Cass. pen., sez. I, sentenza 19/02/2018, n. 07918

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. I, sentenza 19/02/2018, n. 07918
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 07918
Data del deposito : 19 febbraio 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

o la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: CELLURALE GIOVANNI nato il 01/10/1972 a CASERTA CATERINO NICOLA nato il 26/01/1957 a CESA avverso la sentenza del 14/09/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLIvisti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione svolta dal Consigliere R B uditi il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCO MAURO IACOVIELLO, che ha chiesto di dichiarare inammissibili i ricorsi;
l'Avv. ALFONSO BALDSCINO, per CATERINO NICOLA, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso nell'interesse dello stesso;
l'Avv. CLAUDIO DVINO e l'Avv. MARCO MUSCARELLO (in sostituzione dell'Avv. ANTONIO ABET) per CELLURALE GIOVANNI, che hanno insistito per l'accoglimento dei motivi del ricorso nell'interesse dello stesso;

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di assise di appello di Napoli, con la sentenza in epigrafe, confermava per quanto di interesse quella resa il 10 dicre 2014 dalla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere, con la quale G C e N C erano stati condannati ciascuno alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per mesi sei, in quanto riconosciuti responsabili dei reati, unificati per continuazione, di omicidio premeditato in danno M M e di detenzione e porto illegali di armi da sparo, aggravati ex art. 7, d.l. 152/1991. Fatti avvenuti in Cesa il 12 giugno 2006, giorno in cui il M, mentre svolgeva l'attività di posteggiatore nei pressi di un supermercato, era raggiunto da colpi di arma da fuoco, una pistola calibro 9, che ne cagionavano la morte.

2. Secondo la ricostruzione dei fatti ritenuta accertata dalla Corte di assise distrettuale, conformemente alle conclusioni raggiunte dai giudici di primo grado, l'omicidio era maturato nel contesto della criminalità locale di stampo camorristico, essendo riconducibile ad una cruenta faida fra il clan Mazzara (al quale il M era vicino) e quello facente capo ai C diretto allora da N C. Segnatamente il fatto di sangue costituiva la risposta all'uccisione di Michele C, fratello di N, avvenuta il 20 maggio 2006. E dopo l'omicidio del M in ragione della stessa faida se ne verificavano altri. Questi retroscena del delitto, così come le sue modalità ideative, organizzative ed esecutive, venivano ricostruiti dai giudici di merito anzitutto alla stregua delle dichiarazioni rese dal collaboratore Luigi M, individuato come uno degli appartenenti all'epoca al clan C che avevano commesso il fatto. Secondo quanto riferito dal M, N C aveva deciso di dare una risposta immediata all'uccisione del fratello, individuando come bersaglio di tale azione, indifferentemente, il M, Cesario D D ed altro soggetto, tutti vicini ai fratelli Mazzara che capeggiavano l'omonimo clan. Fra coloro che avrebbero dovuto eseguire il mandato di N C, oltre allo stesso M, vi erano G C, Lorenzo V e Vincenzo S, parimenti appartenenti al clan C. Risultato vano un tentativo di uccidere il D D, la mattina dopo, e cioè del 12 giugno 2006, il M veniva raggiunto a casa dal C, dal V e dal S che gli comunicavano la decisione di uccidere quello stesso giorno il M, il quale, secondo quanto appreso da N C tramite il suo fratello Cesario, si trovava già a lavoro quale posteggiatore presso un supermercato Lindi. In occasione dell'esecuzione del delitto, il S ed il C prendevano posto su una Fiat Punto con compiti di appoggio;
mentre il M ed il V, armati di pistola, si trovavano su un Fiat Stilo proveniente da furto. Questi ultimi, individuato il M, lo avvicinavano restando sull'auto, in modo che il V poteva esplodergli contro un primo colpo alla testa quasi a bruciapelo, per raggiungerlo poi in più parti del corpo con altri colpi in rapida successione. Dopo l'allontanamento dai luoghi, il M si occupava di incendiare (con il S) la Fiat Stilo ed inoltre di occultare la pistola calibro 9 adoperata per commettere l'omicidio. Secondo quanto ribadito nella sentenza di secondo grado, le dichiarazioni rese sui fatti dal M e le conseguenti sue chiamate in correità nei confronti degli imputati, oltre a rivelarsi intrinsecamente attendibili sotto ogni profilo delle pertinenti valutazioni, risultavano riscontrate: per quanto concerne l'aspetto della causale, dalle risultanze di tutte le altre indagini in ordine all'intero contesto criminoso e alla personalità dei protagonisti dei fatti riferite dalla polizia giudiziaria, nonché accreditate da sentenze irrevocabili;
sotto il profilo della dinamica dell'esecuzione dell'agguato, da quanto autonomamente emerso dagli accertamenti tecnici nell'immediatezza e dalla deposizione del t M, guardia giurata che aveva avuto modo di assistere all'esplosione dei colpi. Dette chiamate in correità venivano ritenute riscontrate estrinsecamente in termini «individualizzanti» per entrambi gli imputati - e dunque idonee ad integrare la prova della loro colpevolezza - in ragione delle convergenti dichiarazioni accusatorie, in questo caso de relato, rese da altri due collaboratori, N C e O L (del pari a suo tempo inseriti in quel contesto di criminalità organizzata), valutandosi anche tali contributi intrinsecamente attendibili. Il C, secondo quanto da lui riferito, aveva potuto apprendere direttamente dal C, durante una comune detenzione nel 2010, che costui in occasione dell'agguato aveva guidato la macchina, che il V aveva sparato e che il M aveva fatto da "specchiettista" insieme a tale "er piotto", mentre N C era stato il mandante del delitto;
come poi era stato da quest'ultimo confermato al medesimo collaboratore, sempre in carcere, facendo al contempo riferimento alla circostanza che nell'occasione, come per altri delitti, il C si era reso disponibile. Il L, da parte sua, aveva riferito che gli era stato detto dal V, durante un periodo di comune detenzione ad Asti, che lo stesso aveva eseguito l'omicidio del M su mandato di N C, così avendo conferma il collaboratore di quanto già appreso, dopo detto omicidio, in forza di notizie riportate da Letizia Raffaele. La Corte di assise di appello, confrontandosi specificatamente con le doglianze e le richieste prospettate in sede di appello, disattendeva in primo luogo le eccezioni di nullità e i connessi rilievi di incostituzionalità aventi ad oggetto il decreto di giudizio immediato e la conseguente instaurazione del procedimento speciale privo dell'udienza preliminare, osservando che, come già rilevato dalla Corte di primo grado in forza di argomentazioni condivise, alcuna ingiustificata disparità di trattamento e violazione dei diritti di difesa poteva ravvisarsi anche alla luce delle pronunzie in materia della Corte Costituzionale. , Mette conto, altresì, di rilevare che i giudici di appello ritornavano a spiegare il motivo per cui non avevano ritenuto di accogliere la richiesta di riapertura dell'istruzione laddove essa aveva avuto ad oggetto l'acquisizione di un verbale di dichiarazioni del M non presente in atti, che era stato solo indicato dalla difesa come riportato in un provvedimento di applicazione di misure di prevenzione però mai prodotto, essendo stato al riguardo depositato solo un "foglio" per di più privo di qualsiasi indicazione che potesse attestarne la sicura provenienza. La questione veniva comunque ritenuta nel merito non rilevante, intendendosi rappresentare un'inimicizia del M nei riguardi del C in forza di fatti rimasti vaghi e giammai idonei a dimostrare la falsità delle accuse. Soffermandosi a confutare gli ulteriori rilievi nel merito, la Corte distrettuale si occupava anzitutto di quelli riferiti più direttamente alle dichiarazioni del M. Le considerazioni svolte in proposito negavano fra l'altro che la causale dell'omicidio come già ritenuta dalla Corte di primo grado potesse essere messa in discussione, che all'epoca N C avesse perso qualsiasi ruolo all'interno di quel contesto criminale e che le accuse del M fossero tutte de relato ed inficiate internamente dai prospettati profili di inverosimiglianza e contraddittorietà (in particolare relativi all'occultamento delle armi e dell'auto). Inoltre, quanto riferito dal medesimo collaboratore in ordine alle modalità dell'esplosione dei colpi non appariva smentito dalle risultanze degli accertamenti autoptici e neppure non coincidente con quanto visto dal teste oculare M. Né assumeva rilevanza la circostanza che il M, parlando dell'omicidio, non avesse fatto cenno a L G, invece nominato dal C, essendosi quest'ultimo riferito a notizie da ritenersi sul punto poco affidabili e comunque attinenti a condotte successive e incoerenti rispetto ai fatti (il M dopo l'omicidio, pur non avendo sparato, si sarebbe recato dal G per «lavarsi le mani»). Il V, sentito nel giudizio di primo grado, nell'ammettere di avere commesso l'omicidio, aveva aggiunto informazioni del tutto prive di attendibilità laddove in contrasto con la ricostruzione accusatoria. Quel giorno Cesario C ben avrebbe potuto fornire le notizie funzionali all'agguato una volta allontanatosi dal posto di lavoro, risultando peraltro non veritiera, alla luce delle prove assunte in appello, l'attestazione al riguardo che era stata allegata. Continuando ad esaminare i rilievi difensivi, i giudici di appello, quanto alle dichiarazioni del C, osservavano che lo stesso aveva invero linearmente spiegato i suoi rapporti con N C che lo avevano portato ad apprendere da quest'ultimo in carcere le informazioni sull'omicidio. Le notizie di stampa all'epoca relative al fatto di sangue, laddove apprese dal C, non inficiavano le sue dichiarazione avuto riguardo in particolare al contenuto delle accuse nei confronti degli imputati. Quanto affermato dal C in termini divergenti rispetto al racconto del M (relativamente alla dislocazione nei due equipaggi e al coinvolgimento anche di tale "er piotto" in occasione dell'agguato) andava ricondotto a naturali inesattezze dovute alla non diretta partecipazione ai fatti da parte del C e pertanto al percorso di trasmissione fino a lui delle notizie. Senza che per ciò solo potesse risultare compromessa la convergenza delle accuse sotto i profili rilevanti, ma anzi avendosi in tal modo ulteriore prova dell'autonomia delle fonti in questione. I riferimenti dello stesso C alla diffusione della notizia del pentimento di E D C quando il C gli aveva parlato dell'omicidio in carcere, non si rivelavano temporalmente incoerenti. Né poteva rilevare che il C in tale circostanza avesse parlato dei timori nutriti da A "er piotto" in ragione delle confidenze sull'omicidio fatte da quest'ultimo al suddetto D C. Ed infatti, si trattava di mere supposizioni in alcun modo accreditate da altre risultanze, ma anzi smentite dal rilievo dell'assenza di qualsiasi notizia in ordine a dichiarazioni del D C sui fatti in questione a seguito della sua collaborazione. Infine, il ruolo assunto dal C e i suoi rapporti con il Cellulare ben potevano giustificare l'approccio sull'argomento avuto dal collaboratore con il C (il C aveva perorato le esigenze di mantenimento del C e il C aveva così avuto modo di confermare la giustezza di tali pretese in ragione dei servizi a lui resi da quell'associato, fra cui appunto la partecipazione all'omicidio M). Quanto poi alle dichiarazioni del L, nella sentenza si evidenziava che i rilievi mossi in proposito in sede di appello non costituivano altro che la reiterazione di obiezioni tutte già correttamente disattese dalla Corte di assise. Infine, i giudici di secondo grado davano conto della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della premeditazione, essendo risultata la condotta caratterizzata da fermezza ed irrevocabilità della risoluzione rispetto ad un bersaglio da tempo individuato in ragione di un pregresso movente;
mentre gli estremi integranti l'ulteriore aggravante di cui all'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, venivano ritracciati nella volontà di affermare attraverso l'omicidio la supremazia del gruppo camorristico facente capo a N C, così come nelle modalità dei fatti, tipiche delle faide fra organizzazioni criminali armate.
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