Cass. civ., sez. I, sentenza 09/11/2021, n. 32666

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 09/11/2021, n. 32666
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 32666
Data del deposito : 9 novembre 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

, da soddisfarsi a mezzo di denaro proprio dell'amministratore colpevole". Ha invero osservato che una domanda risarcitoria di tal genere non era stata mai concretamente avanzata. Avverso la sentenza d'appello, depositata il 15 giugno 2018 e non notificata, hanno proposto ricorso G S e C N, quest'ultima anche nella veste di procuratore di D N. Hanno dedotto un unico motivo. G P C, M S e S P C hanno replicato con unico controricorso. Non hanno svolto attività difensive gli eredi di V Z. La causa è stata rimessa in pubblica udienza dalla sesta sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 21426-20. Il PG ha depositato conclusioni scritte. Ragioni della decisione I. - Con l'unico motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 81 e 113 cod. proc. civ., 1703, 1713, 2260, 2261, 2262 cod. civ. per avere la corte d'appello erroneamente affermato che il socio accomandante non può agire nei confronti dell'amministratore per sentirlo dichiarare obbligato, in forza del contratto di mandato allo stesso conferito, a distribuire gli utili maturati dalla s.a.s. nel corso dell'esercizio e deliberati dall'assemblea sociale. In tal guisa le ricorrenti assumono che la corte territoriale abbia trascurato di considerare che l'azione proposta aveva avuto per oggetto "l'accertamento dell'obbligo (..) dell'ing. P C, quale amministratore della s.a.s., di distribuire gli utili nell'ammontare già deliberato dalla società a seguito dell'approvazione del rendiconto da lui stesso presentato";
e che abbia "altresì confuso" che la condanna del P era stata paventata come "conseguenza di un mero obbligo di facere dell'amministratore, tenuto per legge all'esecuzione dei deliberati assembleari". Difatti ai sensi dell'art. 2262 cod. civ. sorge in maniera automatica, in capo ai soci, il diritto di credito finalizzato a percepire l'utile annuo risultante dal rendiconto sulla base della rispettiva partecipazione al capitale sociale della società;
sicché tale diritto andrebbe considerato immediatamente azionabile in caso di mancato adempimento, "con legittimazione del socio ad agire nei confronti dell'amministratore per ottenere quanto deliberato dall'assemblea". II. - Il ricorso è infondato. Titolare dell'obbligo di distribuzione degli utili che sono stati prodotti dall'impresa sociale è solo la società (nella specie, la società in accomandita), trattandosi - come già premesso dall'ordinanza interlocutoria - di soggetto giuridico autonomo e distinto dalle persone che compongono la relativa compagine e di soggetto alla cui attività rimonta, soprattutto, la produzione dei richiamati utili. Codesti invero fanno parte del patrimonio sociale fino a che, per la società di persone, non intervenga la delibera di approvazione del bilancio (o del rendiconto) che ne determina l'emersione. Ne segue che, nella società di persone, l'approvazione del citato documento, dal quale emerga l'esistenza dell'utile, è la (sola) condizione sufficiente a legittimare ciascun socio a pretendere che la società gli distribuisca la quota parte di utile spettante. A tale principio si è rettamente attenuta l'impugnata sentenza. III. - Nessuno spazio esiste per individuare, invece, la legittimazione passiva dell'accomandatario sulla base di una distinta prestazione di "fare" a lui personalmente ascrivibile. Questo per l'essenziale ragione che la prestazione correlata al diritto all'utile non è altro che una prestazione di "dare", giustappunto integrata dall'obbligo di distribuzione incombente sulla società;
sicché è sempre infine solo la società, e non altri, il soggetto tenuto ad adempiere. Che poi l'adempimento presupponga l'agire dell'amministratore non sposta affatto i termini della questione, dal momento che l'amministratore è in questa prospettiva semplicemente l'organo tramite il quale la società comunemente opera;
un organo tenuto sì alla diligenza richiesta, ma sulla base del ben diverso titolo identificabile nel patto che lo impegna a gestire l'impresa sociale. Da ciò la condivisibile considerazione, già fatta dall'ordinanza interlocutoria, per cui la tesi formulata dalle ricorrenti - in punto di distribuzione di utili e prestazione di fare dell'amministratore della società - si sostanzia in un artificio verbale, quando non - può qui aggiungersi - in un espediente illogico. Il quale ben risalta dall'osservazione che la domanda di corresponsione - come precisato dalle stesse ricorrenti - si dice, da un lato, esser stata avanzata per "l'esecuzione di un'obbligazione avente ad oggetto un facere (la distribuzione degli utili) che trova origine nel rapporto di mandato esistente tra i soci e l'amministratore", e, dall'altro, con certa qual contraddizione, senza presupporre tuttavia una "richiesta di accertamento della sussistenza di un credito". Quando invece è di solare evidenza che sottendere che l'azione giudiziale sia stata dettata semplicemente dall'art. 1713 cod. civ. in tema di rendiconto del mandatario equivale a spostare il fuoco dell'attenzione su un profilo assolutamente estraneo alla fattispecie societaria, visto che la citata norma collocherebbe l'impegno nel diverso schema del contratto di scambio che lega mandante e mandatario, e che in tal senso obbliga il mandatario a semplicemente rimettere al mandante "tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato". Cosa che implica di muoversi in un ambito causale del tutto diverso rispetto a quello della rappresentanza organica della società in rapporto ai terzi, tali essendo i soci una volta maturato il credito verso la società, per la ragione che, radicata l'obbligazione di pagamento, l'unico soggetto tenuto ad adempiere sarebbe per l'appunto e sempre la società. IV. - L'ordinanza interlocutoria, sebbene mantenendo fermi codesti punti, ha riservato la definizione del ricorso alla pubblica udienza rilevando - ben vero "in via propriamente d'ipotesi" - che la prospettazione dei fatti esposti nel ricorso e nella sentenza impugnata avrebbe potuto condurre all'emersione di una diversa ragione giuridica idonea a sostenere la richiesta che è alla base del ricorso per cassazione. Difatti ha ricordato che nella società in accomandita semplice "il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell'art. 2262 cod. civ. (applicabile in forza del duplice richiamo di cui agli artt. 2315 e 2293), alla sola approvazione del rendiconto", da intendere come situazione contabile sostanzialmente equivalente al bilancio di esercizio (Cass. n. 1240-96, Cass. n. 28806-13, Cass. n. 17489-18). Per cui una volta approvato il richiamato documento contabile ciascun socio risulta a pieno titolo creditore nei confronti della società in relazione alla quota di utili, che è di sua specifica spettanza. Del relativo rapporto obbligatorio, annoverabile, per il suo lato attivo, tra i "crediti sociali" di cui all'art. 2304 cod. civ. e, per il suo lato passivo, tra le obbligazioni sociali di cui all'art. 2291 cod. civ., potrebbero rispondere dunque anche i soci accomandatari, nei sensi delle norme appena citate e in termini illimitati e solidali con la società (salvo il beneficio di preventiva escussione di questa). Cosa che non precluderebbe, tuttavia, al creditore sociale di agire in sede di cognizione (ai sensi dell'art. 2304 cod. civ.) per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio illimitatamente e solidalmente responsabile dell'obbligazione sociale (per tutte Cass. n. 21768-19). Da questo punto di vista l'ordinanza interlocutoria ha prospettato l'eventuale incidenza di un tema di portata nomofilattica, quale quello della ammissibilità del rilievo d'ufficio di una ragione giuridica diversa da quella prospettata dalla parte ricorrente;
salva tuttavia la necessità di investigare poi la linea di confine sussistente tra la semplice diversità della ragione giuridica utilizzabile per definite il ricorso e la possibile eventuale invasione nel monopolio della domanda di parte. V. - La questione prospettata dall'ordinanza interlocutoria non consente di addivenire a una soluzione diversa dal rigetto del ricorso per cassazione. La ragione è assai semplice, ed è nel fatto che una domanda del genere di quello al quale ha alluso l'ordinanza non è stata mai avanzata nel giudizio di merito, alla luce di quanto, d'altronde, emergente finanche dall'esposizione delineata nel ricorso. E' vero che in ragione della funzione del giudizio di legittimità, di garantire l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, deve ritenersi che nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto la Corte di cassazione, fermi i fatti accertati dal giudice del merito, può ritenere fondata la questione sollevata dal ricorso per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte. Non è men vero tuttavia che ciò può avvenire col duplice limite (a) dell'intangibilità della questione di fatto e (b) del rispetto del principio dispositivo, vale a dire nel rispetto del monopolio della parte nell'esercizio della domanda. E quindi può avvenire purché l'attività nonnofilattica non abbia a presupporre, da questo secondo punto di vista, un mutamento della domanda per come definita nella causa petendi prospettata in giudizio (v. già Cass. n. 18775-17, Cass. n. 17015-18, Cass. n. 21333-19, Cass. n. 27704-20). VI. - Nel caso concreto è decisivo constatare che i termini contenutistici della domanda a suo tempo formulata nel giudizio del merito, per quel che emerge dallo stesso attuale ricorso, sono stati basati sulla condanna dell'accomandatario quale conseguenza del mero e infondato assunto dell'esistenza in capo a lui di una specifica obbligazione di fare, suscettibile di essere accertata a prescindere dall'azione nei confronti della società. Cosicché in nessun modo è stata consegnata al giudizio di merito la questione dell'eventuale condanna dell'accomandatario per un'obbligazione solidale ai sensi dell'art. 2291 cod. civ. Le spese seguono la soccombenza.
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