Cass. civ., sez. II, sentenza 28/09/2022, n. 28172

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. II, sentenza 28/09/2022, n. 28172
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 28172
Data del deposito : 28 settembre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

a seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 3376/2019 R.G. proposto da D M B, rappresentato e difeso dall'Avv. Luca D'Ambrogio, elettivamente domiciliato all'indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;

- ricorrente -

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso la medesima Avvocatura Generale dello Stato;
- con troricorrente - avverso il decreto della Corte di appello di Napoli n. 821/2018 depositato il 29 maggio 2018. k“:Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 20 gennaio 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa M F;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale F T, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso, ribadendo le conclusioni scritte depositate ai sensi dell'art. 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176;
udito l'Avvocato di parte ricorrente, avvocato Luca D'Ambrogio.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Napoli, con decreto n. 821/2018 depositato il 29 maggio 2018, respingeva l'opposizione proposta dall'avv. B D M, ai sensi dell'art. 5 ter legge n. 89 del 2001, avverso il decreto del magistrato designato che accogliendo la domanda di equa riparazione formulata dallo stesso ricorrente in relazione alla durata non ragionevole del processo civile svolto avanti al Tribunale di Napoli, stimata in 10 anni, liquidava l'indennizzo in complessivi euro 4.000,00, pari ad euro 400,00 per ciascun anno di ritardo, ritendo infondate le doglianze, trovando applicazione il criterio previsto dalla legge. Avverso il decreto della Corte di appello partenopea propone ricorso per cassazione il DI MARO, fondato su sei motivi. Il Ministero intimato ha solo depositato "atto di costituzione" finalizzato alla partecipazione alla fase decisoria. Il ricorso - previa relazione stilata dal nominato consigliere delegato - è stato inizialmente avviato per la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380-bis c.p.c., avanti alla sesta - 2 sezione civile. All'esito dell'adunanza camerale fissata al 18.09.2019, con ordinanza interlocutoria n. 3622 del 2020 depositata il 13.02.2020, il procedimento è stato rimesso dal Collegio alla pubblica udienza dinanzi alla seconda sezione in mancanza dell'evidenza decisoria, soprattutto quanto alla rilevanza della proposta questione di legittimità costituzionale sul quantum debeatur, previo deposito dalla sola parte ricorrente di memoria illustrativa. In prossimità della udienza pubblica è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Fulvio Troncone, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360, n. 3 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. per avere il giudice dell'opposizione ritenuto che tutti e quattro i motivi di opposizione andavano respinti in quanto il ricorrente solo genericamente aveva dedotto il contrasto con la normativa interna e la Convenzione EDU, per come interpretata dalla Corte EDU, senza avere motivato la ragione per cui la medesima Convenzione andava applicata "per come interpretata" dalla Corte EDU, dal momento che doveva essere applicato, in luogo del principio dispositivo, il principio iura novit curia (o, in caso lo fosse stato, l'art. 113 c.p.c. era stato mal interpretato). Con il secondo motivo il ricorrente denuncia - ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. - l'omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio per avere il giudice dell'opposizione ritenuto che tutti e quattro i motivi opposizione al decreto di primo grado andavano respinti perché il ricorrente solo genericamente rilevava il contrasto tra la Convenzione EDU, per come interpretata dalla Corte EDU, senza avere motivato la ragione per la quale la "Convenzione EDU andava applicata per come interpretata dalla Corte EDU, quando invece il ricorrente aveva specificamente argomentato e la circostanza risulta anche dallo stesso provvedimento impugnato. Con il terzo motivo, formulato sempre ai sensi dell'art. 360 n.5 c.p.c., il ricorrente deduce un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ed insuperabile illogicità intrinseca del provvedimento impugnato per avere il giudice dell'opposizione ritenuto che anche il terzo e quarto motivo di opposizione andavano respinti perché il ricorrente solo genericamente rilevava il contrasto tra la Convenzione EDU, "per come interpretata dalla Corte EDU", quando invece i detti due motivi si fondavano sulla violazione della normativa interna e di tale circostanza si dava atto nelle premesse del ragionamento che aveva portato alla reiezione dei motivi. Con il quarto motivo è asserita - ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c. - la violazione e/o la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. per avere il giudice dell'opposizione ritenuto che era infondata la questione di illegittimità costituzionale per avere il ricorrente genericamente dedotto il contrasto tra la normativa interna e la Convenzione EDU, quando invece avrebbe dovuto essere applicato, in luogo del principio dispositivo, il principio iura novit curia (o, in caso lo fosse stato, l'art. 113 c.p.c. era stato mal interpretato). Prosegue il ricorrente per la violazione dell'art. 117, comma 1 Cost., perché in ragione delle violazioni di cui al precedente punto si è violato l'art. 6, comma 1 Convenzione EDU, norma violata altresì per essere stato ritenuto che la legge Pinto e le sentenze della Corte EDU erano espressione di diversi orientamenti sull'art. 6, comma 1 della Convenzione EDU, il quale vale per come interpretato dalla Corte EDU, interpretazione della Corte che, se disattesa dalla legge Pinto, comporta la violazione della Convenzione EDU. Con il quinto motivo è denunciata - ai sensi dell'art. 360 n. 4 c.p.c. - la nullità del provvedimento impugnato in ragione della motivazione solo apparente, perché costituita da clausole di stile stereotipate, relativamente alla conferma del decreto opposto e, così del suo quantum, determinato nella misura minima dell'indennizzo previsto dalla legge Pinto. Con il sesto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta ex art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2 e 2 bis legge n. 89 del 2001, per avere il giudice dell'opposizione ritenuto che la circostanza che erano state respinte una domanda e aveva avuto luogo la condanna di Di Maro al pagamento della somma di euro 200.000,00. Consentiva la conferma del decreto opposto che liquidava i minimi dell'indennizzo da dette norme previsti quando dette norme a tali circostanze non danno rilievo e, se anche glielo avessero dato, rilevavano nel senso di consentire la liquidazione del massimo e non del minimo. A conclusione del sesto motivo il ricorrente ripropone la questione di legittimità costituzionale delle previsioni degli artt. 2 e 2 bis della legge n. 89 del 2001 ritenendo l'interpretazione delle norme non corretta circa la quantificazione dell'ammontare dell'indennizzo riconosciuto alla luce dei parametri della giurisprudenza CEDU e di legittimità, di qui la incostituzionalità della previsione ex art. 117, comma 1 Cost. E' preliminare l'esame dell'ultima censura: essa è infondata. Quanto ai dubbi di costituzionalità avanzati dal ricorrente, occorre osservare che gli stessi sono formulati in termini del tutto generici e si fondano sostanzialmente su una valutazione di sintesi di inadeguatezza della somma liquidata dal giudice di merito a titolo di indennizzo, senza alcuna specifica argomentazione che illustri, in relazione a ciascuna delle molteplici disposizioni promiscuamente impugnate, perché essa si porrebbe in contrasto con la Convenzione EDU. In ogni caso, come già rilevato da questa Corte (Cass. n. 25178 del 2021), il sistema di quantificazione dell'indennizzo delineato dagli artt. 2 e 2 bis della legge n. 89/2001 attua i principi fissati nell'art. 6 CEDU dettando una disciplina di dettaglio nell'ambito del margine di apprezzamento che la Convenzione lascia ai legislatori nazionali;
con la conseguenza che la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide sulla complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento. Questa Corte ha escluso, infatti, il contrasto tra le disposizioni in tema di misura dell'indennizzo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, introdotte prima dal d.l. n. 83 del 2012 e poi dalla legge n. 208/2015, e l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6, par. 1, della CEDU, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione e la ragionevolezza del criterio di 500/400 euro per anno di ritardo recepivano comunque, nella sostanza, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della stessa Corte di cassazione (Cass. n. 25837 del 2019;
Cass. n. 19897 del 2014;
Cass. n. 22772 del 2014). Invero, l'indennizzo calcolato in euro 400 per anno di ritardo non può essere di per sé considerato irragionevole, e quindi lesivo dell'adeguato ristoro per violazione del termine di durata ragionevole del processo. È vero che sì è più volte affermato, nei precedenti di questa Corte, che la quantificazione del danno non patrimoniale dovesse essere, di regola, non inferiore a euro 750 per i primi tre anni di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata, e salire per il periodo successivo a euro 1.000;
si è però anche costantemente affermato che la valutazione dell'entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco) può giustificare l'eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, non legittimandosi unicamente il riconoscimento di un importo irragionevolmente inferiore a quello risultante dall'applicazione dei predetti criteri, dal momento che solo la liquidazione di un indennizzo poco più che simbolico o comunque manifestamente inadeguato contrasta con l'esigenza, posta a fondamento della legge n. 89 del 2001, di assicurare un serio ristoro al pregiudizio subito dalla parte per effetto della violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione (v. Cass. n. 22772 del 2014;
Cass. n. 12937 del 2012;
Cass. n. 17404 del 2009). D'altra parte la stessa Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 240 del 2014, seppure sulla differente questione della diversità di trattamento del soccombente nel processo presupposto, ha chiarito che "il vulnus all'art. 117, primo comma, Cost., denunciato dai rimettenti, già con le ordinanze n. 204 e n. 124 del 2014, era stato dichiarato manifestamente infondato sul rilievo dell'erroneità del presupposto interpretativo assunto a fondamento della stessa, atteso che il comma 3 dell'art.
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