenditore, che è tenuto ad apprestare ogni misura che l'esperienza fa ritenere necessaria a salvaguardare l'integrità fisica del dipendente. Pertanto, il thema decidendum era stato già compiutamente delineato sin dall'atto introduttivo del giudizio ed era insussistente la ritenuta mutatio libelli.
Con il secondo e il terzo motivo si denuncia vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione di legge in merito ai fatti costitutivi dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c., e al relativo regime probatorio (art. 360 c.p.c., n. 3). Si deduce la contraddittorietà della sentenza nella parte in cui aveva dapprima affermato che la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte per poi ritenere insufficienti le allegazioni della responsabilità colposa nei termini in cui erano state formulate dal ricorrente. La Corte d'appello non aveva correttamente applicato i consolidati principi giurisprudenziali in tema di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.. Specificamente, gli ultimi due trasferimenti, disposti presso sedi bancarie notoriamente esposte al rischio di rapine, costituivano comportamenti rilevanti ai fini del riconoscimento della suddetta responsabilità, di natura contrattuale.
Intesa Sanpaolo s.p.a., con unico motivo del ricorso incidentale, denuncia l'erroneo rigetto dell'eccezione di inammissibilità dell'appello per genericità dei motivi ex artt. 434 e 342 c.p.c., rilevando che l'appellante non aveva mosso specifiche censure ai singoli passaggi logico-giuridici della sentenza di primo grado. Preliminarmente, vanno riuniti i ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Quanto all'ordine delle questioni da esaminare, le Sezioni unite di questa Corte hanno precisato che, anche alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, secondo cui fine primario di questo è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita (ove quest'ultima sia possibile) da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza dell'attualità dell'interesse, sussistente unicamente nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale (Cass., sez. un. 6 marzo 2009 n. 5456;conf. Cass. sez. un., 4 novembre 2009 n. 23518). Nella specie, il giudice del merito ha esplicitamente pronunziato sull'eccezione di inammissibilità del ricorso in appello e il ricorso incidentale della soc. Intesa Sanpaolo, totalmente vittoriosa nel merito, verte unicamente su tale questione pregiudiziale di rito. Di conseguenza, il ricorso incidentale deve essere esaminato nel solo caso in cui il ricorso principale venga accolto. Diversamente, esso deve essere considerato assorbito, quale ricorso incidentale condizionato, a seguito del rigetto del principale. Il ricorso principale è infondato.
Occorre accennare preliminarmente allo sviluppo processuale. Nella sentenza di primo grado il Tribunale aveva osservato che la domanda risarcitoria si incentrava sul trasferimento di sede lavorativa disposto dalla Banca nel marzo 1996 e al riguardo aveva ritenuto generica l'allegazione relativa alla violazione delle prescrizioni di cui all'art. 2087 c.c., prospettata sulla base del solo rilievo della "inspiegabile adibizione del lavoratore presso una sede lavorativa notoriamente esposta al rischio di rapine", ed aveva richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui la responsabilità datoriale ai sensi della norma citata non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti, atteso che nel nostro ordinamento non ha cittadinanza il principio delle responsabilità oggettiva, che, ove applicabile, solleciterebbe l'aberrante conseguenza dell'ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile. Sulla scorta di tali considerazioni aveva osservato che occorreva verificare se la condotta datoriale potesse avere integrato gli estremi della colpa;a tale quesito aveva dato risposta negativa osservando che gli eventi correlabili al trasferimento di sede lavorativa esorbitavano dalla sfera di prevedibilità e di evitabilità cui doveva correlarsi il giudizio di colpa;ne' a diverse conclusioni poteva pervenirsi sulla base del "fatto notorio" dell'essere l'agenzia di destinazione sottoposta a rischio di rapine, poiché, in difetto (quanto meno) di allegazioni circa una condotta datoriale colpevole per la mancata adozione di adeguati mezzi di prevenzione atti a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori, la prospettazione sottesa alla domanda si risolveva nel carattere di rischio oggettivamente intrinseco all'esercizio dell'attività bancaria.
A tali argomenti l'appellante aveva opposto che l'allegazione di pericolosità della sede lavorativa di assegnazione, notoriamente esposta a rischio di rapine, implicava anche una contestazione riferibile alla inadeguatezza degli strumenti di tutela e di prevenzione predisposti dalla datrice contro i rischi relativi alla sicurezza e alla salute dei lavoratori e alla omissione dell'esercizio dei poteri di controllo e vigilanza che di tali misure fosse fatto effettivamente uso. Inoltre, era desumibile dal ricorso introduttivo l'ulteriore allegazione del ritardo con cui la Banca lo aveva definitivamente adibito a mansioni diverse da quelle di sportellista, nonostante i suoi reiterati solleciti. I giudici di appello hanno qualificato come nuove, e dunque inammissibili ex art. 437 c.p.c., comma 2, le circostanze prospettate per la prima volta con l'atto di impugnazione, che valevano a costituire un mutamento della domanda originaria implicando un ampliamento del tema di indagine e di decisione. Tale statuizione è conforme a diritto.
È configurabile un mutamento della causa petendi, con conseguente introduzione di una domanda nuova, quando il fatto costitutivo della pretesa sia modificato nei suoi elementi materiali e quindi non sia in questione solamente una diversa qualificazione giuridica (Cass. n. 12460 del 2003, n. 20265 del 2005). Il fatto costitutivo del diritto fatto valere dall'attuale ricorrente, originariamente circoscritto al trasferimento disposto dalla Banca nel marzo 1996, in sè considerato - ritenuto fonte di responsabilità diretta ex art. 2087 c.c., sulla base della considerazione che la sede lavorativa di assegnazione era connotata, per fatto notorio, da un elevato rischio di rapine - è stato modificato nei suoi elementi materiali (e non soltanto secondo una mera diversa prospettazione o qualificazione dell'originaria pretesa) mediante l'introduzione - per la prima volta in appello - di nuovi fatti (di natura omissiva) con ampliamento del thema decidendum rispetto a quello delineato in precedenza. Tali allegazioni integravano un mutamento dei termini della controversia e un'alterazione dell'oggetto sostanziale, introducendo nel materiale di causa circostanze sulle quali non si era instaurato il contraddittorio in primo grado.
Nè vale a superare il divieto di nova in appello il rinvio alla descrizione della vicenda lavorativa contenuta nella parte espositiva del ricorso introduttivo, non spettando al giudice estrapolare dalla narrativa dei fatti gli elementi giuridicamente rilevanti da porre a fondamento della domanda. Spetta al lavoratore l'allegazione dell'omissione commessa dal datore di lavoro nel predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno, non essendo sufficiente la generica deduzione della violazione di ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di fare scadere una responsabilità per colpa in una responsabilità oggettiva. L'art.2087 c.c., non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in
quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (v. ex plurimis, da ultimo, Cass. 29 gennaio 2013 n. 2038). Questa Corte ha precisato in diverse occasioni che la parte che subisce l'inadempimento, pur non dovendo dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 c.c., è il datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - è tuttavia soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Il suddetto principio è stato ribadito, con la sentenza n. 14469 del 2000, anche in una fattispecie del tutto analoga a quella in esame in quanto avente ad oggetto la pretesa del dipendente di un istituto di credito di ottenere il risarcimento dei danni permanenti alla salute derivati da una serie di rapine compiute presso l'agenzia ove egli aveva prestato attività di cassiere e dal trasferimento in altra sede disposto dall'istituto (in tale controversia il lavoratore si era limitato ad allegare l'esistenza e l'entità del danno e il nesso causale fra questo e i fatti dedotti, senza allegare ne' la negligenza della banca circa la mancata adozione di misure di sicurezza idonee ad evitare le rapine ne' l'illegittimità del trasferimento;la sentenza di appello, di rigetto della domanda del lavoratore, è stata confermata in sede di legittimità). Dunque, correttamente la Corte territoriale ha qualificato come mutatio libelli l'introduzione in appello di nuove allegazioni di fatto e di diritto, da considerare inammissibili ed estranee all'ambito della cognizione devoluta al giudice del gravame. Quanto al trasferimento di sede lavorativa disposto dalla Banca nel marzo 1996, ha indicato le ragioni per le quali l'onere gravante sul lavoratore non era stato assolto, essendo insufficiente il generico riferimento al carattere notorio del rischio di rapine della sede di assegnazione in assenza di qualsiasi indicazione circa la violazione di specifici obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze settoriali del momento. In via generale, va ribadito che la disposizione di cui all'art. 2087 c.c., si qualifica alla stregua di norma di chiusura del sistema
antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all'imprenditore l'obbligo di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti con l'adozione - ed il mantenimento perfettamente funzionale - non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla sua lesione nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad eventi pur se allo stesso non collegati direttamente, come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza periodica assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese, quali le Banche, ed alla probabilità in tempi sempre più ravvicinati di concretizzazione del conseguente rischio;
atteso che detti eventi non sono coperti specificamente dalla tutela antinfortunistica di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, e giustificandosi l'interpretazione estensiva della cennata norma sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia per il principio di correttezza e buona fede (artt. 1115
e 1375 c.c.) cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, pur se nell'ambito della generica responsabilità extracontrattuale (od aquiliana), ex art. 2043 c.c. in tema di neminem laedere (v. in tal senso, Cass. n. 8422 del 1997, richiamata anche dalla Corte di appello nella sentenza impugnata). Peraltro, proprio alla luce di tali considerazioni e in applicazione di siffatti principi, quale naturale corollario degli stessi, esula ogni aspetto di responsabilità qualora il datore di lavoro abbia correttamente ed esaustivamente adempiuto a detti obblighi, sicché non sia possibile ravvisare a suo carico alcun margine od elemento di colpa, con rigoroso onere probatorio su di lui incombente (nel caso esaminato nella sentenza n. 8422/97, i giudici di merito aveva riscontrato la predisposizione di misure di sicurezza efficaci per la prevenzione del rischio derivante ai dipendenti da azioni criminose di terzi, quali la installazione di doppie porte con apertura alternata e comando di blocco automatico, di vetri antisfondamento ed antiproiettile, di porta antiproiettile con apertura a comando elettrico, di impianti sofisticati videoregistratori, nonché la vigilanza a mezzo guardia giurata, secondo i contratti integrativi aziendali succedutisi temporalmente nel settore).
Nè, d'altronde, la pur lata ed estesa responsabilità datoriale, come delineata dall'ampio contenuto della norma di riferimento (art.2087 c.c.), può essere dilatata fino a comprendere ogni ipotesi di
danno ai dipendenti, pur se in conseguenza di eventi incolpevoli, sostenendosi che, comunque, il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, che, in tal modo opinando, si perverrebbe alla abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva ancorata al presupposto teorico che qualsiasi rischio possa essere evitato, pur se esorbitante da ogni umana prevedibilità e vanificante l'adozione delle misure più sofisticate ed all'avanguardia secondo lo sviluppo tecnico attuale, e ciò in base all'assunto dogmatico che il verificarsi dell'evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento, atteso il superamento criminoso di quelli in concreto adoperati (Cass. 12 marzo 1997 n. 8422 e, negli stessi termini, Cass. 5 dicembre 2001 n. 15350;v. pure Cass. n. 11710 del 1998). La Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra riferiti e qui nuovamente ribaditi, con accertamento di fatto immune da qualsiasi vizio logico. Pertanto anche il secondo e il terzo motivo di ricorso sono infondati. Resta assorbito l'esame del ricorso incidentale.
Le spese del giudizio di legittimità sono regolate in applicazione del principio della soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.