Cass. civ., sez. III, sentenza 26/06/2015, n. 13203

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Massime1

L'allegazione, in primo grado, della conclusione di un contratto di mandato come avvenuta, alternativamente, in forma verbale o "per facta concludentia", comporta l'onere di proporre uno specifico motivo di gravame - pena, altrimenti, la formazione di un giudicato interno sul punto - in relazione all'accertamento negativo che della ricorrenza di una di tali modalità di stipulazione del contratto abbia effettuato il giudice di prime cure, purché entrambe abbiano integrato differenti "causae petendi" della pretesa azionata, formando oggetto di specifica allegazione ed introducendo temi di indagine distinti.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. III, sentenza 26/06/2015, n. 13203
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 13203
Data del deposito : 26 giugno 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. R L A - Presidente -
Dott. T G - Consigliere -
Dott. S G M - Consigliere -
Dott. V E - rel. Consigliere -
Dott. P A - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 17423-2012 proposto da:
AGNELLI DE PAHLEN MARGHERITA, elettivamente domiciliata in ROMA, C.SO

VITTORIO EMANUELE II

269, presso lo studio dell'avvocato V R, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato V T, giusta procura speciale autenticata dal Notaio CLAUDE RALLY in ROLLE (VD) Svizzera, il 27.6.2012, rep. n. 7883, apostillata il 27 giugno 2012;



- ricorrente -


contro
G S F, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ANDREA VESALIO

22, presso lo studio dell'avvocato I N, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

C M, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PIEMONTE

39, presso lo studio dell'avvocato A G, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati M W e P M, giusta procura speciale autenticata dal Notaio REMO M M in TORINO il 30/8/2012, rep. n. 1420;

G G, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PIEMONTE

39, presso lo studio dell'avvocato A G, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARLO PAVESIO, giusta procura speciale in calce al controricorso;

MARON SIEGFRIED, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PIEMONTE

39, presso lo studio dell'avvocato A G, rappresentato e difeso dagli avvocati GUIDO CANALE e SERGIO MARIA CARBONE, giusta procura speciale autenticata dal Notaio SANDRO RUGGLI in Rapperswil-Jona, Svizzera, il 10/8/2012, apostillata il 15/8/2012;



- controricorrenti -


avverso la sentenza n. 610/2012 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 10/04/2012, R.G.N. 1581/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/04/2015 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l'Avvocato ROMANO VACCARELLA;

udito l'Avvocato V T;

udito l'Avvocato NATALE IRTI;

udito l'Avvocato P M;

udito l'Avvocato M W;

udito l'Avvocato A G;

udito l'Avvocato CARLO PAVESIO;

udito l'Avvocato GUIDO CANALE;

udito l'Avvocato SERGIO MARIA CARBONE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI

Maurizio, che ha concluso per l'inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. - Nel maggio 2007 A De Pahlen Margherita - erede, unitamente alla madre C M, di A Giovanni, deceduto il 24 gennaio 2003 senza disporre in via generale testamentaria, ma soltanto a titolo particolare - convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Torino, quest'ultima coerede, nonché il Dr. G Gianluigi, l'avv. G S Franzo e il sig. M Sigfried.
1.1.- L'attrice dedusse: che il defunto senatore A si avvalse per la gestione dei propri affari dell'opera del G e del G S, suoi professionisti di fiducia, assistiti dal M, ai quali conferì "mandato di durata per la gestione anche del proprio patrimonio mobiliare";
che tale attività fu svolta sia prima, che dopo la morte del senatore e ciò, nonostante l'estinzione del mandato, "con animus aliena negozia gerendi", ai sensi dell'art. 2028 c.c.;
che il G S svolse attività anche oltre i
limiti del mandato, perseguendo gli interessi della coerede ed essendo destinatario della nomina di esecutore testamentario, incarico che non accettò;
che il G fu consulente per la gestione degli interessi del defunto "in società, fondazioni, trusts ed enti" al medesimo riferibili;
che il M fu preposto al "family office", costituito dalla SADCO di Zurigo e dalla SACOFINT di Ginevra, "per la gestione del patrimonio mobiliare internazionale";
che, pertanto, gli anzidetti mandatari avrebbero dovuto "rendere il conto a parte attrice" (che, invece, ebbe ad ottenere "solo in parte" documenti ed informazioni), comprensivo dell'elenco di tutti i beni e della "evoluzione dell'intero patrimonio riferibile, direttamente o indirettamente, al senatore A";
che tanto era necessario per la ricostruzione del patrimonio ereditario, al fine di procedere alla "petizione di eredità" ex art. 533 c.c., nonché alla valutazione delle modalità di gestione del patrimonio stesso e, quindi, dell'eventuale responsabilità dei "gestori";
che, peraltro, le operazioni divisorie già effettuate non esaurivano l'intero asse ereditario e, inoltre, erano mille, in quanto contrarie a norme imperative, le rinunce derivanti dall'accordo tra le eredi del 18 febbraio 2004 e dal successivo "Patto Successorio" del 2 marzo 2004.
1.2. - L'A, dunque, chiese: a) in via preliminare, che fosse ordinato, ex art. 263 c.p.c., disgiuntamente all'avv. G S Franzo, al Dott. G Gianluigi e al signor M Siegfried il rendimento del conto;
b) in via pregiudiziale, "ove occorra", che fosse dichiarata la nullità, l'annullabilità, l'inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera tra essa A Margherita e D C M successivamente all'apertura della successione del senatore A Giovanni;
c) in via principale, che fosse accertata e dichiarata la qualità di erede del senatore A di essa attrice in relazione a tutti i beni oggetto di rendiconto;
d) in via principale eventuale, che fossero solidalmente condannati il G S, il G ed il M al risarcimento dei danni eventualmente provocati dalla violazione degli obblighi di mandatari e/o gestori di affari altrui in relazione all'asse ereditario;
e) in via principale, che fosse dichiarato lo scioglimento della comunione ereditaria mediante assegnazione in proprietà esclusiva dei beni;
f) in via subordinata, in caso di ravvisata non materiale divisibilità dei singoli beni oggetto di comunione ereditaria, che fosse disposta la vendita degli stessi beni, con liquidazione prò quota a ciascun erede del ricavato. 1.3. - Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, contestando la fondatezza delle domande, delle quali chiesero il rigetto. 1.4. - La C ed il M - la prima sul presupposto della formulata eccezione di transazione in base agli accordi intervenuti in Svizzera con la figlia Margherita per la definizione di ogni controversia successoria sui beni del defunto senatore;
il secondo in quanto cittadino svizzero - proposero regolamento preventivo di giurisdizione, deducendo il difetto di giurisdizione del giudice italiano e indicando conte competente a decidere la causa il giudice svizzero.
A seguito di ordinanza di sospensione del giudizio, l'attrice propose regolamento di competenza avverso tale provvedimento. Con ordinanza n. 25875 del 27 ottobre 2008, le Sezioni Unite di questa Corte dichiararono la giurisdizione del giudice italiano e l'inammissibilità del regolamento di competenza.
1.5. - Riassunto il processo, dichiarati inammissibili (con ordinanza istruttoria del 21 luglio 2009) i capitoli di prova orale articolati dall'attrice e respinte le istanze di esibizione dalla medesima avanzate, l'adito Tribunale, con sentenza del 17 marzo 2010: rigettò la domanda di rendiconto per difetto di prova sui dedotti rapporti di mandato e di gestione di affari;
ritenne non esaminabile la domanda di nullità, annullabilità ed inefficacia degli accordi stipulati in Svizzera tra le coeredi, per esser la stessa condizionata dall'eccezione di res transacta, oggetto di rinuncia sia da parte della C, che del M;
rigettò le domande di petizione di eredità e di divisione in relazione ai beni collegati all'azione di rendiconto, mentre le dichiarò inammissibili in riferimento ai restanti beni;
dichiarò non esaminabile la domanda risarcitoria in ragione del rigetto della domanda di rendiconto alla quale era connessa.
2. - Avverso tale decisione proponeva gravame A De Pahlen Margherita, che la Corte di appello di Torino - nel contraddittorio con gli appellati C M, G Gianluigi, G S Franzo e M Sigfried - rigettava con sentenza resa pubblica il 10 aprile 2012.
2.1. - La Corte territoriale - affermato preliminarmente che l'appellante non era affatto "terza, sul piano sostanziale e processuale", rispetto al dedotto contratto di mandato che sarebbe intercorso tra il proprio dante causa e i convenuti appellati G, G S e M - riteneva essersi formato giudicato interno sulla qualificazione del contratto come di "mandato verbale di generale amministrazione dei beni costituenti il patrimonio personale del defunto A Giovanni". A tal fine, la Corte di appello osservava che l'appellante non aveva censurato "in modo specifico" la distinzione tra mandato verbale e mandato tacito operata dal Tribunale, ne' aveva criticato "in qualche modo l'esclusione della ricorrenza nel caso della possibilità giuridica di un mandato tacito, ritenuta dal primo giudice", limitandosi a sostenere, infondatamente (stante le diverse conseguenze in termini di oneri di prova), l'indifferenza "per la qualificazione nell'uno o nell'altro senso".
2.2. - Il giudice di secondo grado escludeva, poi, che l'attrice avesse fornito prova di tale invocata fonte negoziale, ribadendo, anzitutto, il rigetto delle istanze di ammissione della prova orale, anche in forza di una considerazione non solo analitica e frazionata dei capitoli articolati, bensì "alla stregua di un canone di valutazione complessiva". In tale prospettiva, nonché premesso che non era ravvisabile nella specie un abuso del diritto nell'utilizzo, in forza del mandato conferito dal de cuius, delle "forme societarie dei vari soggetti volta a volta coinvolti nelle diverse attività", la Corte di merito reputava irrilevanti anche le prove documentali prodotte dalla A (concernenti, tra l'altro: la posizione del G come presidente della EXOR, socio accomandatario della GIOVANNI AGNELLI &
C. s.a.p.a. e socio della DICEMBRE s.s.;
la posizione del G S come socio della DICEMBRE s.s. e la sua nomina ad esecutore testamentario;
la posizione del M come esecutore di deliberazioni delle predette società;
la posizione dei tre menzionati quali "protectors" della FONDAZIONE ALKYONE). 2.3. - La Corte piemontese riteneva, inoltre, "già solo sulla base della prospettazione di parte appellante", che non potesse ravvisarsi, dopo la morte del senatore A, una negotiorum gestio da parte del G, del G S e del M, ciò per l'insussistenza del requisito della absentia domini, in ragione "dell'attivismo dispiegato" dalla stessa A Margherita "per una gestione diretta ed immediata, ad esclusione di qualsiasi gestori, nell'eredità paterna sin dal 26 febbraio 2003, cioè due giorni dopo la pubblicazione degli olografi".
2.4. - In forza del rigetto del gravame in ordine alla asserita esistenza di obblighi di rendiconto in capo ai predetti appellati, il giudice di secondo grado reputava conseguentemente travolte le doglianze che investivano la reiezione delle domande di petizione di eredità, di scioglimento della comunione e di risarcimento dei danni.
2.5. - Quanto alla questione della exceptio rei transactae, la Corte di appello, pregiudizialmente, dichiarava l'inammissibilità della domanda dell'appellante di accertamento in via principale della nullità, annullabilità ed inefficacia degli accordi intercorsi in Svizzera tra le coeredi, in quanto nuova ai sensi dell'art. 345 c.p.c., posto che in precedenza essa era stata formulata come
"controeccezione di accertamento incidentale subordinato". La stessa Corte la esaminava, comunque, come tale e, tuttavia, la riteneva non scrutinabile nel merito per difetto di interesse ex art. 100 c.p.c., giacché reso inconsistente dalla rinuncia sull'eccezione
di avvenuta transazione, rispetto alla quale la "controeccezione preventiva" della A era da ritenersi condizionata. 3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre A De Pahlen Margherita sulla base di cinque articolati motivi: due investenti il profilo del contratto di mandato;
due la negotiorum gestio;
ed uno la questione, processuale, della domanda sulla invalidità degli accordi "Svizzeri" siccome ritenuta paralizzata dalla rinuncia avversaria alla exceptio rei transacta.
Resistono con controricorso C M, il Dr. G Gianluigi, l'avv. G S Franzo e il sig. M Sigfried.
Tutte le parti hanno depositato memoria.
I controricorrenti, con le rispettive memorie, hanno anche eccepito la nullità della procura alle liti rilasciata all'estero dalla ricorrente per l'impugnazione in questa sede.
All'esito della discussione in udienza, la ricorrente ha depositato, ai sensi dell'art. 379 c.p.c., comma 4, osservazioni scritte sulle conclusioni del pubblico ministero.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. - Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del procedimento e della sentenza per
violazione dell'art. 324 c.p.c. e art. 2900 c.c.. La Corte territoriale, anzitutto, avrebbe errato a ritenere che si era formato il giudicato sulla qualificazione del contratto come "mandato verbale", fornita dal primo giudice.
Nella sentenza di primo grado mancherebbe, infatti, "qualsivoglia decisione sulla qualificazione del contratto", posto che il Tribunale, lungi dall'aver escluso la configurazione del mandato come stipulato per facta concludentia, per addivenire alla qualificazione del contratto come "mandato verbale", avrebbe, invero, "preso in considerazione l'una e l'altra proposta ricostruttiva, rigettando poi ... l'una e l'altra per difetto di prova".
Peraltro, anche se in ipotesi si ammettesse che il primo giudice abbia definitivamente qualificato il contratto come "mandato verbale", su tale esito non potrebbe essersi formato giudicato interno, avendo essa appellante "impugnato in ogni sua parte il capo della sentenza di primo grado che ha rigettato la domanda di rendiconto per carenza di prova del mandato, deducendo apposito motivo, la cui sufficiente specificità", ai sensi dell'art. 342 c.p.c., non è stata posta in dubbio. Inoltre, nel contesto di tale
motivo, essa esponente aveva "ribadito ed illustrato la propria alternativa ricostruzione del mandato come verbale o tacito, appunto rifiutando ogni diversa configurazione".
1.1. - Il motivo non può trovare accoglimento.
La doglianza che esso veicola muove dal duplice, ed alternativo, presupposto che non vi sarebbe alcuna qualificazione del contratto da parte del primo giudice, in termini di scelta tra mandato "verbale" e mandato "tacito", ne', comunque, una mancata impugnazione della sentenza di primo grado "in ogni sua parte", tale che non si debbano reputare investite entrambe le "qualificazioni" e ciò con "apposito motivo, la cui sufficiente specificità ex art. 342 c.p.c., nessuno (e tanto meno la Corte d'appello) ha mai messo in dubbio". 1.1.1. - Invero, proprio intorno al profilo da ultimo evocato dalla stessa ricorrente (cfr. pp. 58/59 del ricorso, p. 3.6;
nonché note ex art. 378 c.p.c., p. 9) - seppure per escluderne la sussistenza, ma, evidentemente, con chiara consapevolezza della sua problematicità nell'economia della decisione impugnata e delle stesse ragioni dell'impugnazione in questa sede, tanto da potersi apprezzare, nella sostanza, anche come censura a se stante, idonea a dare ingresso allo scrutinio sull'osservanza della norma di cui al citato art. 342 c.p.c., cui, peraltro, questa Corte può comunque attendere d'ufficio (tra le altre, Cass., 21 gennaio 2004, n. 967;
Cass., 20 agosto 2013, n. 19222), ruota l'essenziale ratio decidendi che conduce al rigetto della censura.
Sul punto, la sentenza impugnata, sebbene non richiami espressamente l'art. 342 c.p.c., quale norma processuale che impone, a pena di inammissibilità, la specificità dei motivi di appello (anche nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla novella di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), indica espressamente la ragione della ritenuta formazione del giudicato interno nel fatto che il gravame non abbia censurato "in modo specifico ... la distinzione" tra mandato verbale e mandato tacito e "neppure critica in qualche modo l'esclusione della ricorrenza nel caso della possibilità giuridica di un mandato tacito, ritenuta dal primo giudice". Dunque, proprio in tali affermazioni è dato cogliere il rilievo di carente specificità rispetto al paradigma di cui all'art. 342 c.p.c.. 1.1.2. - Non può, infatti, ritenersi che l'impugnazione dinanzi al giudice di secondo grado non abbia riguardato anche il "mandato tacito" e ciò non tanto perché - come messo in rilievo dalla ricorrente, con espresso richiamo alla p. 26 dell'atto di appello - le censure abbiano posto in risalto l'indifferenza della "qualificazione" del contratto nell'uno o nell'altro senso, ma, piuttosto, in quanto non vi era alcuna effettiva "qualificazione del tipo contrattuale" da impugnare come tale, posto che le diverse modalità di conclusione del medesimo contratto di mandato (verbale o tacito) non sono determinative di una differenza di effetti rispetto alla fattispecie disciplinata dall'art. 1703 c.c. e segg.. Il contratto di mandato è da qualificarsi tale, con gli effetti giuridici suoi propri, sia che venga concluso verbalmente, sia che risulti per facta concludentia, là dove il quomodo della stipulazione è un fatto neutro rispetto alla configurazione giuridica del tipo. Con la conseguenza che non potrebbe formarsi giudicato interno sull'una o l'altra modalità di genesi del vincolo negoziale ove l'appellante (come, del resto, è avvenuto nel caso di specie), abbia investito almeno un segmento della statuizione minima, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell'ambito della controversia (Cass,, 20 dicembre 2006, n. 27196;
Cass., 28 settembre 2012, n. 16583). 1.1.3. - Ma non è questa l'ottica in cui si è mossa la Corte di appello di Torino, che non ha inteso attribuire alla distinzione tra "mandato verbale" e "mandato tacito" il rilievo di una qualificazione del tipo di contratto, ma ha individuato nelle due anzidetto forme contrattuali differenti causasi petendi siccome oggetto di prospettazione alternativa da parte dell'attrice, in forza di specifiche rispettive allegazioni, introduttive di temi di indagine distinti.
In tale precipuo senso, le censure dell'appellante avrebbero dovuto investire in modo specifico anche il ragionamento che ha condotto il primo giudice ad escludere la sussistenza della causa petendi di un mandato concluso in modo "tacito" tra il dante causa dell'attuale ricorrente e i tre asseriti mandatari (G, G S e M), quale prospettazione attorea di una specifica modalità di conclusione del contratto (non sovrapponibile all'altra, quella del mandato "verbale", del pari oggetto di allegazione) che l'attrice ha immesso nel thema decidendum e sulla quale il Tribunale si è soffermato ampiamente.
In siffatta ottica va, dunque, verificato da questa stessa Corte - quale giudice "del fatto processuale", sollecitata dalla doglianza di parte e, comunque, investita del potere di delibare anche d'ufficio il rispetto della prescrizione imposta dall'art. 342 c.p.c. - se l'appellante abbia, o meno, proposto uno specifico motivo di gravame investente l'accertamento negativo, da parte del primo giudice, in ordine alla sussistenza di un "mandato tacito", tanto da evitare che, sul punto, si sia formato il giudicato interno.
1.1.4. - A tal riguardo, occorre anzitutto ribadire che la delibazione di sussistenza di un vizio attinente all'applicazione dell'art. 342 c.p.c., investe il giudice di legittimità del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, non potendo essere limitata la cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione (tra le altre, Cass., 10 settembre 2012, n. 15071;
Cass., 28 novembre 2014, n. 25303). Una siffatta delibazione deve essere condotta alla luce del principio, consolidato, per cui la specificità dei motivi di appello va commisurata alla specificità della motivazione e non è ravvisabile laddove l'appellante, nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, ometta di indicare, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza impugnata sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni di fatto e di diritto che ritenga idonee a giustificare la doglianza (Cass., 18 aprile 2007, n. 9244;
Cass., 27 gennaio 2011, n. 1924;
Cass., 27 gennaio 2014, n. 1651;
nella medesima prospettiva, Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28057). 1.1.5. - La sentenza del Tribunale di Torino ha, anzitutto, messo in risalto (alle pp. 17/18) come la difesa dell'attrice si sia mossa con una strategia non univoca, dapprima fondando le istanze istruttorie sull'esistenza di un mandato generale "verbale", per costruire, quindi, un percorso argomentativo consentaneo all'esistenza di un mandato generale "tacito" (comparsa conclusionale) e, infine, dare corpo all'una e all'altra configurazione modale del rapporto contrattuale (memoria di replica).
Il primo giudice, allorquando, poi, dopo aver scrutinato (ed escluso) l'ipotesi di sussistenza di un mandato generale "verbale" (da p. 18 a p. 21 della sentenza), è venuto ad esaminare direttamente il thema decidendum relativo al mandato generale "tacito" (siccome reputato configurabile ai sensi dell'art. 1708 c.c., comma 2), ha messo l'accento sulla necessità di riscontro di "comportamenti univoci e concludenti posti in essere da entrambe le parti contraenti", che, tuttavia, ha escluso di poter ravvisare, all'esito di una articolata disamina (da p. 21 a p. 32 della sentenza) degli elementi, presuntivi, offerti al riguardo dalla stessa parte attrice e cioè degli incarichi, svolti dai convenuti, "di amministrazione in società e Fondazioni nelle quali sarebbe confluito il patrimonio personale del defunto senatore". A tal riguardo, alla stregua di un percorso logico argomentativo sequenziale, il Tribunale ha, in sintesi, rilevato: 1) la contraddittorietà tra il supposto incarico di carattere "generale" ed il fatto stesso di rivestire cariche, in momenti distinti, in società e fondazioni, senza "obblighi di informazione e concertazione tra di loro per le operazioni compiute", ossia in assenza di una "regia unica", o di una "sinergia comune", tra x presunti mandatari, necessaria al fine di gestire coerentemente un intero patrimonio;
2) la mancata gestione apicale della (ipotetica) struttura piramidale che avrebbe legato le società nelle quali erano inseriti i convenuti;
3) l'irrilevanza della "conoscenza ... del patrimonio personale del defunto" e, in ogni caso, la mancanza di prova di essa;
4) la non riconducibilità al de cuius di "taluno degli enti privati indicati dall'attrice";
5) il mancato riscontro sul fatto che, di alcuni di detti enti, "abbiano fatto parte i tre convenuti";
6) la assenza di prova in ordine alla circostanza che gli stessi convenuti "abbiano assunto cariche che comportano il compimento di atti gestori";
7) la mancanza di prova in ordine al conferimento dell'incarico per facta concludentia da parte dello stesso senatore A (non ravvisabile neppure nella designazione del G a "cariche di vertice" in tutte le società "di controllo del Gruppo", giacché non solo riguardante "soltanto uno dei tre convenuti", ma da interpretarsi come "indicazione di preferenza" da parte del socio di maggioranza "e non dal titolare di un patrimonio personale").
1.1.6. - A fronte di siffatto impianto motivazionale, che ruota intorno alla presupposta ed esplicita distinzione delle causae petendi allegate dall'attrice (mandato generale "verbale" e mandato generale "tacito"), l'atto di appello converge sostanzialmente su una pretesa indifferenza di tale distinzione, assumendo come polo di orientamento la centralità del "mero fatto storico" di un "rapporto gestorio".
Tuttavia, nel postulare ciò, l'impugnazione si preoccupa essenzialmente di criticare l'affermata esclusione, da parte del primo giudice, di un mandato "verbale", muovendo, anzitutto, dalla mancata ammissione della prova orale (cfr. p. 15, ove si contesta l'inammissibilità del cap. 3 della prova orale, concernente l'incarico verbale), la quale tendeva proprio al riscontro di detto mandato, asseritamente concluso verbis.
Una siffatta impostazione appare ancor più intelligibile dalla lettura unitaria delle pp. 24/27 dell'atto di gravame (la cui centralità nel presente scrutinio è testimoniata proprio dal rinvio che la stessa ricorrente fa, senza ulteriori richiami al medesimo atto di appello, alla sola p. 26, ivi concentrando il proprio impianto difensivo e traendo, però, conclusioni divergenti da quelle che seguono), nelle quali si indugia, altresì, sulla circostanza che il mandato "verbale" dovrebbe reputarsi desumibile in base ad una prova presuntiva fondata anche su documenti, analogamente a quanto potrebbe valere nel caso di riscontro del mandato "tacito", per aprire poi alla "analisi delle prove documentali per ogni singolo documento" (p. 5.1.1., p. 27 ss.) sulla premessa che anche le dette prove, complessivamente intese, sarebbero "in grado di far desumere il fatto storico dell'esistenza di un mandato verbale". In tale contesto gli indifferenziati e non coordinati riferimenti anche al mandato "tacito" presenti nel corpo dell'atto (cfr.: p. 17, ove si richiama il tema della prova sul "conferimento verbale del mandato", per poi fare cenno alla giurisprudenza sul "mandato tacito";
p. 42, ove si ritorna sui capitoli di prova orale concernenti il mandato verbale, per poi affermarsi che il comportamento non oppositivo del sen. A era comportamento concludente;
p. 44, ove si colloca sullo stesso piano il mandato verbale e quello tacito) sono ben lungi dal rappresentare una critica specifica alla sentenza gravata.
In definitiva, dall'atto di appello risulta del tutto generica, e come tale inammissibile, la censura alla sentenza di primo grado là dove ha escluso la sussistenza di un mandato generale "tacito", giacché la doglianza che ad essa viene mossa con specifica consistenza e coerenza è essenzialmente quella della omessa, errata o inadeguata considerazione della prova presuntiva, sulla base delle complessive risultanze istruttorie (e anzitutto su quelle documentali), circa l'esistenza di un mandato generale "verbale", là dove la esibita posizione di indifferenza tra le due causae petendi, in favore del "mero fatto storico" della gestione, in assenza di puntuali critiche contro l'articolato apparato argomentativo di reiezione della domanda sul mandato tacito, non può certamente integrare una doglianza sussumibile nel paradigma di cui alla norma dell'art. 342 c.p.c.. Ne consegue che è corretta la statuizione della Corte di appello torinese sulla formazione di un giudicato interno sull'insussistenza di un mandato generale "tacito", quale prospettazione attorea del relativo rapporto giuridico in base ad una specifica configurazione dalla genesi del vincolo negoziale, alternativa a quella, del pari allegata, di un mandato generale conclusosi verbalmente. 2. - Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, "l'insufficienza e la contraddittorietà della
motivazione nel valutare le prove prodotte ed offerte dall'esponente sull'esistenza o meno di un contratto di mandato, verbale o tacito che fosse, tra il defunto sen. A ed i convenuti G, G S e M".
A fronte della "imponente mole di fatti" dimostrati da essa A e tali da rendere agevole la presunzione di esistenza del predetto contratto di mandato, la Corte territoriale avrebbe disatteso l'istanza di ammissione delle prove orali e ritenuto irrilevanti le prove documentali con motivazione incongrua, contraddittoria e carente "di valutazione complessiva degli elementi di prova offerti e forniti, gli uni per mezzo degli altri".
In linea più generale, la sentenza impugnata: avrebbe valutato "troppo severamente il requisito della specificità di alcuni mezzi di prova orale" senza dare il giusto peso alla "estraneità di fatto" dell'attrice alla stipulazione dei mandati;
avrebbe seguito un ragionamento probatorio inficiato dalla qualificazione del mandato come contratto "verbale" e, comunque, si sarebbe contraddetta nel negare e, poi, attribuire rilevanza a presunzioni tratte anche da "atti realizzati ex post";
avrebbe erroneamente ritenuto necessario il concorso di presunzioni e prove orali a "colmare le eventuali lacune" delle prove documentali;
avrebbe mancato di valutare le prove nel loro complesso, sebbene ne abbia predicato la necessità. Sarebbe, in ogni caso, erroneo il ragionamento probatorio effettuato dal giudice di secondo grado, il quale si snoderebbe in due direzioni: la prima sulle prove indirette, inidonee a provare i mandati generali, ma soltanto atte a dimostrare, semmai, "l'esistenza di singoli incarichi di volta in volta conferiti dal sen. A";

la seconda sulle prove dirette (segnatamente, il capitolo 3 delle prove orali), "inservibili allo scopo, essenzialmente per difetto di specificità".
Nel primo caso, la Corte avrebbe trascurato il fatto che, proprio in virtù delle presunzioni, dall'esistenza dei "singoli incarichi omogenei" (ossia le istruzioni ricevute dal mandante) si sarebbe dovuto giungere a ritenere provato il fatto ignoto dei mandati generali. In tale prospettiva il giudice di appello avrebbe mancato di valutare i numerosi elementi di prova offerti (la "percezione del ruolo dei signori G S e G presso la stampa";
le "affermazioni del Dr. G nella lettera 9 marzo 2003";
le "affermazioni dell'avv. G S nella lettera 10 marzo 2003";
la "designazione dell'avv. G S ad esecutore testamentario";
le "affermazioni dell'avv. G S nelle lettere 22 aprile, 9 luglio e 11 luglio 2003;
il "controllo della Simon Fiduciaria s.p.a., che gestiva gli assets finanziari italiani dell'avv. A, da parte dell'avv. G S";
la "cura diretta dei bisogni economici dei familiari del sen. A, da parte del Dr. G";
il "coinvolgimento a vario titolo di tutti e tre i professionisti convenuti, nella creazione e nella gestione del patrimonio offshore del sen. A";
la "mancanza di spiegazioni alternative").
La Corte territoriale avrebbe, inoltre, errato nel respingere l'ammissione della "prova diretta del mandato" e, segnatamente, dei capitoli 3 e 43 della prova orale, ribadendo il giudizio di irrilevanza già mal formulato dal primo giudice, giacché fondato sulla richiesta di elementi di estremo dettaglio del mandato generale (data, indicazione del contesto logistico, indicazione degli atti autorizzati dal mandante, indicazione del contenuto dell'accettazione del mandato: elementi comunque ricavabili dallo stesso contesto dei capitoli e degli altri apporti istruttori) del tutto incongruamente rispetto all'"insieme degli altri elementi di prova forniti", al fatto che ad agire era l'erede del mandante, il quale aveva stipulato un contratto per facta concludentia o, comunque, in base ad "intese verbali", alla circostanza che si trattava di un mandato generale, che avrebbe trovato specificazione in base alle istruzioni del mandante, al fatto che avrebbero potuto essere chiesti chiarimenti ai testi ed agli interpellati, ex art. 253 c.p.c.. 2.1. - Il motivo non è fondato.
2.1.1. - La Corte territoriale ha orientato la propria delibazione sull'esistenza, o meno, di un contratto di mandato generale "verbale", mentre le censure che il motivo in esame propone sono impostate secondo una sostanziale indifferenza delle tipologie stipulative dell'anzidetto contratto, ossia verbis ovvero per facta concludentia.
Le doglianze, tuttavia, possono essere scrutinate solo in funzione della motivazione che fonda la sentenza della Corte territoriale e per quanto con esse si critica la decisione sulla ritenuta insussistenza del mandato generale "verbale". Del resto, il mancato accoglimento del primo motivo ha, in ogni caso, deprivato di qualsivoglia funzione censoria le critiche che si dirigono contro la supposta esistenza di un mandato generale "tacito". 2.1.2. - Ciò posto, occorre premettere, in linea più generale, che lo scrutinio di questa Corte in ordine a censure che veicolino vizi riconducibili al n. 5 del richiamato art. 360 è uno scrutinio "stretto", nel senso che esso - per conformarsi ai caratteri che l'ordinamento processuale imprime al giudizio di legittimità - non può oltrepassare determinati limiti, posti a presidio di una non consentita ingerenza nel "merito" della decisione assunta dal giudice "del fatto" che ha emesso la sentenza impugnata.
È in tale ottica, dunque, che la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., 21 agosto 2006, n. 13214;
Cass., 26 gennaio 2007, n. 1754;
Cass., 16 dicembre 2011, n. 27197;
Cass., 14 novembre 2013, n. 25608) ha affermato che la delibazione sulla motivazione, denunciata con ricorso per cassazione, si configura come uno scrutinio sulla logicità del giudizio di fatto e non consente, dunque, un riesame del merito dell'intera vicenda processuale, ma soltanto la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito. A quest'ultimo spetta, quindi, dare adeguata contezza dell'iter logico-argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione, ma, a tal fine, al medesimo giudice del merito è riservato in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere e bilanciare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge), tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi. Sicché, la revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, deborda dai confini della giurisdizione di legittimità e si risolve, invero, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato esclusivamente, come detto, allo stesso giudice del merito. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia (a tal fine occorrendo che emerga necessariamente un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità), ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.
2.1.3. - Scrutinata alla luce dei principi appena ribaditi, la sentenza impugnata (cfr. anche sintesi riportata al p.

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