Cass. civ., SS.UU., sentenza 23/03/2015, n. 5743

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Il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l'onere di domandare il risarcimento del "maggior danno" ai sensi dell'art. 1224, secondo comma, cod. civ., e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest'ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 23/03/2015, n. 5743
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 5743
Data del deposito : 23 marzo 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. S G - Primo Presidente f.f. -
Dott. S G - Presidente di sez. -
Dott. R R - Presidente di sez. -
Dott. D A S - Consigliere -
Dott. M V - Consigliere -
Dott. C M M - Consigliere -
Dott. V R - Consigliere -
Dott. N G - Consigliere -
Dott. P S - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C D M, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso, per procura speciale a margine del ricorso, dall'Avvocato I F, elettivamente domiciliato in Roma, via della Conciliazione n. 44, presso lo studio dell'Avvocato G P;



- ricorrente -


contro
P A A (PRS NNT 34T60 B606R), D R G (DRC GPP 65A18 B606V) e D R A (DRC NGL 61M61 C783M), rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al controricorso, dall'Avvocato P M, elettivamente domiciliati in Roma, via Panama n. 110, presso lo studio dell'Avvocato G M;

- controricorrenti e ricorrenti incidentali -
avverso la sentenza della Corte d'appello dell'Aquila n. 3 del 2009, depositata in data 13 gennaio 2009;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21 ottobre 2014 dal Consigliere relatore Dott. S P;

sentiti gli Avvocati Francesco Innocenzi e Mario Petrella;

sentito il P.M., in persona del Procuratore Generale Aggiunto, Dott.

CICCOLO

Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso principale e l'accoglimento dell'incidentale. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. - Con citazione del maggio 1990, Persia Antonia, D R A, D R G B e D R G convenivano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Avezzano, il Comune di Morino, chiedendo che venisse dichiarata la risoluzione, per inadempimento dei Comune, del contratto in data 15 settembre 1984 - con il quale il loro dante causa De Roccis Raffaele aveva acquistato, al prezzo di L. 70.000.000, il materiale legnoso ricavabile dal bosco denominato "Staccionata", e si era impegnato a fornire a Comune un certo quantitativo di legname da riscaldamento - e che il Comune venisse condannato alla restituzione della somma di L. 70.000.000, oltre alle spese di registrazione del contratto e per altre formalità, nonché al risarcimento dei danni.
Si costituiva il Comune contestando la domanda sul rilievo che il contratto era sottoposto alla condizione sospensiva del controllo da parte degli enti competenti e che a tal fine aveva chiesto il nulla osta a vari uffici della Regione Abruzzo, rivolgendosi, poi, stante l'inerzia delle amministrazioni coinvolte, al Ministero dei beni culturali e ambientali per il rilascio del nulla osta. Il Comune sosteneva, quindi, che nella propria condotta non era ravvisabile alcun inadempimento per la mancata esecuzione del contratto. Nel corso del giudizio il Comune eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, e la incompetenza per territorio del giudice adito;
chiedeva altresì di essere autorizzato a chiamare in causa, in garanzia, la Regione Abruzzo, la Regione Lazio e il Ministero dei beni culturali.
Espletata una c.t.u., il Tribunale adito disattendeva le eccezioni di difetto di giurisdizione e di incompetenza territoriale e condannava il Comune di Morino alla restituzione, in favore degli attori, della somma di Euro 36.151,98, anticipatamente versata per l'acquisto del bosco, oltre interessi legali sino al saldo;
rigettava invece le domande di risoluzione per inadempimento e di rivalutazione monetaria, ritenendo che il contratto si fosse risolto per impossibilità sopravvenuta della prestazione del Comune. Quanto alla giurisdizione, il Tribunale riteneva che quella del giudice ordinario derivasse dal fatto che la controversia atteneva "all'esecuzione del contratto stipulato fra le parti". 2. - Avverso questa sentenza proponevano appello principale gli originari attori (D R A anche quale cessionaria della quota del credito vantata dal fratello D R G B), chiedendo la condanna del Comune al pagamento della somma di Euro 456.188,44, quale risarcimento dei danni da lucro cessante, nonché alla rivalutazione della somma dovuta a titolo di restituzione del prezzo.
li Comune si costituiva ribadendo le eccezioni di difetto di giurisdizione e di incompetenza territoriale, nonché l'istanza di autorizzazione alla chiamata in causa delle Regioni Abruzzo e Lazio e del Ministero dei beni culturali.
3. - La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza non definitiva depositata il 3 gennaio 2009, disattendeva, in primo luogo, l'eccezione di difetto di giurisdizione, rilevando che, pur se il giudice di primo grado non aveva esaminato tutti gli argomenti sui quali la detta eccezione si fondava, doveva comunque affermarsi la giurisdizione de giudice ordinario. Questa, infatti, non era esclusa dal fatto che l'inadempimento potesse essere riferito al mancato o tardivo rilascio dell'autorizzazione da parte della Regione Lazio, potendo tale circostanza rilevare solo ai fini della decisione sul merito della domanda, restando la controversia circoscritta a posizioni di diritto soggettivo scaturite da un negozio di natura privatistica.
Quanto alla eccezione di incompetenza territoriale, la Corte d'appello ne affermava la inammissibilità, sia perché tardivamente introdotta in giudizio, sia perché non assistita, in appello, da specifiche censure alle ragioni della decisione di primo grado. Con riferimento all'assenza di provvedimenti sulla richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa, la Corte d'appello rilevava che si trattava di omissione alla quale non era possibile ovviare ne' con i rimedi di cui all'art. 354 cod. proc. civ., ne' disponendo la chiamata in appello, ma solo con la proposizione di separata domanda dinnanzi al giudice di primo grado.
Nel merito, la Corte d'appello accoglieva l'appello principale, ritenendo provato l'inadempimento del Comune che, a seguito della entrata in vigore della L. n. 431 del 1985, aveva tardato nel chiedere l'autorizzazione alla Regione Lazio e, una volta non ottenuta risposta, aveva tardato nel sollecitare l'intervento del Ministero dei beni culturali. La Corte territoriale rigettava, quindi, l'appello incidentale, dichiarava risolto il contratto per inadempimento del Comune di Morino e rimetteva poi la causa in istruttoria per la quantificazione del danno conseguente all'inadempimento del Comune.
4. - Per la cassazione di questa sentenza il Comune di Morino ha proposto ricorso affidato a cinque motivi;
gli intimati hanno resistito con controricorso e hanno, a loro volta, proposto ricorso incidentale sulla base di un motivo.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo del ricorso principale il Comune denuncia il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, rilevando che il contratto del 1984 doveva ritenersi assoggettato alla disciplina introdotta dalla L. n. 431 del 1985, che ha prescritto per il taglio dei boschi un regime autorizzatorio, individuando nella Regione l'autorità competente. Il contratto intercorso con il De Roccis, dunque, pur avendo natura privatistica, era condizionato al rilascio delle prescritte autorizzazioni di legge;
autorizzazione nella specie rilasciata solo nel 1993. Ritiene, quindi, che la controversia rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34 atteso che la materia dell'urbanistica concerne tutti profili attinenti a modifiche del territorio. 2. - Con il secondo motivo il Comune ricorrente denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione quanto alla questione della chiamata in causa delle Regioni Lazio e Abruzzo e al relativo litisconsorzio necessario, nonché omessa motivazione sulla eccepita incompetenza territoriale del giudice adito. Ricordato che l'istanza di autorizzazione alla chiamata in causa era stata formulata già nel corso del giudizio di primo grado e che il Tribunale aveva omesso ogni statuizione al riguardo, il Comune ricorrente sostiene che erroneamente la Corte d'appello avrebbe rigettato il relativo motivo di gravame, giacché, nel caso di specie, doveva ravvisarsi l'esistenza di un litisconsorzio necessario.
3. - Con il terzo motivo il Comune di Morino deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1325 e 1346 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con travisamento e/o omesso esame dei fatti prospettati nell'appello incidentale. Il ricorrente lamenta una non adeguata valutazione, da parte della Corte d'appello, del contenuto letterale del contratto e della mancata attivazione del De Roccis e dei suoi aventi causa nel diffidare il Comune e gli organi preposti al controllo, onde pervenire all'autorizzazione del contratto e alla sua possibile esecuzione. 4. - Con il quarto motivo (indicato come quinto in ricorso), il Comune denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1256 e 1463 cod. civ.. Richiamato il quadro normativo rilevante e le questioni sorte all'indomani della entrata in vigore della L. n. 431 del 1985, nonché ricostruito il proprio operato, il Comune sostiene
che la sentenza impugnata sarebbe affetta da motivazione illogica, non avendo tenuto in alcuna considerazione le evidenziate modifiche legislative e le attività poste in essere al fine di contemperare l'interesse alla conservazione ambientale con quella di dare esecuzione al contratto.
5. - Con il quinto motivo (sesto nella numerazione del ricorso), il Comune denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225, 1226, 1227, 2056 e 2697 cod. civ., nonché omessa e contraddittoria motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata ha riconosciuto il lucro cessante della commercializzazione del legname ricavabile dal taglio, nonché-inesistente, illogica e contraddittoria motivazione in relazione alla valutazione della c.t.u. redatta dal Geom. Bernardi Luigi. In particolare, il Comune rileva la inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata sul punto, e la omessa considerazione dell'avvenuta dimostrazione del disinteresse al taglio del bosco da parte degli eredi del De Roccis, in assenza, inoltre, di una prova rigorosa dell'esistenza del liquidato danno da lucro cessante, e non considerando la portata dell'art. 1227 c.c., comma 2, avente una sicura efficacia riduttiva del pregiudizio nel caso di specie. Inoltre, la Corte d'appello non avrebbe tenuto in alcun conto il verbale redatto dall'ispettore forestale T, in ordine alla consistenza del bosco da tagliare.
6. - Con l'unico motivo di ricorso incidentale Persia A A, D R G e D R A, anche quale cessionaria della quota del fratello G, denunciano violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 c.c., comma 2, dolendosi del fatto che la Corte d'appello abbia escluso il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di restituzione del prezzo di acquisto del bosco.
A conclusione del motivo, i ricorrenti incidentali formulano il seguente quesito di diritto: Ove sorga un credito da inadempimento contrattuale, ha diritto il creditore anche se non imprenditore alla rivalutazione monetaria costituita dalla differenza tra tasso degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284 cod. civ., comma 1 ed il rendimento medio annuo dei titoli di stato
di durata non superiore ad un anno, (a) partire dalla costituzione in mora (citazione) fino al soddisfo?".
7. - Il ricorso principale è inammissibile, perché non rispetta la prescrizione di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ. Alla stregua della letterale formulazione del citato art. 366-bis cod. proc. civ. - introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dal
D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 e abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 ma applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 4 luglio 2009 (cfr. L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5) - questa Corte è ferma nel ritenere che "il quesito di diritto imposto dall'art. 366-bis proc. civ., rispondendo all'esigenza di soddisfare l'interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell'interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l'enunciazione di una regola juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata" (Cass., n. 11535 del 2008;
Cass., S.U., n. 2863 del 2009). In particolare, il quesito di diritto di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ. deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli
elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;
b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;
c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie (Cass. n. 19769 del 2008) e non può essere desunto dal contenuto del motivo, poiché in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l'indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all'art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 consiste proprio nell'imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità (Cass., ord. n. 20409 del 2008). Ai sensi dell'art. 366-bis cod. proc. civ., dunque, il quesito inerente ad una censura in diritto - dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio giuridico generale - non può essere meramente generico teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l'errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile. Ne consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo (Cass. n. 3530 del 2012). Ove poi venga denunciato un vizio di motivazione, questa Corte è altrettanto ferma nel ritenere che, a seguito della novella del 2006, allorché il ricorrente denunci la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria e le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (Cass., S.U., n. 17838 del 2012). Ciò importa, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass., S.U., n. 20603 del 2007;
Cass. n. 3094 del 2014). Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che l'indicazione del fatto controverso e delle ragioni della non adeguatezza della motivazione sia esposta nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, occorrendo a tal fine una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.
Nella specie, appare evidente la non rispondenza dei motivi di ricorso all'art. 366-bis cod. proc. civ., in quanto i motivi con i quali si deduce violazione di legge sono del tutto carenti della formulazione del quesito di diritto, così come i motivi di ricorso, formulati ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, sono totalmente privi di tale momento di sintesi, iniziale o finale, perché manca un quid pluris rispetto all'illustrazione del motivo indicante le ragioni del dedotto vizio motivazionale.
Il ricorso principale va quindi dichiarato inammissibile. 8. - Il ricorso incidentale è infondato.
Questa Corte ha affermato il principio, che il Collegio condivide ed al quale intende dare continuità, per cui il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l'onere di domandare il risarcimento del "maggior danno" ai sensi dell'art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del
debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest'ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (Cass. n. 22273 del 2010). Nel caso di specie, il dante causa dei ricorrenti incidentali, nell'atto introduttivo del presente giudizio, ebbe a chiedere la condanna del Comune di Morino alla restituzione del prezzo di L. 70.000.000, oltre l'importo corrispondente alla spese di registrazione e alle altre formalità di legge per complessive L. 4.051.745, "con interessi di mora e rivalutazione monetaria". Appare, dunque, evidente come la domanda del dante causa dei ricorrenti incidentali (i quali poi hanno nel corso del giudizio - e segnatamente in appello, come si desume dalle conclusioni riportate nella sentenza impugnata - riproposto la domanda nei medesimi termini già prospettati dal loro dante causa), non fosse una domanda di riconoscimento dei maggior danno, ai sensi dell'art. 1224 c.c., comma 2, ma proprio una domanda di corresponsione del capitale e della
rivalutazione monetaria.
Non era stata dunque domandata una somma di denaro, "oltre agli interessi ed al maggior danno da svalutazione monetaria", come si deve nei debiti di valuta ex art. 1224 cod. civ. se si intenda essere indennizzati del maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello già coperto dagli interessi legali, ma si era formulata una domanda che implicitamente, ed erroneamente, assumeva che il debito fosse di valore.
9. - In conclusione il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile e quello incidentale va rigettato.
In considerazione della prevalente soccombenza del ricorrente principale, le spese del giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo, vanno poste per due terzi a carico del ricorrente principale, con compensazione del restante terzo.

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