Cass. civ., sez. I, sentenza 24/03/2004, n. 5874

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Con riferimento alle espropriazioni regolate dalla disciplina "a regime" di cui all'art. 5 bis d.l. n. 333 del 1992 (conv., con modif., dalla legge n. 359 del 1992), relativa alla determinazione della corrispondente indennità per i suoli edificabili, se per un verso la possibilità di convenire la cessione volontaria e, dunque, di allacciare trattative contrattuali paritarie con l'espropriante, induce tendenzialmente ad un'applicazione rigorosa del sistema afferente la suindicata determinazione sulla base del primo comma del medesimo art. 5 bis, nel senso che il premio della mancata decurtazione del quaranta per cento (di cui al secondo comma di quest'ultimo articolo) dipende dalla sola condizione dell'avvenuta cessione volontaria del bene, sono tuttavia rimesse, per altro verso, al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione della vicenda amministrativa concernente la determinazione indennitaria e la scelta, sindacabile in sede di legittimità entro i limiti della logicità e congruità della motivazione, di non operare l'abbattimento del quaranta per cento per essere dipesa la mancata accettazione dell'indennità da un'offerta amministrativa rivelatasi palesemente irrisoria, simbolica, o strumentalmente mirata ad ottenere l'abbattimento stesso, o comunque non congrua rispetto al valore del bene ed al criterio di calcolo previsto dal sopra citato art. 5 bis. (Nella fattispecie la S.C. ha cassato, per violazione di legge, la sentenza di merito che aveva applicato la decurtazione del quaranta per cento senza avere previamente verificato l'esistenza dell'offerta dell'espropriante valutandone congruità, equità e non irrisorietà).

Nella determinazione dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità, una volta accertata la vocazione edificatoria del suolo alla stregua degli strumenti urbanistici vigenti, ben possono assumere rilevanza, in sede di individuazione del valore di mercato (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico - ricostruttivo) dell'area stessa, come componenti dei parametri di cui all'art. 5 bis d.l. n. 333 del 1992 (conv., con modif., nella legge n. 359 del 1992), i profili attinenti agli oneri di urbanizzazione al momento dell'esproprio, nel senso di considerare vuoi la preesistenza delle relative opere, le quali, eseguite nella zona dallo stesso espropriante, assicurano l'immediata utilizzazione edificatoria dell'area, apprezzabile come sua qualità intrinseca rilevante in una libera contrattazione, vuoi, all'opposto, l'inesistenza di siffatte opere.

Le aree comprese dal piano regolatore generale nell'ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP) assumono carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore (nella fattispecie eseguita mediante applicazione del metodo analitico - ricostruttivo), come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione dell'indennità di espropriazione, dell'incidenza negativa esercitata sul valore dell'area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all'esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione appunto stabiliti, indipendentemente dall'espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli "standards" del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest'ultimo.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 24/03/2004, n. 5874
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 5874
Data del deposito : 24 marzo 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. S A - Presidente -
Dott. P D - Consigliere -
Dott. A M - Consigliere -
Dott. C W - Consigliere -
Dott. G P - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
W P e F P, quest'ultimo nella veste di erede del defunto G P, elettivamente domiciliati in Roma, Via Fulceri Paolucci Dè Calboli n. 5, presso lo studio dell'Avv. F D M che li rappresenta e difende, anche disgiuntamente dall'Avv. R B del foro di Venezia, in forza di procura speciale a margine del ricorso;



- ricorrenti -


contro
COMUNE di C M, elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere Flaminio n. 46, presso lo studio dell'Avv. Prof. G P che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del controricorso;



- controricorrente -


avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia n. 1157/2000 pubblicata il 21.6.2000. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 2.7.2003 dal Consigliere Dott. P G;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. V M, il quale ha concluso per l'accoglimento del primo e del secondo motivo del ricorso, assorbito il terzo, nonché per il rigetto del quarto e del quinto motivo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 5.3.1993, Gianni e W Panizzolo convenivano davanti alla Corte di Appello di Venezia il Comune di Campolongo Maggiore, premettendo:
a) di essere comproprietari di alcuni terreni siti nel Comune anzidetto, località Bojon;

b) che, con delibera n.85 del 30.7.1990, tali beni erano stati compresi in un piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.);

c) che, con delibera n.78 del 31.1.1991, era stata avviata la procedura espropriativa per l'acquisizione delle aree necessarie alla realizzazione del piano stesso;

c) che era stata quindi loro comunicata l'indennità provvisoria, pari a lire 358.685.000, nonché, successivamente, quella definitiva, corrispondente a lire 81.824.000 per i mappali a vocazione edificatoria e a lire 278. 212.000 per i mappali a destinazione agricola;

d) che siffatta indennità appariva sicuramente irrisoria, posto che tutta l'area risultava edificabile;

Tanto premesso, gli attori chiedevano che, in riforma del provvedimento della competente Commissione provinciale, venisse determinata l'indennità loro spettante, con condanna del medesimo Comune al pagamento del relativo importo maggiorato degli accessori. Radicatosi il contraddittorio, si costituiva il convenuto il quale:
a) negava preliminarmente la propria legittimazione passiva, deducendo che ogni pretesa dovesse essere rivolta nei confronti dell'Amministrazione Provinciale, ovvero al soggetto che aveva, in piena autonomia, determinato l'indennizzo;

b) assumeva che la destinazione dei beni dovesse effettuarsi solo con riferimento allo strumento urbanistico vigente, il quale, nella specie, comprendeva i suoli oggetto di esproprio in zona agricola;

c) concludeva per il rigetto della domanda.
Il giudice adito, con sentenza del 9.5/21.6.2000, determinava in lire 247.136.657 l'indennità di esproprio spettante agli attori opponenti, con gli interessi legali dal 5.4.1993 al deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti, determinava nella misura degli interessi legali sulla somma anzidetta, a decorrere dalla data di emissione del decreto e sino al 5.9.1993, l'indennità di occupazione provvisoria, con ulteriori interessi legali, sulla somma così quantificata, dal 5.9.1993 al deposito, ordinava il deposito di entrambe le somme presso la Cassa anzidetta e compensava interamente tra le parti le spese di lite.
Assumeva la Corte territoriale:
a) che dovesse negarsi fondamento alla preliminare eccezione del convenuto, essendo parte del rapporto espropriativo e obbligato al pagamento dell'indennità, come tale legittimato passivo nel giudizio di opposizione alla stima, il soggetto espropriante, ovvero colui nei cui confronti fosse stato pronunciato il decreto di esproprio;

b) che i beni ablati, nella specie, risultassero compresi, all'atto dell'esproprio (5.4.1993), nel piano per insediamenti produttivi (P.I.P.) approvato già nel luglio del 1990, onde appariva fondata la prospettata natura edificatoria dei mappali in oggetto, così come l'applicazione, per tutta l'area, delle regole sancite dall'art. 5 bis della legge n.359 del 1992;

c) che, quanto alla determinazione dell'indennizzo, la valutazione del consulente si palesasse congruamente motivata, avendo quest'ultimo, nel primo elaborato, distinto tra aree edificabili e aree agricole, determinando il valore venale dei beni appartenenti alla prima di dette aree in lire 55.000 al metro quadrato, laddove il medesimo consulente, con il secondo elaborato, aveva opportunamente apprezzato il valore anzidetto tenendo conto della comprensione dei mappali nel piano per gli insediamenti produttivi, stabilendo l'esatta quotazione e poi depurandola dei costi di urbanizzazione nella misura del quaranta per cento, così da addivenire al prezzo praticato in quella zona, per quel determinato tipo di insediamento edificatorio, all'atto della pronuncia del decreto di esproprio;

d) che la determinazione dell'indennità dovesse subire la decurtazione del quaranta per cento ai sensi dell'ultima parte del primo comma del sopra citato art. 5 bis;

e) che i travagli giurisprudenziali in materia giustificassero l'integrale compensazione delle spese di lite.
Avverso tale sentenza, propongono ricorso per cassazione W e F P (quest'ultimo in qualità di erede del defunto Gianni Panizzolo), deducendo cinque motivi di gravame, illustrati da memoria, cui resiste il Comune di Campolongo Maggiore con controricorso ugualmente illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve, innanzi tutto, essere riconosciuta l'inammissibilità del suindicato controricorso, il quale, a fronte della notifica del ricorso avvenuta il 27.4.2001, risulta a propria volta notificato il 6.11.2001, ovvero ben oltre il termine di cui al combinato disposto degli artt. 370, primo comma e 369, primo comma, c.p.c., onde parimenti inammissibile, ai sensi del già citato art. 370, primo comma, ultima parte, c.p.c., va ritenuta la memoria ex art. 378 c.p.c. presentata dal Comune di Campolongo Maggiore, il quale, per
tale motivo, sarebbe stato legittimato soltanto a partecipare alla discussione orale, cui, peraltro, non è neppure intervenuto. Con il primo motivo di impugnazione, lamentano i ricorrenti violazione e falsa applicazione dell'art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 e dell'art. 15 c.p.c., nonché errata, illogica motivazione
su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c., deducendo:
a) che, riguardo alla quantificazione dell'indennizzo, la valutazione del consulente tecnico d'ufficio è errata ed illogica, onde errata ed illogica è la sentenza che l'ha recepita acriticamente, in ragione dell'impossibilità di una considerazione distinta circa il valore di mercato dell'area riconosciuta e qualificata edificabile ("per vocazione edificatoria") che costituisce parte integrante di tutta l'area espropriata e circa il valore di mercato di tutta l'area espropriata in base alla sua destinazione quale Piano per Insediamenti Produttivi (in sigla, PIP);

b) che non è esatto individuare un valore di mercato per l'area a vocazione edificatoria ed un altro per l'area edificabile di diritto, attesa la non praticabilità della valutazione separata dell'area a vocazione edificatoria in caso di aree edificabili, suscettibili cioè di edificazione (legale ed effettiva), essendo adesso, tanto la porzione precedentemente agricola senza vocazione edificatoria quanto quella con vocazione edificatoria, edificabili di diritto, per la loro destinazione quale PIP;

c) che appare, pertanto, inaccettabile la motivazione della sentenza impugnata, la quale, sulla base delle conclusioni della consulenza tecnica, ha determinato il valore di mercato dell'area espropriata in lire 26.428 al metro quadrato, allorquando dalle risultanze istruttorie era emerso che il valore venale dell'area a vocazione edificatoria era di lire 55.000 al metro quadrato, onde, avendo tutta l'area espropriata le medesime condizioni di fatto, il valore di mercato di tutta l'area espropriata doveva essere determinato, quanto meno, in lire 55.000 al metro quadrato, pari al valore dell'area a vocazione edificatoria;

d) che la sentenza impugnata ha immotivatamente escluso il carattere edificatorio anche di fatto dei mappali compresi nel PIP e, per l'effetto, ha depurato erroneamente la quotazione dell'area dei costi delle opere di urbanizzazione nella misura del 40%, pur riconoscendone l'edificabilità di diritto.
Il motivo non è fondato.
Giova al riguardo osservare come la Corte territoriale, sulla base dell'incensurato apprezzamento secondo cui, nella specie, "i beni ablati erano ricompresi, all'atto dell'esproprio (5.4.1993), in un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.), approvato già nel luglio 1990, che ha natura di variante del Piano Regolatore Generale", abbia, quindi, con apprezzamento del pari incensurato, ritenuto "fondata la prospettata natura edificatoria dei mappali in oggetto, così come l'applicazione, per tutta l'area, delle regole sancite dall'art. 5 bis L. 359/1992". Tanto premesso, è da notare che la medesima Corte, circa la quantificazione dell'indennizzo, ha poi condiviso la valutazione operata dal consulente nel senso di ritenere pari a "lire 26.428 al mq." il valore di mercato dei mappali stessi (sul quale applicare la semisomma di cui all'art. 5 bis, primo comma, della legge n. 359 del 1992, nonché, salvo quanto attiene all'esame del secondo motivo di
impugnazione, la riduzione del quaranta per cento prevista dall'ultima parte dell'anzidetto primo comma dell'art. 5 bis), ottenuto determinando il valore venale "base" (corrispondente "a lire 55.000", valorizzando la vicinanza dei mappali ad altri ed in particolare ad un "comparto edificatorio" già esistente in loco) dei beni appartenenti ad aree con vocazione edificatoria, stabilendone quindi "la esatta quotazione (lire 37.000 al mq.)" in ragione "della ricomprensione dei mappali nel piano per gli insediamenti produttivi" ed infine depurando tale ultima somma "dei costi di urbanizzazione nella misura del 40%", così da giungere "al prezzo praticato in quella zona, per quel determinato tipo di insediamento edificatorio, all'atto della pronuncia (aprile 93) del decreto di esproprio". Appare, dunque, palese come la stima della Corte territoriale:
a) prenda correttamente (e coerentemente con le premesse sopra riportate) a base il valore venale (apprezzato, si è già detto, in lire 55.000 al metro quadrato) dei mappali, siccome appartenenti ad un'area a vocazione edificatoria, senza che risultino, perciò, minimamente considerati i criteri di determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree agricole, di cui all'art. 5 bis, quarto comma, della richiamata legge n.359 del 1992;

b) operi, quindi, su tale importo di lire 55.000, per addivenire alla somma conclusiva di lire 26.428 al metro quadrato, due generi di decurtazioni, la prima (sino cioè a lire 37.000) "tenendo conto della ricomprensione dei mappali nel piano per gli insediamenti produttivi", la seconda depurando quest'ultima quotazione "dei costi di urbanizzazione nella misura del 40%".
Entrambe queste decurtazioni, nessuna censura essendo stata dedotta, in sè, dai ricorrenti quanto alla misura (concretamente applicata) delle suindicate operazioni e quanto alla correttezza dei relativi calcoli, si palesano legittime.
Premesso, infatti, come traspaia dallo stesso richiamo della Corte territoriale "al prezzo praticato nella zona, per quel determinato tipo di insediamento edificatorio", che detto giudice ha fatto applicazione del metodo analitico-ricostruttivo, teso ad accertare il valore di trasformazione del suolo, non anche del metodo sintetico- comparativo, il quale si avvale di una serie di riferimenti costituiti dal prezzo materialmente pagato per immobili omogenei, vale notare che la prima decurtazione, quella cioè che ha tenuto conto "della ricomprensione dei mappali nel piano per gli insediamenti produttivi", appare coerente con il principio secondo cui le aree comprese dal piano regolatore generale nell'ambito di un piano siffatto (PIP), come nella specie, assumono carattere edificatorio e subiscono la conformazione propria del piano stesso, onde, nella determinazione del loro valore, come non si può tenere conto, ai fini della liquidazione della relativa indennità, dell'incidenza negativa esercitata sul valore dell'area dal vincolo specifico di destinazione preordinato all'esproprio, così sono invece suscettibili di considerazione i vincoli di conformazione appunto stabiliti, indipendentemente dall'espropriazione, in virtù della preesistente destinazione urbanistica legale e deve, perciò, in particolare, essere fatto riferimento agli "standards" del piano anzidetto, come, ad esempio, agli indici di fabbricabilità previsti da quest'ultimo (Cass. 10 dicembre 1991, n. 13250;
Cass. 10 febbraio 1999, n. 1113;
Cass. 5 maggio 1999, n. 4473;
Cass. 22 febbraio 2000, n. 1997;
Cass. 17 settembre 2001, n. 11621;
Cass. 6 dicembre 2002, n. 17348). La seconda decurtazione, ovvero quella che ha tenuto conto "dei costi di urbanizzazione", si palesa a propria volta coerente con il principio secondo cui, una volta accertata la vocazione edificatoria del fondo alla stregua degli strumenti urbanistici vigenti, ben possono assumere rilevanza, in sede di individuazione del valore di mercato dell'area stessa, come componenti dei parametri di cui al già citato art. 5 bis, i profili attinenti agli oneri di urbanizzazione al momento dell'esproprio, nel senso di considerare vuoi la preesistenza delle relative opere, le quali, eseguite nella zona dallo stesso espropriante, assicurano l'immediata utilizzazione edificatoria dell'area, apprezzabile come sua qualità intrinseca, rilevante in una libera contrattazione, vuoi, all'opposto, l'inesistenza di siffatte opere (Cass. 29 agosto 1998, n. 8648;
Cass. 1^ settembre 1999, n. 9207;
Cass. 26 giugno 2001, n. 8685;
Cass. 4 settembre 2001, n. 11391). Con il secondo motivo di impugnazione, lamentano i ricorrenti errata applicazione dell'ultima parte del primo comma dell'art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, nonché vizio di motivazione, in relazione
all'art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c., deducendo:
a) che la sentenza impugnata va altresì censurata in relazione all'operata riduzione del quaranta per cento dell'indennità di espropriazione, ai sensi della già richiamata ultima parte del primo comma dell'art. 5 bis in epigrafe;

b) che nella specie, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, è di tutta evidenza come quest'ultima indennità non dovesse subire la decurtazione sopra indicata, prevista dal citato art. 5 bis, in quanto le doglianze prospettate dagli odierni ricorrenti hanno trovato puntuale riscontro nel giudizio di opposizione alla stima, là dove detta Corte ha ritenuto fondata, e quindi condiviso, siffatta prospettazione circa la natura edificatoria di tutta l'area in oggetto, mentre dall'Amministrazione era stato sostenuto il carattere agricolo di gran parte del suolo ed era stata, di conseguenza, erroneamente determinata l'indennità di espropriazione secondo il criterio basato sul disposto dell'art. 16 della legge n. 865 del 1971, onde la macroscopica incongruità di
tale indennità, stimata in sede di procedimento espropriativo nella misura di circa la metà del valore apprezzato dal consulente tecnico (di ammontare, peraltro, considerevolmente ridotto, giusta quanto sostenuto dagli odierni ricorrenti);

c) che, del resto, la Corte territoriale non ha neppure spiegato le ragioni per le quali ha deciso di decurtare l'indennità di espropriazione del quaranta per cento, cosicché la sentenza gravata appare altresì affetta da vizio di motivazione.
Il motivo è fondato.
Premesso, infatti, che il giudice di merito si è limitato ad enunciare l'applicabilità della decurtazione del quaranta per cento "ai sensi dell'ultima parte del 1^ comma dell'art. 5 bis", si osserva come questa Corte, con indirizzo uniforme (Cass. 25 maggio 2001, n. 7107;
Cass. 23 novembre 2001, n. 14868;
Cass. 12 aprile 2002, n. 5263;
Cass. 19 aprile 2002, n. 5727;
Cass. 2 aprile 2003, n. 5059;
Cass. 4 aprile 2003, n. 5263), abbia ritenuto che, in tema di espropriazione per pubblica utilità e con specifico riferimento alle espropriazioni regolate dalla disciplina "a regime" di cui all'art. 5 bis della legge 8 agosto 1992, n. 359 (di conversione, con
modificazioni, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333), relativa alla determinazione della corrispondente indennità per i suoli edificabili, se per un verso la possibilità di convenire la cessione volontaria e, dunque, di allacciare trattative contrattuali paritarie con l'espropriante, induce tendenzialmente ad un'applicazione rigorosa del sistema afferente la suindicata determinazione sulla base del primo comma del medesimo art. 5 bis, nel senso che il premio della mancata decurtazione del quaranta per cento (di cui al secondo comma di quest'ultimo articolo) dipende dalla sola condizione dell'avvenuta cessione volontaria, appunto, del bene sottoposto a procedura espropriativa, sono tuttavia rimesse, per altro verso, al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione della vicenda amministrativa concernente la determinazione indennitaria e la scelta, sindacabile in sede di legittimità entro i limiti di logicità e congruità della motivazione, di non operare l'abbattimento del quaranta per cento per essere dipesa la mancata accettazione dell'indennità da un'offerta amministrativa rivelatasi palesemente irrisoria, simbolica o strumentalmente mirata ad ottenere l'abbattimento stesso, o comunque non congrua rispetto al valore del bene ed al criterio di calcolo previsto dal sopra citato art. 5 bis. Siffatto orientamento ha trovato implicito conforto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, là dove questa, con la sentenza n. 262 dell'11 luglio 2000, pur avendo dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del già menzionato art. 5 bis, comma primo nella parte in cui stabilisce la riduzione del quaranta per cento dell'importo dovuto a titolo di indennità di espropriazione di aree edificabili prevedendo la medesima disciplina sia per coloro che non abbiano accettato di stipulare la cessione volontaria pur in presenza di un'offerta legittimamente computata, sia per coloro che non siano stati posti in condizione di stipulare tale cessione per un comportamento illegittimo della controparte, menomando così in modo eccessivo il diritto di difesa di tali ultimi soggetti sottoposti a rischi ingiustificati per la proposizione delle azioni giudiziarie volte a tutelare il proprio diritto alla conclusione di una cessione volontaria alle condizioni di legge, si è tuttavia espressa nel senso che, se gli eventuali, prospettati abusi delle autorità amministrative nella determinazione dell'indennità di esproprio offerta al soggetto espropriato, ovvero le non congrue valutazioni nella determinazione dell'indennità, non possono influire sulla legittimità costituzionale delle norme, restando tali profili estranei al giudizio di costituzionalità (limitato, peraltro, al comma primo dell'art. 5 bis), le esigenze di superare alcune anomalie di applicazione della disposizione enunciata o di cattivo funzionamento di organi amministrativi nei casi più manifesti hanno trovato, nella prassi e nella giurisprudenza, una pluralità di risposte, la cui concreta praticabilità rientra nelle scelte di tutela delle parti e nelle esclusive valutazioni interpretative dei giudici chiamati ad applicare le norme relative. In simili termini, pertanto, la sentenza impugnata, nella parte in cui ha proceduto all'applicazione del disposto dell'art. 5 bis, primo comma, ultima parte, della legge n. 359 del 1992, ovvero alla decurtazione del quaranta per cento, senza avere previamente verificato l'esistenza dell'offerta dell'espropriante valutandone congruità, equità e non irrisorietà, mostra di contraddire i principi di diritto sopra enunciati, onde soggiace alle censure (per violazione di legge, assorbite quelle per vizio di motivazione) dedotte dai ricorrenti. Restando, così, assorbito il terzo motivo di impugnazione, potendo la questione ad esso sottesa divenire rilevante soltanto in relazione ad uno dei prevedibili esiti del giudizio di rinvio, conseguente alla cassazione della sentenza impugnata per il motivo accolto, con il quarto motivo lamentano i ricorrenti violazione e falsa applicazione dell'art. 1224, secondo comma, c.c., dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 16 c.p.c., nonché vizio di motivazione, in relazione all'art. 360,
n.3 e n. 5, c.p.c., deducendo:
a) che la sentenza impugnata ha escluso il maggior danno, ex art. 1224, secondo comma, c.c., sul rilievo che alcuna prova gli opponenti
hanno fornito del dedotto pregiudizio derivante dal deprezzamento della moneta;

b) che tale argomentazione è errata alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza in punto di riconoscimento del maggior danno al creditore occasionale di una ingente somma a lui spettante per il compimento della procedura ablatoria di un bene di sua proprietà;

c) che da tali principi si è discostata la sentenza impugnata, là dove ha escluso che la presunzione di impiego del denaro nella forma, quanto meno, del deposito bancario, si attaglia a qualunque creditore occasionale di rilevanti somme di denaro, erroneamente ritenendo che gli opponenti, con riguardo alla dedotta qualifica di comuni investitori, non avevano fornito la prova del pregiudizio derivante dal deprezzamento della moneta ed omettendo di spiegare le ragioni per le quali non ha ritenuto che gli opponenti, "comuni investitori", avrebbero presuntivamente impiegato il denaro eccedente i loro ordinari bisogni negli impieghi usuali del risparmio. Il motivo non è fondato.
Al riguardo, premesso come non sia di per sè oggetto di censura, da parte dei ricorrenti, l'inquadramento (operato dalla Corte territoriale) dell'indennità di esproprio nel novero dei debiti di valuta, si osserva che, in tema di obbligazioni pecuniarie, il riconoscimento in favore del creditore, oltre gli interessi, del maggior danno da svalutazione monetaria, ai sensi dell'art. 224, secondo comma, c.c., va ammesso nei limiti in cui il creditore
medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro, laddove, ai fini della quantificazione di tale danno, il ricorso a elementi presuntivi e a fatti notori deve ritenersi consentito soltanto in relazione a criteri individualizzati che tengano conto della categoria economica di cui il creditore anzidetto fa parte, ovvero alla stregua di dati individuali che devono essere forniti dall'interessato, onde, in questo senso, non si può prescindere dall'assolvimento, da parte dello stesso creditore, quanto meno di un onere di allegazione della propria appartenenza ad una delle anzidette categorie economiche e, quindi, degli elementi in base ai quali la misura del danno ulteriore sia concretamente determinabile nell'ambito di queste, così da consentire al giudice di verificare se, tenuto conto di siffatte qualità personali e professionali, un simile danno possa essersi verosimilmente prodotto, essendo, in ogni caso, da escludere che il ricorso a elementi presuntivi e a dati di comune esperienza possa mai tradursi nell'applicazione di parametri fissi, quali quelli desumibili dagli indici ISTAT o dal tasso corrente degli interessi bancari (Cass. 4 maggio 1994, n. 4321;
Cass. 16 novembre 1994, n. 9645;
Cass. 21 giugno 1995, n. 7024;
Cass. 1^ dicembre 1995, n. 12422;
Cass. 23 agosto 1996, n. 7772;
Cass. 20 giugno 1997, n. 5517;
Cass. 26 novembre 1997, n. 11878;
Cass. 26 marzo 1999, n. 2878;
Cass. 28 aprile 1999, n. 4287;
Cass. 19 maggio 1999, n. 4846;
Cass. 13 marzo 2001, n. 3646;
Cass. 2 agosto 2001, n. 10569;
Cass. 4 marzo 2003, n. 3158;
Cass.4 aprile 2003, n. 5263). Ciò posto, vale notare che, nella specie, i ricorrenti, a fronte dell'apprezzamento della Corte territoriale (il quale, giusta quanto precede, sottende l'applicazione di un principio di diritto di per sè non contrario a quelli sopra enunciati e che, del resto, non è, in quanto tale, altrimenti censurabile in sede di legittimità se non sotto le specie del vizio di motivazione) circa il fatto che "alcuna prova gli opponenti hanno fornito del dedotto pregiudizio derivante dal deprezzamento della moneta", si sono limitati a richiamare la "dedotta qualifica di comuni investitori" in capo agli opponenti, senza tuttavia specificatamente indicare (riportandone semmai, per esteso, il tenore letterale) gli atti della fase di merito dai quali possa desumersi la deduzione in parola, così contravvenendo, invece, al principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione venga denunziata l'omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l'asserita, mancata valutazione di circostanze o di risultanze processuali, è necessario, allo scopo di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della circostanza o della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente la precisi - ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso - indicando le ragioni di siffatta decisività, dato che, per il principio dell'autosufficienza dello stesso ricorso per cassazione, il controllo deve essere consentito al predetto giudice sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 1^ febbraio 1995, n. 1161;
Cass. 13 gennaio 1997, n. 265;
Cass. 5 aprile 1997, n. 2965;
Cass. 11 ottobre 1999, n. 11386;
Cass. 13 settembre 2000, n. 12080). Pertanto, restando altresì assorbito (per ragioni analoghe a quelle sopra indicate riguardo al terzo) il quinto motivo di impugnazione, relativo alla sorte delle spese di lite e, segnatamente, alla disposta compensazione di queste, il primo ed il quarto motivo del ricorso vanno rigettati, mentre il secondo merita accoglimento, onde la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, affinché detto giudice provveda a decidere la controversia demandata alla sua cognizione facendo applicazione dei principi sopra enunciati.

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