Cass. civ., sez. I, sentenza 15/11/2007, n. 23638

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Gli atti di disposizione patrimoniale eseguiti dopo la chiusura del concordato preventivo da parte del debitore, successivamente dichiarato fallito, devono essere ritenuti validi ed efficaci se intervenuti prima della risoluzione del concordato e della dichiarazione di fallimento sia perché dopo il passaggio in giudicato dell'omologazione il debitore è liberato da ogni vincolo che non sia quello dell'osservanza delle condizioni del concordato e riacquista la capacità di agire e il potere di disporre, sia perché ai sensi dell'art. 140 legge fall., norma riguardante la diversa fattispecie del concordato fallimentare ma applicabile limitatamente al primo comma al concordato preventivo, sono inefficaci soltanto gli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito dopo la chiusura del concordato, mentre per gli atti a titolo oneroso, indicati negli artt. 65, 67 e 70 legge fall., i termini per la revocabilità decorrono soltanto dalla riapertura del fallimento.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 15/11/2007, n. 23638
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 23638
Data del deposito : 15 novembre 2007
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. P V - Presidente -
Dott. G G - Consigliere -
Dott. N A - Consigliere -
Dott. P S - Consigliere -
Dott. S L - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Fallimento di M G, in persona del Curatore, prof. avv. I G - domiciliato in ROMA, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, rappresentato e difeso dall'avv. D'

ANDRIA

Luigi, in virtù di procura a margine del ricorso;



- ricorrente -


contro
R T - elettivamente domiciliata in ROMA, via Baldo degli Ubaldi, 71, presso lo studio dell'avv. M M, rappresentata e difesa dall'avv. B M, in virtù di procura a margine del controricorso;



- controricorrente -


avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli depositata il 16 dicembre 2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2007 dal Consigliere Dott. L S;

udito per la controricorrente l'avv. G P, su delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. R L A, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. - Il Curatore del Fallimento di G M (di seguito, Curatore), con citazione del 9 aprile 1997, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di S.Maria C.V. T R, chiedendo che fosse dichiarato inefficace, ai sensi della L. Fall., art. 167, il contratto con cui la predetta, in data 5 maggio 1993, e cioè nel corso della procedura di concordato preventivo aperta nei confronti del Maggiò, aveva acquistato dal predetto un appartamento in Caserta. In linea gradata, l'attore chiedeva che l'atto fosse dichiarato inefficace ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1 o del comma 2, ovvero ex art. 2901 c.c.. A conforto delle domande, il Curatore esponeva che, con decreto in data 13 giugno 1986, il Tribunale adito aveva ammesso alla procedura dell'amministrazione controllata il padre di G M il quale, alla morte del genitore, era subentrato nella titolarità dell'impresa.
G M, in data 10 giugno 1988, aveva presentato domanda di ammissione al concordato preventivo;
in precedenza, aveva costituito la s.a.s. Impregima di G M, al fine di continuare l'attività dell'impresa individuale, dalla quale aveva preso in affitto l'azienda. Successivamente, l'imprenditore era stato ammesso al concordato preventivo, che prevedeva il pagamento dei creditori entro cinque anni, omologato con sentenza del Tribunale di S. Maria C.V. del 25 maggio 1990 e risolto con sentenza del 12 giugno 1996, che aveva dichiarato il fallimento di G M. Nel giudizio si costituiva la convenuta, contestando la fondatezza della domanda.
Il Tribunale adito, con sentenza del 27 giugno 2000, riteneva applicabile, per analogia, la L. Fall., art. 140, e, reputando l'atto in questione estraneo alla finalità della procedura e compiuto oltre i limiti fissati dalla sentenza di omologazione, lo dichiarava inefficace, condannando la convenuta al rilascio dell'immobile. 2. - Detta sentenza era impugnata da T R, che, in sua riforma, chiedeva il rigetto della domanda.
Il Curatore, nel costituirsi in giudizio, deduceva l'infondatezza del gravame e, in subordine, reiterava, ex art. 346 c.p.c., le domande non esaminate dal giudice di primo grado.
La Corte d'appello di Napoli, con sentenza del 16 dicembre 2002, accoglieva l'appello, rigettando le domande proposte dal Curatore. Per quanto qui interessa, la sentenza impugnata: a) affermava che, pur ritenendo, come sostenuto dal Tribunale, e nonostante il mancato richiamo da parte della L. Fall., art. 186, l'applicabilità della L. Fall., art. 140, nel caso di risoluzione del concordato preventivo, tuttavia detta norma non disciplina gli atti di disposizione posti in essere dall'imprenditore successivamente all'omologazione del concordato, limitandosi a sottrarre i pagamenti ricevuti dai creditori alla revocatoria L. Fall., ex art. 67, comma 2. La norma stabilisce la revocabilità dei pagamenti non riconducibili all'esatta esecuzione del concordato (in quanto di importo superiore alla percentuale fissata in sede di omologazione, ovvero perché seguiti in violazione dell'ordine delle cause di prelazione), non l'inefficacia di diritto degli atti di disposizione (sul paradigma di quanto stabilito dalla L. Fall., artt. 64, 65 e 123, cpv.), "sia perché le disposizioni espresse dalla norma non toccano tale tema, sia perché anche in ordine ai pagamenti esse non risolvono la questione in termini di efficacia o inefficacia (come fa la L. Fall., art. 65), ma si limitano a prescrivere che i creditori anteriori non
sono tenuti a restituire quanto hanno già riscosso stabilendo l'irripetibilità dei pagamenti".
Secondo la Corte territoriale, questa conclusione è coerente con la ratio della norma, indicata m quella di mantenere fermi pagamenti che non alterano la par condicio creditorum, sicché resta estraneo alla medesima il tema dell'efficacia degli atti di disposizione, i quali non incidono sull'ordine delle prelazioni e sui limiti posti dalla sentenza ai pagamenti e "non sono in contrasto con le finalità del concordato, poiché tendono, sotto la sorveglianza degli organi fallimentare, a procurare io concorrere a procurare) liquidità atta a consentire l'adempimento".
Ad avviso del giudice d'appello, siffatta esegesi non realizza un vuoto di tutela, dato che la L. Fall., art. 123, dispone che, in caso di riapertura del fallimento, gli atti a titolo oneroso compiuti dal fallito sono revocabili L. Fall., ex art. 67, computandosi il periodo sospetto a far data dalla sentenza di riapertura del fallimento ed essendo invece inefficaci gli atti a titolo gratuito. Pertanto, a seguito della risoluzione del concordato fallimentare sono riproponibili le azioni revocatorie già iniziate e sono revocabili gli atti posti in essere dopo l'omologazione del concordato fallimentare, se rientrano nel periodo sospetto. In definitiva, la sentenza impugnata escludeva che, ai sensi della L. Fall., art. 140, l'atto fosse inefficace di diritto, affermando che la norma "non disciplina affatto il destino degli atti a titolo oneroso di disposizione del patrimonio dell'imprenditore, i quali (...) non sono affatto estranei alle finalità dell'istituto (...), nè contrastano con l'interesse dei creditori, poiché tendono a procurare (in tutto o in parte) mezzi" necessari al pagamento dei creditori.
Infine, la Corte d'appello riteneva che la L. Fall., art. 140, non è neppure invocabile nella parte in cui dispone che i creditori conservano le garanzie costituite per l'adempimento del concordato. Ed infatti, benché la sentenza di omologazione del concordato aveva fatto proprio l'indirizzo che permette di valutare anche le garanzie atipiche, detta norma si riferisce esclusivamente ai diritti di garanzia, reali o personali, costituiti da terzi, quindi non è applicabile alle garanzie atipiche relative alla composizione del patrimonio de, debitore e, peraltro, l'appartamento in questione neppure era stato considerato quale garanzia atipica. b) Rigettava la domanda di inefficacia dell'atto L. Fall., ex art.167, norma riferibile soltanto agli atti compiuti nel periodo
intercorrente tra la pronuncia del decreto di ammissione al concordato preventivo e la pronuncia della sentenza di omologazione. Il Giudice d'appello riteneva che la differente disciplina degli atti di disposizione - a seconda che siano compiuti prima o dopo l'omologazione del concordato preventivo - è giustificata dalla considerazione che, una volta omologato il concordato, risulta formulata una prognosi positiva, in virtù della quale il legislatore ha reputato non necessarie limitazioni del potere dispositivo dell'imprenditore e la previsione dell'autorizzazione per il compimento dei relativi atti.
c) Rigettava la domanda L. Fall., ex art. 67, comma 2, in quanto il Curatore non aveva provato la scientia decoctionis dell'acquirente, limitandosi a dedurre che quest'ultima non poteva non conoscere lo stato di insolvenza in cui versava il Maggiò.
La sentenza impugnata, esclusa la riconducibilità al notorio di detta circostanza, osservava che l'unico elemento dedotto dall'appellante era l'ammissione del Maggiò al concordato preventivo e che, tuttavia, in considerazione delle argomentazioni svolte nella pronuncia, lo stesso, da solo, non permetteva di ritenere adempiuto l'onere probatorio gravante sul curatore.
d) Rigettava la domanda proposta ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1, poiché il Curatore non aveva provato la dedotta
sproporzione tra le prestazioni, limitandosi a chiedere l'assunzione di una c.t.u., mentre l'appellante aveva offerto dati oggettivi e svolto argomentazioni non specificamente contestate dalla curatela, che inducevano ad escluderne la sussistenza.
e) Rigettava la domanda ex art. 2901 c.c., in quanto il Curatore "nulla ha allegato in ordine alla scientia damni dell'acquirente", mentre gli elementi acquisiti "non consentono di ritenere dimostrato che la Rossi fosse consapevole de., pregiudizio che, a seguito della successiva risoluzione del, concordato preventivo, l'atto avrebbe arrecato ai creditori".
3. - Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso il Curatore del Fallimento di G M, affidato a cinque motivi;
ha resistito con controricorso T R;
entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Il ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione e falsa interpretazione della L. Fall., artt. 140 e 185, e art. 2697 c.c., nonché difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), sostenendo che la Corte territoriale ha correttamente ritenuto applicabile la L. Fall., art. 140, ma avrebbe erroneamente escluso che l'atto in questione fosse in contrasto con le finalità del concordato preventivo.
A suo avviso, la sentenza avrebbe inesattamente ritenuto che gli atti dispositivi compiuti dall'imprenditore dopo l'omologazione del concordato non sono in contrasto con le finalità della procedura concorsuale, circostanza che, invece, sarebbe insita nel fatto che determinano una diminuzione delle garanzie. Pertanto, per escluderne l'inefficacia, sarebbe necessario che l'acquirente provi, come non sarebbe accaduto, di avere preventivamente informato il commissario in ordine al loro compimento e che il ricavato della vendita è stato destinato al soddisfacimento dei creditori.
Inoltre, la sentenza ha affermato che le garanzie conservate dai creditori L. Fall., ex art. 140, sono soltanto quelle offerte dai terzi, mentre sarebbe pacifico che la garanzia è costituita dall'intero patrimonio dell'imprenditore, indipendentemente dall'indicazione dei beni contenuta nella sentenza di omologazione del concordato preventivo. Peraltro, la L. Fall., art. 185, stabilisce che il commissario giudiziale ed il Giudice delegato conservano il potere - dovere di controllare l'adempimento del concordato e, a detto scopo, l'imprenditore deve informare il primo del compimento degli atti di straordinaria amministrazione e, in difetto, la vendita non può ritenersi coerente con la finalità della procedura concorsuale.
Il Curatore, con il secondo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 167, deducendo di essere "consapevole dell'orientamento della giurisprudenza e della dottrina" in ordine alla questione dell'esaurimento della procedura di concordato preventivo con la sentenza di omologazione. Tuttavia, a suo avviso: a) gli L. Fall., artt. 163 e 167, non indicano il momento in cui la procedura si esaurisce, quindi sarebbe arbitrario identificarlo con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato;
b) la sentenza di omologazione non esaurisce la procedura, in quanto sopravvivono gli organi della medesima, in particolare, il commissario liquidatore, al fine di sorvegliarne l'esecuzione, nonché il Giudice delegato, al quale egli deve riferire, e lo stesso Tribunale che può risolvere il concordato;
c) lo scopo della procedura può considerarsi conseguito soltanto con l'esecuzione del concordato;
d) la procedura si conclude dopo l'esecuzione del concordato, che va verificata dal giudice delegato, al fine di pronunciare il decreto di chiusura. Dunque, conclude il Curatore, l'atto sarebbe stato compiuto "durante" la procedura, quindi sarebbe inefficace.
1.1.- I primi due motivi, da esaminare congiuntamente perché logicamente e giuridicamente connessi, sono infondati. Il ricorrente, con detti mezzi, sostanzialmente ripropone le argomentazioni dedotte nella fase di merito, esaminate e ritenute infondate dalla Corte d'appello con motivazione immune dai vizi denunciati.
La sentenza impugnata, richiamando puntualmente un principio già affermato da questa Corte, ha infatti correttamente ritenuto applicabile per analogia la L. Fall., art. 140, nel caso di risoluzione del concordato preventivo (Cass. n. 19938 del 1999;
n. 3943 del 1976
;
v. anche n. 2854 del 1997) e, del pari esattamente, ha escluso che questa premessa permetta di ritenere inefficaci gli atti dispositivi compiuti dal debitore.
La L. Fall., art. 131, u.c., stabilisce che con il passaggio in giudicato della sentenza che omologa il concordato fallimentare la procedura di fallimento è chiusa ed il compito degli organi fallimentari si trasforma in quello relativo alla sorveglianza dell'adempimento del concordato, secondo le modalità stabilite nella sentenza (L. Fall., art. 136), le quali possono concernere anche l'alienazione dei cespiti, onde assicurare che non vi siano distrazioni di attività. Il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione comporta il venire meno dello spossessamento determinato dalla sentenza di fallimento e, di conseguenza, il riacquisto della legittimazione da parte del fallito (salvo che sia avvenuta la cessione dei beni all'assuntore), che può compiere atti di alienazione senza necessità di autorizzazione del giudice delegato, tenuto unicamente a vigilare, unitamente al curatore e al comitato dei creditori, sull'esecuzione del concordato, allo scopo di emettere il decreto con il quale, accertata la completa esecuzione del concordato, ordina lo svincolo delle cauzioni e la cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia (L. Fall., art. 136), sempre che non si sia proceduto alla risoluzione o all'annullamento del concordato (L. Fall., artt. 137 e 138;
Cass. n. 2159 del 1980, salvo diversa modalità stabilita nella sentenza).
La L. Fall., art. 140, comma 1, il quale disciplina gli effetti della riapertura del concordato fallimentare, dispone: "gli effetti della riapertura sono regolati dalla L. Fall., artt. 122 e 123";
la seconda di dette norme regola la sorte degli atti dispositivi compiuti dal fallito dopo la chiusura de, concordato, stabilendo che sono inefficaci quelli a titolo gratuito, mentre per gli atti a titolo oneroso i termini stabiliti dalla L. Fall., artt. 65, 67 e 70, si computano dalla data della sentenza di riapertura del fallimento. Il secondo comma concerne le azioni revocatorie già iniziate ed interrotte per effetto de L concordato;
il terzo ed il comma 4, hanno ad oggetto la disciplina delle garanzie dei creditori per le somme dovute in base al concordato e la sorte dei pagamenti ricevuti dai medesimi.
Pertanto, in primo luogo, la chiara lettera della norma dimostra che il della L. Fall., art. 140, comma 1, attraverso il rinvio sopraindicato, disciplina espressamente gli atti dispositivi compiuti dall'imprenditore dopo l'omologazione del concordato, con la conseguenza che, risultando gli stessi espressamente regolati dalla disposizione, non sussiste alcuna lacuna che giustifichi, e renda necessaria ed ammissibile, l'applicazione per analogia del comma 3, ad una fattispecie non contemplata, come invece sostenuto dal ricorrente.
In secondo luogo, questa conclusione, imposta dalla formulazione della disposizione, è coerente con la considerazione che, una volta omologato il concordato, non sussistono le ragioni che impediscono il compimento degli atti di liquidazione, che il debitore può anzi trovarsi costretto a dovere concludere appunto per adempiere il concordato ed è logicamente implausibile che il legislatore, stabilendone l'inefficacia di diritto nel caso di successiva risoluzione, abbia inteso conformare una procedura inefficiente, anche perché le ragioni dei creditori risultano salvaguardate dalle norme in tema di risoluzione ed annullamento del concordato, nonché dalla revocabilità degli atti dispositivi, ai sensi della L. Fall., art. 123, (L. Fall., art. 140, comma 1), e dalla riproponibilità
delle azioni revocatorie iniziate e interrotte per effetto del concordato (L. Fall., art. 140, comma 2). Dunque, poiché la L. Fall., art. 140, non stabilisce affatto l'inefficacia di diritto degli atti dispositivi a titolo oneroso compiuti dal fallito dopo il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato fallimentare, ne consegue che, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, l'applicabilità per analogia della norma al concordato preventivo non permette di sostenere che, in forza della medesima, da tale inefficacia siano colpiti gli analoghi atti compiuti successivamente al passaggio in giudicato della sentenza che omologa il concordato preventivo. La sentenza impugnata ha poi diffusamente esposto le argomentazioni che hanno fondato l'affermazione con la quale ha escluso che la L. Fall., art. 140, possa essere invocate nella parte in cui dispone che i creditori conservano le garanzie costituite per l'adempimento del concordato, al fine di ritenere detta inefficacia.
In questa parte, la sentenza è stata censurata assertivamente con la mera deduzione della sua erroneità, in quanto, ad avviso del ricorrente, dovrebbe ritenersi ®del tutto pacifico che l'intero patrimonio dell'imprenditore, unicamente ad eventuali obbligazioni assunte da terzi, garantisce il concordato e che non è necessario che la sentenza di omologazione faccia ci ferimento a tutti i beni che lo compongono per vincolarli a tal fine".
Pertanto, risulta chiaro che il ricorrente non ha formulato censure specifiche contro le affermazioni in diritto contenute nella sentenza, e le doglianze, in questa parte, non risultano articolate nell'osservanza del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale il vizio della sentenza previsto dall'art.360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del
motivo giusta la disposizione dell'art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente essendo impedito a questa Corte di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Dunque deve ritenersi inidoneamente formulata la deduzione di "errori di diritto" individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal Giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell'ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non mediante la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (per tutte, tra le più recenti, Cass. n. 5353 del 2007;
n. 11501 del 2006
) 1.2. - La sentenza è, infine, immune da vizi nella parte in cui ha ritenuto inapplicabile la L. Fall., art. 167. La lettera della norma, esaminata in combinato disposto con la L. Fall., artt. 164, 168 e 185, rende palese che l'inefficacia di diritto degli atti di disposizione compiuti dal debitore riguarda soltanto quelli posti in essere anteriormente alla sentenza di omologazione del concordato preventivo. Infatti, come questa Corte ha già affermato, sia pure in precedenti non recenti, che conservano immutata validità in difetto di modifiche normative applicatali ratione temporis ed in grado di inficiare le premesse sulle quali si fondano, la sentenza di omologazione del concordato preventivo determina la cessazione della relativa procedura, liberando il debitore da ogni vincolo, che non sia quello dell'osservanza delle condizioni del concordato, facendogli riacquistare in tal modo la capacita giuridica e la piena libertà di esercizio della sua impresa. Tanto comporta che il debitore, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato preventivo, non ha necessità, per promuovere un giudizio o per resistervi, di alcuna autorizzazione integrativa da parte degli organi preposti alla procedura concordataria (Cass. n. 2380 del 1965;
n. 748 del 1962
);

per effetto di detta sentenza viene meno il potere di gestione del commissario giudiziale (Cass. n. 7661 del 2005), che deve soltanto sorvegliare l'adempimento del concordato secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione (L. Fall., art. 185) e, se del caso, adottare le iniziative necessarie per provocare l'intervento del Tribunale ai fini dei provvedimenti di cui alla L. Fall., artt. 137, 138, (risoluzione ed annullamento del concordato), richiamati dalla L. Fall., art. 186, (Cass. n. 6859 del 1995). Pertanto, in caso di concordato con garanzie, il debitore acquista la piena disponibilità dei propri beni e, ai sensi della L. Fall., art.168, cessa anche il divieto per i creditori di iniziare o proseguire
azioni esecutive sul patrimonio del debitore e, per analogia di ratio, anche il divieto per i creditori di acquistare diritti di prelazione con efficacia rispetto ai creditori concorrenti (Cass. n. 6166 del 2003), spettando la legittimazione passiva rispetto alle prime all'imprenditore (Cass. n. 2346 del 1970). Inoltre, la L. Fall., art. 185, comma 2, stabilisce: "Dopo l'omologazione del concordato, il commissario giudiziale ne sorveglia l'adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione. Egli deve riferire al giudice ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori". La norma, come bene è stato osservato, ha innovato il sistema stabilito dalla L. 24 maggio 1903, n. 197, art. 21, nel quale il debitore fino al completo
adempimento del concordato preventivo non avrebbe potuto alienare o ipotecare i suoi immobili, sistema criticalo per la sua rigidità dalla dottrina, che accolse con favore la nuova disciplina, per la sua elasticità, bilanciata dalla possibilità della riapertura del fallimento.
Ne consegue che da detta norma, secondo la quale le funzioni di vigilanza e di direzione del commissario si trasformano in quelle di mera sorveglianza, dall'analogia con la L. Fall., art. 131, comma 4, nonché dalla L. Fall., art. 168, tenuto conto, delle considerazioni sopra svolte, si desume che ogni forma di concordato preventivo ha termine con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione, con conseguente irriferibilità della L. Fall., art. 167, agli atti compiuti dal debitore dopo tale momento.
2. - Il ricorrente, con il terzo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, comma 2, e dei principi in tema di onere della prova, nonché contraddittorietà della motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5). A suo avviso, la Corte territoriale ha ritenuto che la conoscenza da parte dell'acquirente della sottoposizione del venditore al concordato preventivo non prova la scientia decoctionis. Senonché, il "lungo ed articolato ragionamento" svolto nella pronuncia non reggerebbe all'obiezione che la Rossi avrebbe dovuto assumere adeguate informazioni, in grado di renderla consapevole dello stato di insolvenza del Maggiò e tanto, secondo il ricorrente, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice d'appello, sarebbe sufficiente a far reputare adempiuto l'onere della prova posto a suo carico.
2.1. - Il motivo è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità, la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del creditore, della cui dimostrazione è onerata la curatela ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, deve essere effettiva, non potenziale, e, tuttavia, può essere provata anche attraverso indizi aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, quindi fondata su elementi di fatto attinenti alla conoscibilità dello stato di insolvenza, purché idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva. La relativa dimostrazione può dunque anche essere indiretta, e cioè offerta mediante la logica concatenazione di circostanze che, in base al criterio di normalità, assunto a parametro di valutazione, consente appunto la prova presuntiva della scientia decoctionis (per tutte, Cass. n. 10208 del 2007;
n. 26935 del 2006;
10800 del 2006;
n. 19894 del 2005;
n. 13646 del 2004
). Siffatta prova si caratterizza per un intreccio tra il profilo oggettivo della insolvenza ed il profilo soggettivo della sua conoscenza e, non essendo possibile una prova diretta degli stati soggettivi, è imprescindibile fare riferimento, mediante lo strumento delle presunzioni, alla esistenza di segni esteriori dell'insolvenza ed alla loro conoscibilità da parte del convenuto in revocatoria avendo riguardo al parametro astratto del soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza (Cass. n. 26935 del 2006;
n. 17214 del 2004
). L'apprezzamento del Giudice di merito circa il ricorso alla presunzione quale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sono incensurabili in sede di legittimità, essendo l'unico sindacato in proposito riservato a questo Corte quello sulla completezza e coerenza logica della relativa motivazione (tra le molte, Cass. n. 10847 del 2007;
n. 3390 del 2005
;
:i. 17596 del 2003). Il vizio motivazionale non può, inoltre, consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal Giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (per tutte, Cass. n. 14752 del 2007;
n. 9368 del 2006;
n. 3436 del 2006;
n. 15805 del 2005
), risolvendosi in tal caso il motivo in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal Giudice del merito, al quale neppure può dunque imputarsi d'avere omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi (Cass. n. 15096 del 2005;
n. 996 del 2003;
n. 3904 del 2000
). Pertanto, la denuncia del vizio dell'art. 360 c.p.c., n. 5, va effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell'attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l'indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati dall'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento svolto dal Giudice del merito, quale risulta dalla sentenza. In altri termini, il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze o a incongruenze così gravi da impedire l'individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 20455 del 2006;
n. 7846 del 2006;
n. 2357 del 2004
), restando escluso che con il vizio in esame possa essere fatto valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal Giudice del merito e l'attribuzione agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi rispetto alle proprie aspettative e deduzioni.
Ebbene, la sentenza impugnata, con ampia e congrua motivazione, dopo avere premesso che l'unico elemento dedotto dal ricorrente a conforto dell'elemento soggettivo è stato la sottoposizione del Maggio a concordato preventivo, ha diffusamente esposto le ragioni dell'insufficienza di tale circostanza, indicandole, in sintesi: a) nel fatto che la sentenza di omologazione del concordato preventivo conteneva puntuali considerazioni in ordine non soltanto all'esistenza di garanzie idonee, ma anche alla capacità di ripresa dell'impresa ed alla sua vitalità, specificando analiticamente e vagliando le: circostanze concernenti tali punti (adeguatezza delle strutture dell'impresa;
entità dello sbilancio tra attivo e passivo;

contratti stipulati;
disponibilità delle banche);
b) nella circostanza che l'atto è stato stipulato in una fase avanzata dell'esecuzione del concordato ed in presenza di una situazione (puntualmente precisata, in riferimento ad elementi espressamente indicati) nella quale "appariva presumibile che l'adempimento fosse regolarmente in corso e che ciò fosse il frutto della vitale ripresa dell'attività aziendale". La pronuncia, sulla scorta dei numerosi elementi vagliati ha, quindi, desunto che, nella specie, la sottoposizione a concordato preventivo, nel quadro delle circostanze esistenti, deve ritenersi, da sola, inidonea a far ritenere provata la scientia decoctionis.
Tale essendo la motivazione della sentenza, risulta anzitutto priva di pregio la censura di contraddittorietà, dato che la Corte d'appello ha si indicato che la sottoposizione alla procedura concorsuale era indice della sussistenza dello stato di insolvenza, "tanto che in ordine ad una vendita stipulata subito dopo non potrebbe dubitarsi della decisiva rilevanza", ai fini che qui interessano, della conoscenza di questa circostanza. La pronuncia ha, però, poi indicato con argomentazioni ampie e logicamente ineccepibili le ragioni - sopra puntualmente sintetizzate - in virtù delle quali nella specie andava invece esclusa la esaustiva rilevanza di tale dato, sicché risulta chiara l'inesistenza della denunciata contraddizione.
Nella restante parte, il motivo è inammissibile, risolvendosi in una deduzione assertiva, non formulata nell'osservanza dei principi sopra sintetizzati, inidonea a prospettare un vizio rilevante ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, risolvendosi, in buon sostanza, nella mera affermazione dell'erroneità della pronuncia, senza che il ricorrente si sia dato carico di confutare specificamente la motivazione della pronuncia in esame.
3.- Con il quarto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, comma 1, e dei principi in tema di onere della prova, nonché "violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5", nella parte in cui il giudice d'appello non ha ammesso la c.t.u., in quanto esso istante si era limitato a dedurre la sproporzione tra le prestazioni.
Secondo il Curatore, la circostanza che la convenuta aveva chiesto anch'essa la c.t.u. avrebbe comportato un'inversione dell'onere della prova, mentre la c.t.p. da questa prodotta aveva soltanto il valore di allegazione difensiva ed il contratto preliminare di compravendita era inopponibile al Fallimento, siccome privo di data certa. Inoltre, la Corte territoriale ha espresso valutazioni sullo stato dell'immobile, "senza neanche visitare" il medesimo e "sulla base di dati che non si capisce da dove sono stati ricavati".
Infine, secondo la giurisprudenza di legittimità, la c.t.u. non può supplire alle carenze della parte nell'offrire la prova, ma è ammissibile quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto richieda il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, come appunto nella specie.
3.1. - Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata, dopo avere osservato che il Curatore si era limitato "ad affermare tour, court" la sussistenza della sproporzione, chiedendo l'ammissione di una c.t.u., ha. esposto che l'acquirente aveva depositato una relazione contenente dati oggettivi concernenti lo stato e la situazione dell'immobile, sottolineando che "nulla la curatela ha mai replicato a tali calzanti e documentate allegazioni difensive e nessun elemento di valutazione contrastante con esse ha ritenuto di offrire (ad es.: indicazione dei prezzi di mercato correnti in quella zona (...) valore fiscale dell'appartamento)".
La sentenza è dunque incensurabile, in quanto ha dato corretta applicazione al principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la consulenza tecnica d'ufficio ha la finalità di aiutare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitano di specifiche conoscenze, ma non può essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume (per tutte, Cass. n. 10117 del 2006;
n. 3881 del 2006;
n. 212 del 2006
). Dunque, come da ultimo è stato sottolineato proprio in riferimento all'accertamento della sproporzione del valore del bene compravenduto in ipotesi di esperimento dell'azione revocatoria fallimentare, la c.t.u. non è diretta "ad alterare il regime probatorio del giudizio civile, che rimane sempre affidato al disposto degli art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c.", e, di conseguenza, "l'onere di provare che il prezzo contrattuale era notevolmente inferiore al valore reale del bene" incombe sul curatore (Cass. n. 10117 del 2006). Inoltre, anche se la consulenza stragiudiziale è una semplice allegazione difensiva, (Cass. n. 20821 del 2006;
n. 3639 del 2004
), la Corte territoriale, tenuto conto dell'indicazione nella medesima di specifiche circostanze di fatto, puntualmente indicate (consistenti nella tipologia dell'appartamento, nella sua composizione, nello stato dell'immobile, nell'inesistenza del certificato d'abitabilità), in grado di consentire la valutazione di congruità del prezzo, le ha correttamente valorizzate. Pertanto, la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che la mancata contestazione di dette circostanze, benché agevolmente confutabili, in difetto di ogni ulteriore allegazione, confortava l'inaccoglibilità dell'istanza di ammissione della c.t.u., in quanto meramente esplorativa e tendente inammissibilmente a sollevare il ricorrente dall'onere probatorio posto a suo carico. Al riguardo va infatti ricordato che, come questa Corte ha di recente affermato, con argomentazioni condivise dal Collegio, alle quali è opportuno rinviare, nel nostro ordinamento processuale il principio di non contestazione deve ritenersi di carattere generale, risultando ormai "emancipato" dalla specificità del rito del lavoro, dalla posizione del convenuto e, soprattutto, dalla previsione degli artt. 416 e 167 c.p.c.. Dunque, può "affermarsi che nell'evoluzione
giurisprudenziale l'onere di contestazione (col relativo corollario del dovere, per il Giudice, di ritenere non abbisognevole di prova quanto non espressamente contestato), è divenuto principio generale che informa il sistema processuale civile, poggiando le proprie basi non più soltanto sul tenore dei citati artt. 416 e 167 c.p.c., bensì anche sul carattere dispositivo del processo - comportante una struttura dialettica a catena -, sulla generale organizzazione per preclusioni successive che, in misura maggiore o minore, caratterizza ogni sistema processuale -, sul dovere di lealtà e probità posto a carico delle parti dall'art. 88 c.p.c., - che impone ad entrambe di collaborare fin dalle prime battute processuali a circoscrivere la materia realmente controversa, senza atteggiamenti volutamente defatiganti, ostruzionistici o anche solo negligenti - ed infine, soprattutto, sul generale principio di economia che deve sempre informare il processo, vieppiù alla luce del novellato art. 111 Cost.", (Cass. n. 1540 del 2007, ove anche la una puntuale
ricostruzione dell'evoluzione giurisprudenziale e l'approfondimento delle ragioni che fondano il principio).
Ne consegue che correttamente la sentenza ha ritenuto valutabili le circostanze di fatto risultanti dalle allegazioni difensive dell'appellata che, sebbene agevolmente contestabili, non lo erano mai state, valorizzando altresì a tal fine la descrizione contenuta nel contratto preliminare quale mero elemento di fatto in ordine allo stato dell'immobile, sicché resta incensurabile la valutazione di inammissibilità dell'istanza della parte diretta ad ottenere l'ammissione di una c.t.u. in funzione meramente esplorativa e, in buona sostanza, per essere sollevata dall'onere della prova sulla stessa incombente.
4. - Il Curatore, con il quinto motivo, denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2901 c.c. e ss., e delle norme del codice di procedura civile in tema di onere della prova, nonché "violazione e
falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5", nella parte in cui la sentenza ha escluso che, in riferimento alla domanda di revocatoria ordinaria, sia stata provata la scientia damni.
Infatti, una volta affermato che l'acquirente era a conoscenza della procedura di concordato preventivo, in virtù dell'orientamento di questa Corte (espresso dalle sentenze indicate nel mezzo,) che ritiene possibile provare detto elemento anche mediante presunzioni e del principio secondo il quale ad integrarlo è sufficiente la consapevolezza dell'idoneità dell'atto a danneggiare i creditori (Cass. n. 1388 del 1981), non essendo necessario l'intento di arrecare pregiudizio ai creditori ed essendo sufficiente la possibilità della conoscenza di detta idoneità (Cass. n. 1468 del 1979), il Giudice d'appello non avrebbe potuto negare la sussistenza dell'elemento soggettivo, senza che, per l'attore, fosse necessario invocare esplicitamente la prova presuntiva di detta scientia. 4.1. - Il motivo è infondato.
La Corte d'appello ha affermato che "la curatala nulla ha allegato in ordine alla scientia damni", e cioè alla consapevolezza di arrecare un pregiudizio agli interessi dei creditori, da valutare "con riferimento al momento della stipulazione", ritenendo che "gli elementi di valutazione disponibili non consentono di ritenere dimostrato che la Rossi fosse consapevole del pregiudizio" arrecato dall'atto. In particolare, la sentenza ha avuto cura di specificare che le argomentazioni che avevano fondato la negazione della scientia decoctionis per rigettare la domanda L. Fall., ex art. 67, comma 2, confortavano la considerazione che "la vendita, che si presentava come legittimo atto di liquidazione (...) non appariva in quel momento atta a frustrare le aspettative di realizzazione dei diritti dei creditori, ne' a renderla più difficoltosa, atteso che essa sembrava regolarmente in corso secondo le modalità consentita (...) e non vi era motivo di ritenere che i creditori sarebbero rimasti insoddisfatti".
Si tratta, come è chiaro, di una motivazione ampia, logicamente coerente e congruente, che si sottrae alla censura del ricorrente, peraltro formulata apoditticamente, in contrasto con le modalità che sarebbe stato necessario osservare nella denuncia del vizio dell'art.360 c.p.c., n. 5, (supra indicate sub 2.1.).
Inoltre, la doglianza, nella parte in cui mira a sostenere che la conoscenza della procedura di concordato preventivo era sufficiente a far ritenere esistente la scientia damni è infondata, in quanto al riguardo, con motivazione completa e logicamente corretta, la sentenza impugnata ha ritenuto che le argomentazioni che avevano fondato la valorizzabilità della procedura concorsuale al fine di desumere la scientia decoctionis - ritenute incensurabili in questa sede per quanto esposto nell'esame del terzo motivo - imponevano anche di escludere la possibilità della conoscenza del pregiudizio. Pertanto, risulta palese che il Giudice del merito ha ritenuto che, in astratto, quest'ultima circostanza avrebbe potuto integrare la condizione soggettiva dell'azione, identificata con la conoscenza del pregiudizio provocato dall'atto - quindi, non sussiste alcuna erronea interpretazione dell'art. 2901 c.c. -, ma ha poi escluso, con apprezzamento di fatto correttamente motivato ed immune da vizi censurabili in questa sede, che nella specie, in considerazione della situazione esistente (sopra indicata, nell'esame del terzo motivo) la stessa potesse fondare la prova di detta condizione e che sussistessero indizi dai quali desumerla.
5. - In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese della presente fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

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