Cass. civ., SS.UU., sentenza 25/11/2003, n. 17981

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.

Segnala un errore nella sintesi

Massime1

L'appartenenza al consiglio di amministrazione di una società per azioni con capitale maggioritario di un comune (o di una provincia) configura la causa d'ineleggibilità alla carica di sindaco del medesimo ente locale (o di presidente della provincia), di cui all'art. 60, primo comma, numero 10, del D Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (che riproduce il testo già contemplato - per i consiglieri regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali - dall'art. 2, primo comma, numero 10, della legge 23 aprile 1981, n. 154), perché la nozione di "dirigente" recepita nella menzionata norma non è da intendere nel senso proprio dell'art. 2095 cod. civ., come indicativa di una particolare categoria di prestatori di lavoro subordinato, ma deve essere letta nel contesto normativo in cui è inserita, cioè con specifico riguardo alla disciplina giuridica delle società per azioni, e quindi come riferimento alla posizione di quanti concorrono - come coloro che compongono il consiglio di amministrazione di una società per azioni - all'elaborazione delle scelte gestorie e di politica economica della società stessa.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 25/11/2003, n. 17981
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 17981
Data del deposito : 25 novembre 2003

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. I G - Primo Presidente f.f. -
Dott. O G - Presidente di Sezione -
Dott. C A - rel. Consigliere -
Dott. L E - Consigliere -
Dott. N G - Consigliere -
Dott. V M - Consigliere -
Dott. L P M - Consigliere -
Dott. M M R - Consigliere -
Dott. E S - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A G, CARANDENTE SICCO ANGELA, CARANDENTE NICOLA, P DO, SUSINO GIUSEPPE, CAIAZZO CARMINE, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

VIRGILIO

38, presso lo studio dell'avvocato L R, rappresentati e difesi dall'avvocato G M, giusta delega a margine del ricorso;



- ricorrenti -


contro
C E, elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA BARBERINI

12, presso lo studio dell'avvocato C D C, rappresentato e difeso dall'avvocato E A, giusta delega a margine del controricorso;



- controricorrente -


e contro
DI CRISCIO GABRIELE, VACCARO RAFFAELE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI;



- intimati -


e sul 2^ ricorso n. 17895/02 proposto da:
DI CRISCIO GABRIELE, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE ANGELICO

38, presso lo studio dell'avvocato LUIGI NAPOLITANO, rappresentato e difeso dall'avvocato CAMILLO LERIO MIANI, giusta a margine del controricorso;

- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI, C E, VACCARO RAFFAELE, CARANDENTE SICCO ANGELA, CARANDENTE NICOLA ANGELA, A G, P DO, SUSINO GIUSEPPE, CAIAZZO CARMINE, COMUNE DI QUARTO;



- intimati -


avverso la sent. n. 1675/02 della Corte d'Appello di NAPOLI, depositata il 16 maggio 2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23 ottobre 2003 dal Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;

udito l'avvocato Gaetano MONTEFUSCO anche per delega dell'avvocato Camillo LERIO MIANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PALMIERI

Raffaele che ha concluso per previa riunione del ricorso rigetto di entrambi i ricorsi, conferma del principio affermato nelle sentenze della Suprema di Cassazione, della Sezione Prima Civile n. 3508/93 e 1992/00 ovvero in via subordinata nella sentenza 10701/93. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 26 giugno 2001 E C, cittadino iscritto nelle liste elettorali del Comune di Quarto, propose ricorso al Tribunale di Napoli, esponendo quanto segue:
il 28 maggio 2001 G D C era stato eletto S di quel Comune. All'atto della presentazione della candidatura, però, il D C ricopriva la carica di componente del consiglio di amministrazione di Quarto Multiservizi s.p.a., società il cui capitale era posseduto al 51% dallo stesso ente territoriale. Egli aveva presentato le dimissioni dalla detta carica con lettera del 18 aprile 2001, mentre, ai sensi dell'art. 60 (comma 3) del D.Lgs. n. 267 del 2000, avrebbe dovuto dimettersi non oltre il giorno fissato
per l'accettazione della candidatura, cioè (nella specie) entro il 14 aprile 2001. Le dimissioni, comunque, dovevano essere considerate inefficaci, perché inviate al solo presidente del consiglio di amministrazione e non anche al presidente del collegio dei Sindaci, come prescritto dall'5-08-30">art. 2385 c.c. Pertanto il ricorrente chiese che il Tribunale: 1) annullasse il verbale degli eletti relativi al S e al Consiglio comunale di Quarto, proclamati dall'ufficio centrale il 28 maggio 2001;
2) dichiarasse l'ineleggibilità di G D C alla carica di S, per violazione dell'art. 60, comma 1, n. 10, e comma 3 del D.Lgs. n. 267 del 2000, in quanto componente del consiglio di amministrazione di Quarto Multiservizi s.p.a. al momento della presentazione delle candidature;
3) annullasse, per conseguenza, l'elezione del Consiglio comunale di Quarto.
Instaurato il contraddittorio il D C, con comparsa in data 21 luglio 1001, si costituì per resistere al ricorso, adducendo che non ricorreva l'ipotesi prevista dall'art. 60, comma 1, punto 10, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, il quale sanciva l'ineleggibilità a S, presidente della Provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale, dei legali rappresentanti e dei dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario, rispettivamente, del Comune (o della Provincia). Infatti, come attestato da certificazione della Camera di commercio, il consiglio di amministrazione della società, nell'assemblea del 14 dicembre 2000, aveva trasferito all'amministratore delegato e al presidente i poteri del consiglio, il quale era rimasto perciò esautorato. Pertanto da quella data egli non aveva conservato altro potere se non quello di socio.
In subordine sostenne che egli aveva anche formalizzato le sue dimissioni dalla società con decorrenza dal 2 aprile 2001, come attestato da certificazione camerale.
Con successiva memoria del 24 settembre 2001 il D C affermò che la disposizione recata dall'art. 60, n. 10, del D.Lgs. n. 267 del 2000, statuendo l'ineleggibilità di "legali rappresentanti" e
"dirigenti", non menzionava gli amministratori, sicché estendere il significato del termine "dirigenti" oltre i limiti dell'art. 2095 cod. civ. significava violare il principio di stretta interpretazione
che in materia s'imponeva, superando anche il rilievo ermeneutico desumibile dal successivo n. 11 dello stesso art. 60, il quale sanciva che erano ineleggibili gli amministratori e i dipendenti con funzioni di rappresentanza o con poteri di organizzazione o coordinamento del personale di istituto, consorzio o azienda. Il D C aggiunse che la società Multiservizi aveva iniziato la sua attività soltanto dopo la data delle elezioni, e cioè il 21 maggio 2001.
Con sentenza depositata il 31 ottobre 2001 il Tribunale adito accolse il ricorso, dichiarò il D C ineleggibile a sindaco del Comune di Quarto e, quindi, decaduto dalla carica, condannò il resistente al pagamento delle spese.
Nel motivare la decisione rilevò quanto segue:
le cause di ineleggibilità, di cui all'art. 60 del D.Lgs. n. 267 del 2000, riguardavano talune categorie di soggetti ritenuti
potenzialmente in grado, in virtù dell'ufficio ricoperto, d'influenzare l'elettorato e, quindi, di acquisirne il consenso, alterando la "par condicio" tra i candidati. In sostanza le indicate cause d'ineleggibilità trovavano fondamento nell'esigenza (avvertita dal legislatore) di garantire la parità tra tutti i concorrenti alla gara elettorale e scongiurare influenze negative sulla libera determinazione al voto da parte degli elettori, per effetto delle funzioni svolte da un candidato, ovvero della posizione di potere dal medesimo gestita, l'una e l'altra in grado di determinare ovvero prefigurare determinate decisioni idonee ad influire sulle scelte dei cittadini, a detrimento della genuinità del voto e della trasparenza degli esiti della competizione elettorale per il conferimento di cariche pubbliche.
Tra le altre, il legislatore aveva previsto la posizione dei legali rappresentanti e dei dirigenti delle società per azioni, con capitale maggioritario, rispettivamente, del Comune o della Provincia. Ed era stato provato che il D C rivestiva (per effetto di nomina del 28 luglio 2000) la carica di consigliere di amministrazione di Quarto Multiservizi s.p.a., società avente la gestione di numerosi servizi pubblici e il cui capitale era posseduto al 51% dal Comune di Quarto.
In ordine all'argomento del D C, secondo cui l'applicazione della citata norma al suo caso sarebbe una possibile soltanto attraverso una non consentita interpretazione estensiva, il Tribunale richiamò l'orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la categoria degli amministratori delle società non poteva essere esclusa dalla previsione di ineleggibilità in base al solo dato testuale, mentre il divieto dell'analogia (certamente operante in materia) non precludeva il ricorso all'interpretazione estensiva, sempre ammessa perché idonea a precisare tutta la portata della disposizione, evitando il pericolo di pervenire - attraverso una superficiale lettura del solo dato testuale - ad escludere dalla regolamentazione una data fattispecie che, invece, il legislatore aveva voluto disciplinare.
Il Tribunale proseguì osservando che l'applicazione del detto criterio ermeneutico conduceva ad affermare la sicura applicabilità della norma in esame anche agli amministratori. Infatti, il legislatore aveva ritenuto inquinante la posizione non soltanto dei legali rappresentanti, ma anche dei dirigenti. Costoro, nella corrente nomenclatura giuridica, andavano intesi quali funzionari dipendenti, impiegati di alto livello, onde non era possibile ritenere che, tra i legali rappresentanti e i direttori generali, avesse voluto escludere gli amministratori, cioè coloro che formano la volontà della società e possono disporre del patrimonio e dell'organizzazione della stessa.
In questo quadro non assumeva rilievo la circostanza che l'assemblea avesse trasferito i poteri del consiglio all'amministratore delegato e al presidente della società, restando comunque al consiglio i poteri di formare la volontà dell'ente e di disporre del patrimonio e dell'organizzazione di esso.
Infine, il rilievo che la società non avesse ancora iniziato ad operare al momento delle elezioni non portava ad escludere l'ineleggibilità del D C, considerato che quest'ultimo si era dimesso dalla carica soltanto il 18 aprile 2001, mentre il termine ultimo era scaduto il precedente 14 aprile.
Per la riforma della sentenza suddetta proposero ricorso in appello Angela C S, N C, G A, D P, G S, C C, cittadini elettori del Comune di Quarto.
Anche G D C propose appello ed altro gravame fu proposto da R V, consigliere comunale e cittadino elettore.
Il Cigolotti si costituì con distinti controricorsi, chiedendo il rigetto delle impugnazioni.
Riunite le cause, la Corte di Appello di Napoli - con sent. n. 1675/2002, depositata il 16 maggio 2002 - respinse i gravami e compensò le spese del grado.
La Corte territoriale (per quanto qui rileva), respinta un'eccezione d'inammissibilità del ricorso presentato in primo grado dal Cigolotti, replicò alle censure degli appellanti con le quali era stata contestata l'affermazione della sentenza impugnata, secondo cui l'art. 60, n. 10, del D.Lgs. n. 267 del 2000 prevedeva l'ipotesi d'ineleggibilità degli amministratori delle società per azioni con capitale maggioritario del Comune.
Al riguardo essa rilevò che l'interpretazione dell'art. 60, n. 10, del D.Lgs. n. 267 del 2000, accolta dal Tribunale, corrispondeva ad
un costante orientamento di questa Corte, diretto ad affermare che la causa di ineleggibilità contemplata dall'art. 2 n. 10 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (riprodotta, poi, nell'art. 60, n. 10, del D.Lgs. n. 267 del 2000) riguardava anche gli amministratori delle società
per azioni a prevalente partecipazione del Comune. Nel quadro di quell'orientamento era stata segnalata la legittimità dell'interpretazione estensiva e si era posto in luce come l'indicazione dell'ineleggibilità di legali rappresentanti e dirigenti non consentiva di nutrire dubbi sulla volontà del legislatore di sancire, al di là del dato meramente testuale, l'ineleggibilità anche degli amministratori, la cui esclusione dalla previsione normativa non avrebbe avuto senso, in presenza dell'affermata ineleggibilità non soltanto dei legali rappresentanti ma anche dei dipendenti di rango elevato.
La Corte di merito aggiunse che, peraltro, non occorreva neppure evocare i principi sull'interpretazione estensiva, perché il richiamo a tale criterio interpretativo appariva fondato sul presupposto che il termine "dirigenti", utilizzato dal legislatore del 1981, si richiamasse all'art. 2095 cod. civ. (nel testo all'epoca vigente). Ma il presupposto non era condivisibile, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (e, segnatamente, dalla sentenza di questa Corte n. 3508 del 1993, poi seguita dalla sent. n. 1992 del 2000), la quale aveva colto l'autentico significato del testo normativo letterale, ponendo in rilievo con congrua motivazione che il concetto di "dirigente", usato dall'art. 2, n. 10, della legge n. 154 del 1981 con riferimento alle società per azioni con capitale
maggioritario dell'ente locale, non poteva identificarsi con la categoria giuslavoristica di cui all'art. 2095 cod. civ. Ad avviso della Corte distrettuale, l'orientamento ora richiamato non trovava alcun persuasivo elemento di contrasto negli argomenti addotti dagli appellanti. Nè avevano pregio le considerazioni di questi ultimi, dirette a sostenere che l'avvenuto trasferimento dei poteri del consiglio all'amministratore delegato non avrebbe consentito l'esercizio d'indebite influenze. Infatti, la delega non poteva privare il consiglio di amministrazione di alcuni dei poteri fondamentali di gestione della società (art. 2381 cod. civ.). Inoltre essa poteva sempre essere revocata e, comunque, in materia non aveva rilievo l'indagine in ordine alla concreta influenza esercitata sugli elettori o sulla praticabilità di tale influenza, rilevando invece il semplice esercizio delle funzioni, ritenuto dalla legge sufficiente in quanto fonte di possibile inquinamento della campagna elettorale.
La Corte napoletana respinse, ancora, la doglianza con la quale il D C sosteneva che a torto il Tribunale avrebbe negato valore alla "retroattiva" dichiarazione di dimissioni a far data dal 2 aprile 2001. Al riguardo essa osservò che non era possibile riconoscere validità a dimissioni "retroattive", perché ciò avrebbe condotto a negare la stessa necessità della tempestiva rimozione della causa d'ineleggibilità.
Infine, essa ritenne non fondato l'argomento secondo cui la società, a partecipazione maggioritaria del Comune, non aveva iniziato l'esercizio dell'attività d'impresa prima delle elezioni. La circostanza era irrilevante perché, accertato che l'amministratore di tale società era compreso nel novero dei "dirigenti" ineleggibili, salva tempestiva rimozione della causa d'ineleggibilità, la "fattualità" concreta della ragione di turbativa della campagna elettorale restava estranea al tema d'indagine, in quanto la legge mirava a prevenire i semplici pericoli derivanti alla "par condicio", che si presumevano collegati alla partecipazione alla competizione elettorale di persone rivestite di posizioni di potere, idonee a determinare anche semplici suggestioni ed aspettative nell'elettorato.
Contro la suddetta sentenza A S C, N C, G A, D P, G S e C C hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo.
Altro ricorso è stato proposto da G D C, sulla base di un unico motivo, a sua volta articolato su più profili. E C ha resistito con controricorso.
Gli altri intimati (Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli e R V) non hanno svolto attività difensiva. Con nota in data 1^ giugno 2002 la difesa di A S C ed altri (ricorso n. 14436/2002 R.G.) ha chiesto che la Corte si pronunzi a SEZIONI UNITE CIVILI, rilevando un contrasto nella giurisprudenza della prima Sezione civile sulla questione che forma oggetto della controversia.
La causa, con provvedimento del Primo Presidente, è stata quindi assegnata alle SEZIONI UNITE CIVILI della Corte ed è stata chiamata all'udienza di discussione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) I due ricorsi (n. 14436/2002 e n. 17895/2002) proposti, rispettivamente, da A S C e dagli altri cinque cittadini elettori indicati in epigrafe, nonché da G D C, in quanto diretti contro la medesima sentenza, devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. 2) Il ricorso per cassazione proposto (in via autonoma) dal D C risulta notificato il 1^ luglio 2002. La sentenza impugnata era stata notificata il 27 maggio 2002, ma, a quanto si desume dagli atti, la notifica stessa non era avvenuta ad istanza di parte, bensì di ufficio, cioè - deve ritenersi - ai sensi dell'art. 84, comma 2, del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, come modificato dall'art. 4 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147. Il ricorso della Sicco Carandente e
degli altri cittadini elettori era stato notificato (anche al detto D C) il 28 maggio 2002.
Ai sensi dell'art. 82, comma 3, del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, aggiunto dall'art. 1 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (richiamato dall'art. 70 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267), le sentenze pronunziate in secondo grado dalla Corte di Appello
possano essere impugnate con ricorso per cassazione, dalla parte soccombente e dal procuratore generale presso la Corte di Appello, entro venti giorni dalla loro notificazione (ad istanza di parte;
non essendo idonea a far decorrere il termine breve la notificazione eseguita a cura del S, ai sensi dell'art. 84, comma secondo, D.P.R. n. 570 del 1960 e successive modificazioni). Per quanto non
diversamente disposto dalla citata legge, nel giudizio di cassazione si applicano le norme del codice di procedura civile, ma tutti i termini del procedimento sono ridotti alla metà.
Come questa Corte ha già affermato, stante il principio di unità del processo d'impugnazione - secondo il quale l'impugnazione proposta per prima determina la pendenza di un unico processo, nel quale sono destinate a confluire, sotto pena di decadenza, per essere decise simultaneamente, tutte le eventuali impugnazioni successive della stessa sentenza, le quali, pertanto, hanno sempre carattere incidentale - nei procedimenti con pluralità di parti, avvenuta ad istanza di una di esse la notificazione del ricorso per Cassazione, le altre parti (cui questo sia stato notificato) devono proporre a pena di decadenza i loro ricorsi avverso la medesima sentenza nello stesso procedimento e, quindi, nella forma delle impugnazioni incidentali. Ne deriva che il ricorso proposto irritualmente in forma autonoma da chi, in forza degli artt. 333 e 371 c.p.c., avrebbe potuto proporre soltanto impugnazione incidentale, per convertirsi in quest'ultima, deve averne i requisiti temporali, onde la conversione risulta ammissibile solo se la notificazione del relativo atto non ecceda il termine (ordinario) di quaranta giorni decorrente dalla notificazione del ricorso principale (tra le più recenti: Cass., Sez. Un., 25 giugno 2002, n. 9232). Nel caso in esame, però, il detto termine era ridotto alla metà, vertendosi in tema di contenzioso elettorale.
Pertanto il ricorso per Cassazione del D C (avente natura di ricorso incidentale, perché ben successivo a quello, principale, formulato dalla C S e dagli altri soggetti indicati in epigrafe) doveva essere proposto entro venti giorni dalla notifica del detto ricorso principale, cioè entro il 17 giugno 2002. Esso si rivela, dunque, tardivo in quanto notificato soltanto il 1^ luglio 2002 e, perciò, deve essere dichiarato inammissibile. 3) Con l'unico, articolato mezzo di cassazione A S C, N C, G A, D P, G S e C C denunziano violazione e falsa applicazione di norme di diritto, violazione e falsa applicazione dell'art. 12 delle preleggi e dell'art. 60, primo comma, n. 10, del D. Lgs. n. 267 del 2000, motivazione omessa, insufficiente e
contraddittoria su punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., primo comma, nn. 3 e 5. La sentenza impugnata, esaminando il gravame dei ricorrenti, avrebbe erroneamente ritenuto che essi intendessero escludere, "sic et simpliciter", i componenti dei consigli d'amministrazione delle società a partecipazione maggioritaria del Comune dal novero dei soggetti considerati ineleggibili dall'art. 60, n. 10, del D.Lgs. n. 267 del 2000. Tale errore avrebbe indotto la Corte di merito a non esaminare compiutamente un punto decisivo della controversia, e di tale omissione l'insufficiente motivazione della detta sentenza risentirebbe, palesando una contraddizione di fondo esternata nelle due seguenti proposizioni, tra loro in netto contrasto: a) nella fattispecie l'interpretazione estensiva (adottata dal Tribunale) sarebbe pienamente legittima;
b) nella fattispecie l'interpretazione estensiva sarebbe superflua, essendo sufficiente quella letterale del testo.
La Corte territoriale, poi, avrebbe considerato inesistente, nel sistema della legge n. 154 del 1981 una sanzione d'incompatibilità a ricoprire la carica di consigliere comunale o S per chi sia semplice amministratore di una società con partecipazione maggioritaria del comune, laddove tale sanzione sarebbe prevista dall'art. 3, primo comma, n. 1, della citata legge n. 154 del 1981, confluita nell'art. 63, primo comma, n. 1, del T.U. n. 267 del 2000. I ricorrenti non avrebbero sostenuto che l'interpretazione letterale dell'art. 60, n. 10, del D.Lgs. n. 267 del 2000 comportasse l'ineleggibilità soltanto per le due categorie dei "legali rappresentanti" e dei "dirigenti" (questi ultimi intesi come funzionari dipendenti di alto livello), bensì avrebbero affermato che tra gli ineleggibili rientrano anche gli amministratori, purché muniti di deleghe e quindi con funzioni e poteri di dirigenti. La Corte di Appello, invece, avrebbe inteso includere ogni componente del consiglio di amministrazione nella categoria degli ineleggibili, ai sensi del citato art. 60, n. 10, pervenendo a tale conclusione attraverso le due contrastanti affermazioni sulla necessità o meno dell'uso dell'interpretazione estensiva nella lettura della norma "de qua".
Esaminando l'ipotesi che considera superflua tale interpretazione, i ricorrenti rilevano che la lettura del termine "dirigente" - effettuata dalla Corte di merito secondo l'orientamento espresso nelle pronunzie di questa Corte (sentenze n. 3508/1993 e n. 1992/2009 - sarebbe "sostanzialmente e per larga parte condivisibile" (ricorso per Cassazione, pag. 11). Si potrebbe cioè convenire sull'affermazione secondo cui la norma avrebbe inteso riferirsi a chi "legalmente rappresenti" e a chi "dirige la società", che sarebbe cosa diversa dal rivestire, come prestatore di lavoro subordinato, la qualifica di dirigente. In considerazione di tale lettura, i ricorrenti avrebbero limitato l'inclusione nel novero dei dirigenti a quei consiglieri di amministrazione che svolgono funzioni direttive. Tuttavia, non sarebbe la mera qualifica di membro di un consiglio di amministrazione a conferire al soggetto interessato i poteri direttivi, derivanti invece dalle funzioni espletate, che sarebbero direttive per gli amministratori cui vengono conferite deleghe o poteri, mentre non lo sarebbero per gli amministratori privi di tali deleghe o poteri.
L'amministratore non legale rappresentante, privo di deleghe o funzioni dirigenziali, non sarebbe in grado d'inquinare la campagna elettorale, non avendo, per la carica rivestita, le potestà considerate dal legislatore in grado d'inquinare il libero voto. Infatti il consigliere di amministrazione privo di deleghe avrebbe soltanto il potere di esprimere la propria volontà all'interno di un organo collegiale, e riuscirebbe a far valere tale volontà soltanto se la maggioranza dei componenti del consesso cui appartiene esprime volontà identica, sicché non sarebbe in grado di alterare la "par condicio".
In proposito andrebbero richiamati gli argomenti di questa Corte, la quale avrebbe affermato che il candidato eletto consigliere comunale (o S), che rivesta la carica di amministratore di un ente sottoposto a vigilanza del comune stesso, è eleggibile (sent. n. 5216 del 7 aprile 2001). Richiamato il contenuto di tale pronunzia, i ricorrenti passano in rassegna le norme sull'ineleggibilità e sull'incompatibilità nelle quali compare il termine "amministratori" (artt. 60 e 63 T.U. n. 267 del 2000), giungendo alla conclusione che sarebbero individuati come ineleggibili i soli consiglieri che abbiano le funzioni di rappresentanza o poteri gestori non generici bensì quelli specificamente previsti: poteri di rappresentanza e di organizzazione e coordinamento del personale.
Nel termine "dirigenti" non sarebbero compresi tutti gli amministratori, ma qualunque dirigente anche se amministratore. La legge avrebbe inteso operare una netta distinzione tra i membri dei consigli di amministrazione delle società in qualche modo controllate dall'ente alla cui guida il candidato aspira, prevedendo due tipi di sanzioni: l'ineleggibilità per gli amministratori con poteri gestori o con legale rappresentanza (art. 60, primo comma, n. 10);
l'incompatibilità per gli amministratori privi di tali poteri che, per essere i padroni della società, verrebbero a trovarsi in posizione conflittuale con l'ente che controlla la società da loro amministrata (art. 63, primo comma, n. 1).
Proprio le norme sull'incompatibilità confermerebbero in modo definitivo tale interpretazione. Infatti, soltanto nel citato art. 63 i membri del consiglio di amministrazione sarebbero considerati in quanto tali, prescindendo dal ruolo che svolgono, e ciò sarebbe dimostrato anche dall'esegesi testuale del dettato normativo (in tutti i casi in cui il legislatore accosta la locuzione "amministratore" al dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento verrebbe usata una congiunzione disgiuntiva o la virgola).
Peraltro, inserire il termine "amministratori" tra le parole "legali rappresentanti" e "dirigenti", contenute nel citato art. 60, n. 10, non sarebbe consentito dall'interpretazione estensiva, sussistendo al riguardo due limiti invalicabili: il primo derivante dalla necessità di rendere sempre esplicito il contenuto della norma senza nulla aggiungere alla sua portata (mentre nella specie sarebbe stato aggiunto il termine "amministratori");
il secondo conseguente all'esistenza di una norma di dubbio contenuto, nel caso in esame non ravvisabile in quanto la norma sarebbe tanto chiara da rispondere perfettamente all'esigenza di comprensione da parte dei destinatari, tra cui i cittadini elettori che, nel caso in esame, avrebbero operato le loro scelte conformandosi al dettato normativo. Infine la sentenza impugnata non avrebbe esaminato con attenzione la documentazione prodotta, costituente prova non soltanto della mancanza di qualunque potere direttivo (e, quindi, inquinante) del D C, ma anche del mancato funzionamento della società che, all'epoca delle elezioni, ancora non aveva cominciato la propria attività. I documenti esibiti, infatti, avrebbero provato che all'amministratore delegato della società erano stati conferiti tutti i poteri, tranne quelli non delegabili di cui all'art. 2381 cod. civ., che non potevano essere considerati poteri di gestione o
di coordinamento.
In definitiva, sarebbe escluso che, nel caso in esame, la posizione del candidato consentisse l'inquinamento della competizione elettorale.
Il ricorso, nei termini qui riassunti, porta all'esame delle SEZIONI UNITE CIVILI la seguente questione: se l'amministratore membro del consiglio di amministrazione (ma privo di deleghe e di poteri rappresentativi) di società per azioni con capitale maggioritario del Comune sia ineleggibile a S del medesimo Comune, ai sensi dell'art. 60, comma primo, n. 10, del T.U. recato dal decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
Tale norma, enunciando una serie di casi d'ineleggibilità, stabilisce che non sono eleggibili a S, presidente della Provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale (tra gli altri) "i legali rappresentanti e i dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario rispettivamente del Comune e della Provincia".
Questo dettato normativo riproduce, senza modifiche, il testo dell'art. 2, comma primo, n. 10, della legge 23 aprile 1981, n. 154, che individuava un identico caso d'ineleggibilità per i consiglieri regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali. Mentre tale norma era in vigore, nella giurisprudenza di questa Corte si è formato un orientamento, alla stregua del quale l'appartenenza al consiglio di amministrazione di una società per azioni con capitale maggioritario dell'ente locale configura la causa d'ineleggibilità di cui all'art. 2, n. 10, della legge n. 154 del 1981, in quanto la nozione (ivi recepita) di dirigente non è da intendere nel senso proprio dell'art. 2095 cod. civ. ed indicativo di una specifica categoria di prestatori di lavoro subordinato, bensì come riferimento alla posizione di quanti concorrono - come coloro che compongono il suddetto organo collegiale amministrativo - all'elaborazione delle scelte gestorie e di politica economica della società.
In tal senso hanno deciso le sentenze 24 marzo 1993, n. 3508, 27 ottobre 1993, n. 10701, 22 febbraio 2000, n. 1992, sia pure sulla base di argomenti ermeneutici non pienamente coincidenti (la prima e la terza ritennero che l'amministratore rientrasse nel novero dei dirigenti, perché questo termine non era identificabile con la categoria disegnata dall'art. 2095 cod. civ.;
la seconda affermò che gli amministratori erano compresi tra i soggetti ineleggibili, non in virtù di una interpretazione propria o letterale della norma bensì in base ad una lettura estensiva della stessa). Anche la sentenza 6 marzo 2000, n. 2490, pur non affrontando la questione "ex professo", considera però come presupposta, ai fini della decisione adottata, l'ineleggibilità alla carica di consigliere comunale del componente del consiglio di amministrazione di una società partecipata dal Comune.
In una prospettiva diversa si colloca la sentenza 7 aprile 2001, n. 5216. Essa tratta dell'incompatibilità alla carica di consigliere (nella specie) comunale, sancita dall'art. 3, primo comma, n. 1 della legge n. 154 del 1981 nei confronti dell'amministratore o del
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza da parte del Comune o che da questo riceva, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il 10% del totale delle entrate dell'ente (la norma, poi, è stata riprodotta per il Comune e per la Provincia nell'art. 63, primo comma, n. 1 del D.Lgs. n. 267 del 2000);
e ravvisa la situazione di
vigilanza nella partecipazione minoritaria del comune al capitale della società amministrata dal consigliere comunale, salvo l'accertamento che, per lo specifico atteggiamento del caso concreto, alla partecipazione minoritaria corrisponda una capacità d'incidenza sulle vicende della società così esigua da risultare eguale a zero. La sentenza muove dal rilievo che, nel sistema introdotto dalla legge n. 154 del 1981, la situazione del candidato eletto consigliere
comunale, che rivesta la carica di amministratore di un ente sottoposto a vigilanza del Comune stesso, è compresa non tra le cause d'ineleggibilità previste dall'art. 2 della richiamata legge ma tra le cause d'incompatibilità previste dall'art.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi