Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 05/06/2004, n. 10724

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 05/06/2004, n. 10724
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 10724
Data del deposito : 5 giugno 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. M E - Presidente -
Dott. L F - Consigliere -
Dott. M F. A - Consigliere -
Dott. G C - Consigliere -
Dott. B B - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RETE FERROVIARIA ITALIANA s.p.a. (già "Ferrovie dello stato" s.p.a.), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. A M, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma alla via Faravelli 22, giusta procura a margine del ricorso;



- ricorrente -


contro
RNO PASQUALE, DE BELLIS ALFONSO e SPOSITO DI LUCIA VINCENZO, rappresentati e difesi dall'avv. G M ed elettivamente domiciliati in Roma alla via Col di Lana 28 (presso lo studio dell'avv. C P), giusta procura in calce al controricorso;



- controricorrenti -


e
MICCOLI LIBERATO (non costituito);



- intimato -


avverso la sentenza della Corte di Appello di Salerno-Sezione Lavoro n. 290/01 del 4 maggio 2001 (resa nel giudizio di appello avente il n. di r.g. 853/2000).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18 febbraio 2004 dal Consigliere Dott. B B;

Udito l'avv. F R B (per delega dell'avv. A Maresca);

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

NAPOLETANO

Giuseppe, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. il Pretore-Giudice del Lavoro di Nocera Inferiore L M, P R, A D B e V S D L convenivano in giudizio la s.p.a. Ferrovie dello Stato - alle cui dipendenze prestavano servizio - esponendo che, avendo svolto nel periodo 1^ gennaio 1993/31 dicembre 1995 lavoro straordinario, lo stesso era stato retribuito in misura inferiore a quanto spettante in quanto non erano stati inclusi aumenti retributivi maturati per i sopravvenuti miglioramenti contrattuali;
chiedevano, pertanto, che la convenuta società venisse condannata al pagamento delle relative differenze retributive. Si costituiva in giudizio la s.p.a. Ferrovie dello Stato che impugnava integralmente la domanda attorea deducendo che il lavoro straordinario espletato dai ricorrenti era stato correttamente retribuito nel pieno rispetto della normativa in materia concernente il "blocco" dello straordinario nella misura prevista per l'anno 1992.
L'adito Giudice del lavoro accoglieva la domanda e - su impugnativa della parte soccombente e ricostituitosi il contraddittorio -la Corte di Appello di Salerno-Sezione Lavoro rigettava l'appello e compensava tra le parti le spese del grado.
Per quanto rileva ai fini del presente giudizio la Corte territoriale ha rimarcato che: a) "con la sentenza n. 242/1999 la Corte Costituzionale ha fornito, a dispetto di tutte le censure ad essa mosse, 'l'interpretazione dell'art. 7, 5^ comma del decreto legge 384/92 (convertito, con modificazioni, nella legge 438/92) conforme
ai precetti costituzionali', che, come tale, non può non essere recepita, in mancanza di altra diversa interpretazione anch'essa conforme a Costituzione o di elementi nuovi che impongano la riproposizione della questione di costituzionalità della norma stessa";
b) "la norma, oggetto della verifica costituzionale - certamente applicabile anche alle Ferrovie in quanto il comma primo elenca tra i destinatari il personale dipendente 'degli enti, delle aziende o societa' produttrici di servizi di pubblica utilità' - ha per principale destinatario il ben più vasto settore del pubblico impiego, risulta che in nessun comparto del pubblico impiego sia stata adottata l'interpretazione sostenuta dalle Ferrovie dello Stato: invero, venuto meno il blocco della contrattazione, ovunque sono stati concessi gli aumenti ed in tutti i contratti si è esplicitamente stabilito che tali aumenti avevano effetto, tra l'altro, sul compenso per lavoro straordinario, che, pertanto, non è stato considerato bloccato nella misura del '92";
c) "a cospetto della decisione della Corte Costituzionale, e soprattutto della interpretazione della norma in esame come di quella conforme ai precetti costituzionali, al giudice e' assolutamente preclusa l'adozione dell'interpretazione sospettata di incostituzionalità e della Corte ritenuta tale, con la conseguenza che l'interpretazione propugnata dalla società, che è proprio quella che la Corte ha scartato come affetta da incostituzionalità, deve essere disattesa";

d) "in ordine al calcolo del compenso per lavoro straordinario, nel rispetto dell'art. 2108 cod. civ. (norma indubbiamente applicabile alle Ferrovie dopo la privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti, senza che rilevi, nella specie, l'artificiosa costruzione fatta dalla società circa la distinzione fra lavoro straordinario vero e proprio e quello e supplementare, dal momento che lo straordinario è il lavoro prestato oltre l'orario contrattuale e la norma fa riferimento al prolungamento dell'orario normale) detto emolumento va compensato con un aumento di retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario". Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. Rete Ferroviaria Italiana, ut supra, propone ricorso affidato a due motivi. Gli intimati P R, A D B e V S D L resistono con controricorso, mentre l'intimato L M non si è costituito in giudizio.
Le parti costituite hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE
1^ - . Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente - denunciando "violazione dell'art. 12 della disp. legge in generale", in relazione all'art. 7 (comma primo e quinto) del d.l. n. 384/1992 (convertito nella legge n. 438/1992), all'art. 3 (comma 36^) della legge n. 537/1993 ed all'art. 1 (comma 66^) della legge n. 662/1996, nonché per vizio di motivazione" - rileva che "l'attenta interpretazione letterale e sistematica, operata con riferimento alle regole di cui all'art. 12 cit., delle norme summenzionate, accompagnata dalla corretta considerazione del dato teleologico, conduce necessariamente a ritenere che la stessa abbia inteso bloccare qualsiasi aumento di tutti quei compensi che, come quello per lavoro straordinario, hanno nel loro computo l'indennità integrativa speciale (o altre forme di automatismi), poiché, a ritenere diversamente, la norma verrebbe privata di qualsiasi efficacia, risultando frustrato definitivamente l'incontestabile obiettivo di contenere il costo del lavoro, per nulla considerato nella pronuncia impugnata" ed addebita alla Corte territoriale di essere pervenuta a tale errata decisione "mediante una motivazione gravemente insufficiente atteso che essa si limita ad una acritica adesione alla decisione n. 242/1999 della Corte Costituzionale (peraltro falsamente interpretata)".
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente - denunciando "omessa motivazione su punto decisivo e violazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ., nonché degli artt. 2108 cod. civ. e 1 del r.d.l. n. 692/1923, in relazione dell'art. 5 del c.c.n.l. 18 novembre 1994" -
censura la sentenza impugnata per non avere la Corte di Appello di Salerno considerato che: a) "la norma codicistica dell'art. 2108 cod. civ., nel caso delle Ferrovie, trova applicazione, dal punto di vista
della necessaria maggiorazione, solo al di sopra dei limiti di orario massimo di lavoro posti dalla normativa legale speciale di settore, disattendendo così la conclusione, che la contrattazione collettiva non incontra, nel caso di lavoro supplementare, il limite di una necessaria maggiorazione del compenso per lavoro supplementare rispetto al compenso per il lavoro ordinario: ciò perché la regola dell'art. 2108 cod. civ. non è sufficiente da sola a rendere maggiormente retribuibile l'orario di lavoro allorquando questo sia stato prestato tra l'orario contrattuale più basso e il limite delle 48 ore, (eventualità questa, regolamentata solo dai contratti collettivi)";
b) "l'attenta interpretazione letterale e sistematica della norma in esame, accompagnata dalla corretta considerazione del dato teleologico, conduce necessariamente a ritenere che la stessa abbia inteso bloccare qualsiasi aumento di tutti quei compensi che, come quello per lavoro straordinario, hanno nel loro computo l'indennità integrativa speciale (o altre forme di automatismi)";
c) "le parti contrattuali hanno voluto prevedere la ultrattività, ai fini del computo del compenso per il lavoro straordinario, della retribuzione convenzionale prevista dal c.c.n.l. 1990/1992";
d) "la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1932/2002, ha ritenuto illegittimo, per contrasto con gli artt. 1362 e seguenti cod. civ., una interpretazione giudiziale dell'art. 5, punto 6, del c.c.n.l., 18 novembre 1994 nel senso che gli importi "attuali" siano quelli
vigenti alla data dell'accordo, cioè tenendosi conto della retribuzione convenzionale del 1994 e non, come corretto, di quella del 1992".
2^/a - . Per la valutazione delle complesse censure formulate dalla società ricorrente - esaminabili congiuntamente in quanto interdipendenti ed intrinsecamente connesse - è necessario evidenziare ante omnia che questa Corte, con ordinanza del 7 marzo 2002, ebbe a sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 7 (quinto comma) del d.l. a n. 384/1992 cit. nella parte in cui lo stesso - disponendo che "tutte le indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere, comprensivi, per disposizioni di legge o atto amministrativo previsto dalla legge o per disposizione contrattuale, di una quota di indennità integrativa speciale di cui alla legge n. 324/1959, e successive modificazioni, o dell'indennità di contingenza prevista per il settore privato che siano, comunque, rivalutabili in relazione alla variazione del costo della vita", debbano essere corrisposti "per l'anno 1993 nella stessa misura dell'anno 1992" - produceva il risultato ovvero consentiva che il lavoro straordinario prestato dai dipendenti delle Ferrovie dello Stato fosse retribuito in misura inferiore al lavoro ordinario o comunque non garantisse "un compenso proporzionato alla maggiore penosità del lavoro protratto oltre i limiti dell'orario normale" e che - con sentenza n. 470/02 del 20/22 novembre 2002 - la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la cennata questione di legittimità costituzionale.
2^/b - . Occorre, altresì, premettere - in linea generale - che l'orario di lavoro trova la sua disciplina nel vetusto r.d.l. 15 marzo 1923 n. 692 ("Limitazioni dell'orario di lavoro per gli operai
ed impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura"), convertito nella legge 17 aprile 1925 n. 473, che ha stabilito l'orario "massimo normale di lavoro", fissandolo - per gli operai ed impiegati nelle aziende industriali e commerciali di qualunque natura - in otto ore al giorno o in quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo (art. 1, primo comma, del r.d.l. cit.);
ha previsto, solo per i lavori agricoli e per i lavori per i quali ricorrano esigenze tecniche o stagionali, la ripartizione dell'orario massimo normale "su periodi ultrasettimanali prevedendo cioè la possibilità di superare le otto ore giornaliere o le quarantotto ore settimanali purché la durata media del lavoro - entro determinati periodi - non ecceda i limiti stabiliti con appositi decreti" (art. 4 del r.d.l. cit.);
legittima, infine, su accordo della parti, l'aggiunta "alla giornata normale di lavoro" di un periodo di straordinario che non superi le due ore al giorno e le dodici ore settimanali od "una media equivalente entro un periodo determinato" a condizione in ogni caso che il lavoro straordinario venga computato a parte e retribuito con un aumento di paga non inferiore al 10% (art. 5 del cit. r.d.l.).
Solo di recente, in ragione dell'esigenza di adeguare il nostro sistema ordinamentale a quello degli altri stati della Comunità Europea, si è avuta una parziale modifica della disciplina ora descritta. E così, in primo luogo, con l'art. 2, commi 18^-21^, della legge 28 dicembre 1995 n. 549, si è stabilito che si considera lavoro straordinario (seppure ai soli fini contributivi) per rutti i lavoratori (ad eccezione del personale direttivo) quello che ecceda le quaranta ore settimanali e quello che eccede la "media" di quaranta ore settimanali nel caso di regimi di orario plurisettimanale previsti dai contratti collettivi nazionali, ovvero in applicazione di questi ultimi, dai contratti collettivi di livello inferiore purché il periodo di riferimento non superi dodici mesi (art. 12, comma 8^, della legge n. 549 cit.). Inoltre, con l'art. 13, della legge n. 196/1997, il legislatore, senza nulla statuire in
relazione all'orario normale massimo giornaliero, ha fissato per tutti i comparti lavorativi il solo limite di orario normale di lavoro pari a quaranta ore settimanali e, introducendo una maggiore flessibilità nella gestione dell'orario (flessibilità imposta dalle nuove esigenze tecnico-produttive), ha stabilito pure che la contrattazione collettiva può assumere il predetto limite settimanale come durata media rispetto ad un periodo massimo di un anno, prevedendo così - uniformemente alla direttiva comunitaria n. 104 del 1993 (ed al successivo "avviso comune delle parti sociali" del 12 novembre 1997) - l'intervento delle parti sociali per fissare orari di lavoro (c.d. "lavoro multiperiodale") anche superiori alle quaranta ore settimanali, purché nell'arco del periodo di riferimento sia in ogni caso mantenuta la media delle quaranta ore settimanali. Infine, con il d.l. 29 settembre 1998 n. 335 (convertito con modificazioni nella legge 20 novembre 1998 n. 409), in attesa di una organica e esauriente disciplina sull'orario di lavoro, il legislatore ha stabilito che le imprese, in assenza di diversa disciplina dei contratti collettivi, possano far effettuare lavoro straordinario per duecentocinquanta ore annuali e per ottanta ore trimestrali.
Il richiamo alla più recente normativa appare opportuno - a parte la questione della sua dubbia parziale applicabilità alla fattispecie in esame - perché contribuisce a chiarire lo stesso ambito applicativo delle citate disposizioni del r.d.l. del 1923 e dei principi inderogabili in materia di gestione dell'orario di lavoro, con l'individuazione di alcune fondamentali regole che, per essere funzionalizzate alla tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore costituzionalmente garantita (cfr. art. 36, commi 2^ e 3^, Cost.), non possono essere derogate ne' dai titolari del singolo rapporto lavorativo ne' delle stesse parti sociali con la contrattazione collettiva (Cass. 4 dicembre 2000 n. 15419, con rinvio alla parte motivazionale giusta il testo di seguito riportato espressamente).
Da una lettura logico-sistematica dell'intero assetto normativo può, quindi, evincersi che è da considerare la settimana di calendario come regola generale su cui parametrare il rispetto dell'orario normale massimo sia in relazione alla singola giornata lavorativa sia in relazione alla intera settimana lavorativa - come constatato, rispettivamente otto e quarantotto ore di lavoro effettivo ex art. 1 del r.d.l. n. 692/1923 - (Cass. 6 dicembre 1991 n. 13144).
L'esattezza di questo assunto è desumibile anche dalla considerazione che, da un lato, l'art. 4 del r.d.l. n. 692/1923 lascia alla contrattazione collettiva la possibilità di fissare periodi di computo ultra-settimanali (disancorando così il computo dell'orario massimo normale dell'abituale parametro della settimana di calendario), e, dall'altro lato, dal successivo art. 5, che nel regolare il lavoro straordinario mostra di riferirsi sempre ed unicamente ad uno stesso ed unico arco temporale, che, ripetesi, non può che identificarsi nella settimana che va dal lunedì al giorno di riposo.
Come si è rilevato, allo stato, l'art. 13 della legge n. 196/1997 consente che, in tutti i comparti, le parti sociali possano regolamentare l'orario massimo normale di lavoro anche al di là della settimana di calendario, fissando in 40 ore la media dell'orario settimanale nell'ambito di un periodo di riferimento non superiore, in alcun caso, all'anno.
L'espressa previsione di una siffatta regolamentazione, corollario dell'autonomia collettiva e della valorizzazione del ruolo del sindacato come il soggetto più idoneo a conciliare, nella gestione dell'orario del lavoro, le esigenze dell'impresa con quelle dei lavoratori, non deve indurre a ritenere che sotto la vigenza della antica disciplina non fosse consentita alla contrattazione collettiva, in ragione delle particolari e specifiche esigenze del singolo settore produttivo, fissare, da un lato, un orario normale massimo lavorativo al di sotto delle quarantotto ore settimanali e delle otto ore giornaliere, e parametrare l'orario così individuato all'interno di una settimana non coincidente con quella di calendario, ma invece con quella corrente da un riposo ad un altro o anche con un periodo più lungo. È evidente però che la
legittimità di tale contrattazione collettiva trovava i suoi limiti nel rispetto continuo e costante, e cioè in ogni singola giornata di esecuzione dell'attività lavorativa ed in ogni periodo di sette giorni lavorativi, di quei limiti temporali (appunto ore otto giornaliere e quarantotto settimanali), la cui osservanza è stata posta dal legislatore a garanzia di salute del lavoratore, come è attestato anche dalle condizioni richieste per Io straordinario e dai limiti quantitativi del suo svolgimento (due ore al giorno e dodici settimanali).
Del resto già da tempo, e precisamente a partire dagli "anni settanta", la contrattazione collettiva aveva finito per generalizzare un limite di quaranta ore settimanali, poi ulteriormente abbassato per alcune categorie (ad es. 37,5 ore nei settori del credito e delle assicurazioni) o con contratti aziendali (ad esempio 36 ore in molte aree del settore tessile), anche attraverso l'utilizzazione dei permessi per ragioni personali: così veniva operata una derogabilità in melius in relazione a quanto stabilito dalla previsione legale in attuazione della regola codicistica che attribuisce, oltre che alle leggi speciali, anche alla contrattazione collettiva l'indicazione dei limiti massimi di "durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro" (art. 2107 cod. civ.). Il principio dell'ammissibilità di condizioni più favorevoli ad opera della contrattazione collettiva è ora prevista espressamente nella materia in oggetto essendosi, appunto, statuito che "i contratti collettivi possono stabilire una durata collettiva minore" di quella prevista per legge (art. 13, primo comma, della legge n. 196/1997), con la conseguente legittimità di una fissazione
convenzionale dell'orario normale settimanale in termini ridotti rispetto all'orario legale delle quaranta ore e con l'ulteriore effetto di permettere il rispetto del limite convenzionale con il criterio della media multiperiodale, sempre però nella salvaguardia delle otto ore giornaliere, il cui limite non è consentito alla contrattazione collettiva derogare in ragione della rilevanza costituzionale della durata massima della giornata lavorativa (art. 36, secondo comma, Cost.) e dovendosi il limite dell'orario
giornaliero e quello dell'orario settimanale considerare autonomi e non invece alternativi (cfr. al riguardo: Cass. 29 gennaio 1999 n. 817;
Cass. 2 agosto 1996 n. 6995;
Cass. 15 novembre 1985 n. 5616;
Cass. 20 aprile 1983 n. 2729). Orbene, il fatto che la contrattazione collettiva e la più recente normativa del settore - in ragione di una maggiore flessibilità - abbiano comportato una diversa modulazione del lavoro su di un arco temporale multiperiodale, comporta che il superamento dell'orario contrattualmente definito come "normale" in un periodo più ristretto (giorno o settimana), non può far considerare le ore "eccedenti" come lavoro straordinario dal punto di vista legale;
donde la inapplicabilità dell'intera normativa - anche attuativa dell'art. 4 della Carta sociale europea, ratificata con legge 9 febbraio 1999 n. 30 - avente ad oggetto il compenso per lo straordinario strictu sensu
inteso.
2^/c - . Più in particolare, con riferimento specifico alla questione dibattuta nel presente giudizio, si rileva che il quadro normativo di contenimento della spesa per il personale del c.d. "pubblico impiego allargato" è costituito dal settimo comma dell'art, 2 del d.l. n. 333/1992 (convenite, con modificazioni, nella
legge n. 359/1992) - il cui scopo era quello di evitare comunque il superamento del tasso programmato di inflazione sicché il divieto riguardava non solo l'adozione di nuovi provvedimenti di aumenti "in materia di retribuzione e normazione del personale dipendente", ma anche l'attuazione di incrementi retributivi già contrattati" - e dai primo e quarto commi dell'art. 7 del d.l. n. 384/1992 (convertito, con modificazione, nella legge n. 438/1992) - secondo cui il fatto che il cennato art. 7 fosse intitolato "misure, in materia di pubblico impiego, non impediva che le disposizioni con esso dettate si riferissero anche ad enti non ricompresi fra gli enti pubblici in senso stretto (Cass. n. 5719/1999, Cass. n. 1996/2002 e, implicitamente, su tale punto Corte Cost. 242/1999) -. A conferma della conclusione testè enunciata occorre ulteriormente rimarcare - per contrastare funditus le argomentazioni alla base della decisione a cui è pervenuto il Giudice di appello nella sentenza impugnata - che già il primo comma dell'art. 7 cit. estende la sua efficacia "al personale comunque dipendente da enti pubblici non economici, nonché a quello degli enti, delle aziende o società produttrici di servizi di pubblica utilità", tanto che questa Corte ha avuto occasione di precisare che il blocco degli incrementi retributivi previsto da tale comma riguarda anche gli "enti autonomi portuali", ai quali, pertanto, devono ritenersi inconcedibili, per tutto l'anno 1993, i miglioramenti economici previsti da contratti collettivi (se non nella misura forfetariamente stabilita di lire 20.000 mensili) e gli incrementi retributivi conseguenti ad automatismi stipendiali (Cass. n. 10084/2000). La formulazione del quinto comma, che indubbiamente ha una portata minore del "blocco" disposto dal primo comma, lascia chiaramente intendere che la corresponsione, per l'anno 1993, di indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere, comprensivi, per legge, atto amministrativo o disposizione contrattuale, di una quota di indennità integrativa speciale o dell'indennità di contingenza o, comunque, rivalutabili in relazione alla variazione del costo della vita, nella stessa misura dell'anno 1992, non può non riguardare tutto il personale individuato con il primo comma.
La conclusione è confortata dalla considerazione del fine di "risanamento della finanza pubblica", avviato con il d.l. n. 333/1992 (convertito nella legge n. 359/1992), proseguito con il d.l. n. 384/1992 e con le c.d. "leggi finanziarie" del 1994 e del 1996 - che
hanno prorogato le disposizioni dei commi quinto e sesto dell'art. 7 del d.l. n. 384/1992 dapprima al triennio 1994/1996 (art. 3, comma 36^, della legge n. 537/1994), poi al triennio 1997/1999 (art. 1,
comma 66^, della n. 662/1996) -: per cui impedire ai lavoratori delle aziende o società produttrici di servizi di pubblica utilità di stipulare nuovi accordi economici collettivi - congelando per il 1993 la disciplina anche contrattuale vigente - ed esonerarli, invece, dal blocco della crescita automatica (per effetto di meccanismi di indicizzazione) disposto dal quinto comma, sarebbe risultato quanto meno contraddittorio, considerata la ricordata ratio della normativa summenzionata.
La fissazione di tetti di spesa per la finanza pubblica non può non estendersi a tutti quegli enti - quale ne sia la loro formale qualificazione giuridica - dei quali lo Stato mantenga, quale unico azionista, la gestione e le responsabilità economiche e finanziarie (così Cass. n. 1996/2002 cit.). 2^/d - . L'applicabilità del quinto comma dell'art. 7 del d.l. n. 384/1992 non esaurisce, peraltro, la questione affrontata nel
giudizio in esame, in quanto alla tesi sostenuta sostanzialmente dalla società ricorrente - a mente della quale la cennata disposizione contiene "le indennità, i compensi, le gratifiche e gli emolumenti di qualsiasi natura, in quanto comprensivi di indennità integrativa speciale, indennità di contingenza o, comunque rivalutabili in relazione al costo della vita", sicché l'applicazione della disposizione comporta il congelamento ai valori del 1992 dell'"intera misura di tali emolumenti" - si contrappone quella dei controricorrenti e sostenuta dal giudice di appello nella sentenza impugnata - secondo cui l'interpretazione della norma de qua, ove fosse così intesa, si porrebbe in contrasto con l'art. 36 della Costituzione, in quanto bloccare l'intera misura della quota
oraria dovuta per lo straordinario e non la sola parte di essa soggetta a rivalutazione economica sarebbe irrazionale considerando che il blocco della retribuzione base, disposto dal primo comma dell'art. 7, non è stato prorogato oltre il 1992, mentre la proroga (dapprima al 1996 e, poi, al 1999) del blocco disposto dal quinto comma porterebbe all'assurdo che un'ora di straordinario finirebbe per essere pagata di meno di un'ora di lavoro ordinario, nonostante la maggiore penosità del primo;
sicché il quinto comma dell'art. 7 cit. andrebbe interpretato nel senso che la norma avrebbe riguardo unicamente ai meccanismi automatici di indicizzazione e soltanto su questi ultimi avrebbe prodotto effetti di "blocco" (nei casi, invece, in cui la dinamica retributiva sia agganciata non a voci indicizzate, ma a voci contrattate, la crescita di queste, che non sarebbe vietata dal primo comma dell'art. 7, non impedisce neppure la crescita del compenso per lavoro straordinario) -.
Siffatta interpretazione, fatta propria (come si è rilevato) dalla Corte di Appello di Salerno e sulla quale si basa la sentenza impugnata, appare sicuramente errata in quanto risulta in contrasto con la chiara formulazione della norma da interpretare e con le stesse finalità con la stessa perseguite.
Va, in primo luogo, rimarcato che norme dal contenuto identico, o analogo, all'art. 7, quinto comma, del d.l. n. 284/92 sono già state in passato emanate: a) così, l'art. 7, sedicesimo comma, della legge n. 887/1984, disponeva, per le categorie indicate nell'articolo (il
personale dell'impiego pubblico "allargato", compreso, in particolare, il personale dipendente dalle aziende esercenti pubblici servizi di trasporto in regime di concessione), che "tutti gli emolumenti, compensi, gratifiche ed assegni a qualsiasi titolo corrisposti, ad eccezione della tredicesima mensilità comprensivi, per disposizione di legge o atto amministrativo previsto dalla legge o per disposizione contrattuale, di una quota dell'indennità integrativa speciale di cui alla legge n. 324/1959, o dell'indennità di contingenza prevista per il settore privato, o che siano in altro modo rivalutabili in relazione ai predetti istituti, sono corrisposti, per il 1985, in misura non superiore a quella corrisposta nel 1984";
b) parimenti, l'ottavo comma dell'art. 6 della legge n. 41/1986 ("Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato") statuiva: "Tutte le indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere, con esclusione della tredicesima mensilità e di eventuali, altre mensilità per le categorie che le percepiscano, comprensivi, per disposizione di legge od atto amministrativo previsto dalla legge o per disposizione contrattuale, di una quota dell'indennità integrativa speciale di cui alla legge n. 324/1959, e successive modificazioni, o dell'indennità di contingenza prevista per il settore privato, o che siano in altro modo rivalutabili in relazione ai predetti istituti, sono corrisposti, per gli anni 1986, 1987 e 1988 nella stessa misura dell'anno 1985, salva l'applicazione del disposto di cui al precedente comma" (comma che prevede la possibilità di rivalutazione dei trattamenti economici accessori, solo se diretta ad incentivare la produttività).
Con riferimento alle disposizioni del 1984 e del 1986, questa Corte ha precisato che le stesse non contenevano solo la prescrizione di un "tetto di spesa" complessivo, ma stabilivano il blocco della "misura retributiva unitaria" di tali compensi in relazione ai singoli lavoratori, in tal senso modificando l'obbligazione retributiva del datore di lavoro (Cass. 14 maggio 1992 n. 5722, 1^ giugno 1992 n. 64579, 10 gennaio 1994 n. 186,10 giugno 1999 n. 5719). Così come - con riferimento all'art. 7, sedicesimo comma, della legge n. 887/1984 ed all'art. 6, ottavo comma, della legge n. 41/1986
- non si è mai dubitato che ad essere "congelata" era la "misura retributiva unitaria" di tali compensi con l'unica eccezione, limitatamente al "blocco" del 1986, di una rivalutazione contrattuale degli stessi connessa ad incentivi di produttività (prevista dal settimo comma dell'art. 6 della legge n. 41/86), così non vi è motivo di dubitare che la identica formulazione usata dal legislatore con il comma quinto dell'art. 7 del d.l. n. 384/1992 abbia inteso prescrivere che, per l'anno 1983, tutte le indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere, comprensivi dell'indennità integrativa speciale o di contingenza o, comunque, rivalutabili, fossero corrisposti nella stessa misura dell'anno 1992;

tutte le "indennità, compensi ecc." e non solo la quota della indennità integrativa speciale o dell'indennità di contingenza in essi compresa. Tanto più che il meccanismo della scala mobile, posto a base dell'indennità di contingenza, era stato anche formalmente superato con "il protocollo di intesa tra governo e parti sociali" del luglio 1992.
A questo riguardo è il caso di precisare che, contrariamente a quanto pure si è osservato - che cioè interpretare l'art. 7 (comma 5) del d.l. 384/92 nel senso accolto da questa Corte - dovrebbe comportare la conseguenza - inaccettabile logicamente - di un blocco generalizzato dell'intero sistema retributivo ai valori del 1992 (con la ulteriore conseguenza che, anche negli anni successivi al 1993 dovrebbe operare questa limitazione alla dinamica retributiva), non risponde al vero. E, infatti, il legislatore ha tenuto ben distinto il blocco della retribuzione, previsto per il solo 1993 dal primo comma della norma in esame (con una sorta di "compensazione" mediante la erogazione di una somma forfetaria mensile di L. 20.000), dal blocco degli altri emolumenti, di cui al quinto comma, nel quale è adoperata l'espressione (come nella legislazione successiva sul punto) di "stessa misura dell'anno 1992", il che sta ad indicare che il legislatore ha inteso riferirsi alla "tariffa unitaria" (così Cass. n. 6579/1999 e Cass. n. 5719/1999 per le leggi finanziarie rispettivamente per gli anni 1985 e 1987) dei cennati compensi. Al riguardo è appena il caso di chiarire che la soluzione accolta è in perfetta continuità con la precedente giurisprudenza formatasi su quelle "leggi finanziarie", in quanto le decisioni richiamate - essendo solamente tale l'oggetto del contendere - hanno esaminato il problema dell'incidenza delle variazioni dell'indennità integrativa speciale (o di simili meccanismi di adeguamento al costo della vita) sul computo del compenso del lavoro straordinario, affermando che il valore unitario di tale compenso doveva essere mantenuto nel suo ammontare inalterato (e gli accordi contrattuali avrebbero potuto prevedere rivalutazioni solo se diretti ad incentivare la produttività individuale o di gruppo).
2^/e - . In merito, infine, alla questione della eventuale illegittimità costituzionale della norma nell'interpretazione dinanzi accolta (che aveva determinato la rimessione della questione stessa alla Corte Costituzionale), con la summenzionata ordinanza del 7 marzo 2002 questa Corte aveva ritenuto non manifestamente infondato il "dubbio" della legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 36 Cost., del quinto comma dell'art. 7 del d.l. n. 384 cit.. La Corte Costituzionale - nel dichiarare, come si è constatato, non fondata la cennata questione di legittimità costituzionale - ha ribadito il principio, enunciato nella sentenza n. 141/1979, secondo cui l'art. 36 Cost., "nel proclamare il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata al suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa, non può essere riferito alle singole fonti della retribuzione del lavoratore, ma alla sua globalità", esplicitamente statuendo - a proposito della disciplina (art. 1, comma terzo, della legge n. 734/1973) dell'assegno perequativo, la quale "comporterebbe una retribuzione del lavoro straordinario inferiore a quella per il lavoro prestato nell'orario di servizio" - che, "al fine di accertare la legittimità della retribuzione dei lavoratori dipendenti in relazione al disposto dell'art. 36 Cost., occorre fare riferimento non già alle singole componenti, ma al complesso della retribuzione" (Corte Cost. n. 227/1982, Corte Cost. n. 164/1994, Corte Cost. n. 15/1995, Corte Cost. ord. n. 368/1999, Corte Cost. ord. n. 263/2002). In tale decisione la Consulta ha, inoltre, precisato - in relazione all'affermazione contenuta nella precedente sentenza n. 242/1999, erroneamente posta dal giudice di appello a fondamento del suo decisum - che "il principio del "compenso proporzionato alla maggiore penosità del lavoro protratto oltre i limiti dell'orario normale" trascura di considerare: a) che tale preteso principio (maggiorazione necessaria del compenso) non è conforme a quello pretesamente fissato dalla sentenza n. 242/1999 (non inferiorità del compenso);

b) la rilevanza che, in tale preteso principio, è riconosciuta alla contrattazione collettiva;
c) la natura descrittiva, più che precettiva dell'effetto, della riportata proposizione;
e pertanto d) l'assenza di ogni argomentazione a sostegno della costituzionale necessità di quell'effetto" e, conclusivamente, ha affermato che "il mero rinvio ad una proposta interpretativa formulata da questa Corte non giustifica di per sè una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata": per cui, "non solo deve ribadirsi (così, testualmente, al termine della motivazione della sentenza n. 470/2002) il principio consolidato secondo cui la proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione va riferita non già alle sue singole componenti, ma alla globalità di essa, ma altresì il corollario che questa Corte Costituzionale,, nella sentenza n. 164/1994, ne ha tratto affermando che 'il silenzio dell'art. 36 Cost. sulla struttura della retribuzione e sull'articolazione delle voci che la compongono significa che e' rimessa insindacabilmente alla contrattazione collettiva la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei lavoratori, del quale il giudice potrà poi essere chiamato a vcrificare la corrispondenza ai minimi garantiti dalla norma costituzionalè".
La cennata conclusione - in base alla quale l'art. 36 Cost. è diretto a garantire l'adeguatezza della retribuzione ("la giusta retribuzione") come corrispettivo globale del lavoro prestato e non consente un giudizio atomistico di insufficienza e non proporzionalità delle singole componenti del corrispettivo stesso - si riallaccia coerentemente con l'indirizzo costantemente affermato da questa Corte secondo cui la retribuzione costituzionalmente garantita si identifica, di regola, con quella determinata dai contratti collettivi. Principio questo che assume specifico valore al fine della ricerca dell'effettiva volontà contrattuale (idest dell'assetto (perseguito e convenzionalmente realizzato) degli interessi economici dei contraenti sindacali): nella specie - ribadendosi quanto rilevato, in generale, nella premessa sub "capo 2^/a" - l'esistenza del "blocco" statuito dalla normativa summenzionata come "presupposto di fatto" per la trattativa sindacale non è stata certamente estranea al raggiungimento degli equilibri economici realizzati con la contrattazione collettiva e, anche sotto tale profilo, viene confermata la validità della conclusione assunta.
Nè vale osservare che, in tal modo, prolungandosi l'orario di lavoro oltre quello normale contrattualmente definito, si ridurrebbe il compenso unitario delle singole ore - straordinarie o non - perché, come si è più volte detto, è il trattamento economico complessivo che va considerato nella sua conformità al precetto costituzionale. In definitiva - confermandosi quanto già statuito da questa Corte con numerose decisioni sulla medesima questione oggetto del presente giudizio (così, ex plurimis, Cass. n. 3770/2003, Cass. n. 12991/2003) - è legittimo il "blocco" del valore dello straordinario operato in forza del quinto comma dell'art. 7 del d.l. n. 384/1992 che deve essere applicato tenuto conto che, ad essere corrisposti per l'anno 1993 nella stessa misura dell'anno 1992, sono tutte le indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere comprensivi di una quota di indennità integrativa speciale o dell'indennità di contingenza o comunque rivalutabili in relazione alla variazione del costo della vita, e non le sole quote di indennità integrativa speciale o di indennità di contingenza contenute nei ricordati emolumenti: applicazione che non si pone in contrasto con il primo comma dell'art. 36 della Costituzione, non potendosi riferire il concetto di sufficienza e proporzionalità della retribuzione ad un singolo elemento della stessa. 3^ - . In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. Rete Ferroviaria Italiana deve essere accolto per cui la sentenza impugnata deve essere cassata e - decidendo nel merito ex art. 384 (ult. alinea del primo comma) cod. proc. civ. poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto
- deve essere rigettata integralmente la domanda giudiziale ex art. 414 c.p.c. originariamente proposta dagli odierni intimati.
Ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese dell'intero giudizio.

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