Cass. civ., sez. V trib., sentenza 01/03/2023, n. 6096
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In tema di rimborsi IVA, l'Amministrazione finanziaria, che abbia chiesto e ottenuto dal contribuente la garanzia in base all'art. 38 bis, comma 1 (ora comma 4), del d.P.R. n. 633 del 1972, durante il periodo di vigenza della medesima non può fare uso degli strumenti cautelari, rispetto ad essa alternativi, previsti dagli artt. 23, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 e 69 del r.d. n. 2440 del 1923, determinandosi, altrimenti, una ingiustificata duplicazione della cautela in favore dell'amministrazione e un carico eccessivo per il contribuente, in violazione del principio di collaborazione e buonafede posto dall'art. 10, comma 1, della legge n. 212 del 2000, nonché del principio di solidarietà sancito dall'art. 2 Cost. che deve ispirare anche i rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino. Qualora invece la tutela cautelare si relazioni a fattispecie penali diverse, o anche alla sola prospettazione di compensazioni tra crediti, oppure ad accertamenti in corso, nulla impedisce che l'Ufficio faccia ricorso agli altri strumenti cautelari purché supportato da motivazione esaustiva.
Massima redatta a cura del Ce.R.D.E.F.
Sul provvedimento
Testo completo
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza e dal ricorso si evince che le società incorporate chiesero il rimborso di un credito Iva, maturato nel corso degli anni 2003/2006, dei complessivo importo di C 1.052.800,00. Il credito era relativo all'iva assolta per le spese d'acquisto di autovetture e per i relativi costi di gestione. Il rimborso fu negato dall'Amministrazione finanziaria con un tacito rifiuto.
Le società, che contestavano l'indetraibilità dell'iva assolta secondo quanto previsto dell'art. 19-bis 1, primo comma, lett. c) e d), d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ratione temporis vigente, adirono la Commissione tributaria per il riconoscimento del diritto al rimborso.
Nelle more dei giudizi, con sentenza 14 settembre 2006, nei procedimento C-228/05, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea dichiarò la norma in contrasto con il diritto comunitario quanto ai limiti di detraibiiità. A seguito dell'intervento della CGUE fu emesso il d.l. 15 settembre 2006, n. 258, che prescriveva le modalità di rimborso, condizionate alla rinuncia ai ricorsi precedentemente instaurati, ciò che puntualmente le società osservarono, inoltrando quindi le istanze di rimborso sin dal 14 settembre 2007. Poiché dopo sette anni l'Amministrazione finanziaria non aveva provveduto ad eseguire i rimborsi, constatato l'ulteriore silenzio rifiuto, le ricorrenti ricorsero alla Commissione tributaria provinciale di Milano.
L'Agenzia si costituì sostenendo che ai sensi degli artt. 69 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, e 23 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 aveva sospeso l'erogazione del rimborso in considerazione di carichi pendenti delle società.
Il giudice di primo grado accolse le ragioni delle contribuenti con sentenza n. 677/02/2016, ma all'esito del giudizio d'appello introdotto dall'Agenzia delle entrate, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza n. 2104/14/2018, ora al vaglio della Corte, accolse invece l'impugnazione, rigettando il ricorso introduttivo delle società.
Il giudice regionale, dopo essersi diffuso nella rappresentazione della disciplina, menzionando in modo specifico l'art. 23 cit., ha affermato che al contribuente che abbia fatto istanza di rimborso di un credito iva, sono riconosciute due possibilità nell'ipotesi in cui abbia ricevuto la notifica di un avviso d'accertamento, l'una di garantire i carichi pendenti mediante una fideiussione a tempo indeterminato, l'altra di non prestare garanzia, nella quale ipotesi, qualora l'atto irrogativo di sanzioni o impositivo per maggiori tributi non sia definitivo, l'Amministrazione può sospendere il pagamento dei credito iva;
se invece l'atto è definitivo, l'Amministrazione può compensare il credito iva del contribuente con l'importo dell'atto impositivo. Il giudice regionale ha quindi constatato che la contribuente non aveva prestato fideiussione per i carichi pendenti, né prestato garanzia pur in presenza di provvedimenti impositivi per maggiori imposte.
La società ha censurato la sentenza con cinque motivi, chiedendone la cassazione, cui ha resistito l'Agenzia delle entrate con controricorso.
All'esito della udienza pubblica del 25 ottobre 2022 la causa è stata riservata e decisa.
La società ha depositato memorie difensive.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente si duole della nullità della sentenza, per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., quanto all'omessa pronuncia sulla preliminare eccezione di inammissibilità dell'appello, eccepita dall'appellata;
con il secondo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell'art. 57, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., quanto alla
circostanza che con l'impugnazione l'Agenzia delle entrate aveva introdotto nel giudizio nuovi fatti.
I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché entrambi diretti a formulare una critica alla sentenza in ordine alle sollevate eccezioni di inammissibilità dell'appello, sono infondati.
Dalla stessa ricostruzione della vicenda, così come riferita nel ricorso, emerge che nel giudizio di primo grado l'Amministrazione finanziaria si era costituita contraddicendo alla domanda della società sull'assunto della esistenza di carichi pendenti che giustificavano la sospensione dell'erogazione del rimborso. Rispetto a tale difesa, che pur rileva come le ragioni dell'ufficio fossero individuate «mediante l'allegazione di alcune schermate del servizio Ser.P.I.Co», la ricorrente sostiene come esse fossero state tuttavia ritenute inintelligibili perché «dalla predetta documentazione [...] UIH non è mai riuscita a desumere la tipologia di provvedimento notificato, né tanto meno la pretesa erariale in esso contenuta o qualsivoglia ulteriore elemento di semplice individuazione ai fini di una eventuale contestazione» (controdeduzioni in appello della società, così come virgolettate e riprodotte alla pag. 10 dell'attuale ricorso).
Ebbene, l'eccezione di inammissibilità dell'appello, su cui la ricorrente afferma che la commissione regionale abbia omesso di pronunciarsi, o, per l'ipotesi che il silenzio corrisponda ad un rigetto implicito, abbia erroneamente interpretato l'art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, è fondata sulla novità dei fatti che l'Amministrazione finanziaria avrebbe addotto in sede d'appello (identificazione dei carichi fiscali giustificanti la sospensione del rimborso), in violazione del divieto di "nova" in sede di impugnazione.
Sennonché con la produzione di una documentazione più intelligibile rispetto a quella depositata nel giudizio di primo grado, documentazione che rendeva cioè leggibili i maggiori crediti fiscali o le sanzioni irrogate alla società contribuente, l'ufficio non ha affatto formulato domande nuove o eccezioni nuove. A fronte della scarsa leggibilità della documentazione inizialmente prodotta in sede d'appello ne ha allegata altra più decifrabile, ma sempre e solo di documenti si tratta, in stretta osservanza a quanto previsto dall'art. 58, comma 2, del d.lgs. 546 del 1992. È del tutto eccentrico invece far passare per "fatti" nuovi i documenti comprovanti i carichi pendenti della società nei confronti dell'Amministrazione finanziaria. Quella dei carichi pendenti costituiva anzi il fatto, già rappresentato nel giudizio di primo grado, prospettato dall'Agenzia delle entrate quale difesa principale delle proprie ragioni.
D'altronde il divieto dello ius novorum concerne le domande e le eccezioni non formulate in primo grado, ed in particolare afferisce all'introduzione in appello di elementi che comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato dal ricorrente o dei fatti e delle eccezioni che la difesa del controricorrente gli oppone.
In tema si è peraltro