Cass. pen., sez. III, sentenza 15/10/2021, n. 37582

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. III, sentenza 15/10/2021, n. 37582
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 37582
Data del deposito : 15 ottobre 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

a seguente SENTENZA sul ricorso proposto da C A nato a Rossano il 10/12/1980;
avverso la sentenza del 02/03/2020 della corte di appello di Messina;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere G N;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale L C, che ha concluso chiedendo di dichiarare l'inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 2 marzo 2020 la corte di appello di Messina confermava la sentenza del 25 settembre 2019 del tribunale di Messina con cui C A era stato condannato in relazione al reato di cui all'art. 4 del Dlgs. 74/2000. 2. Avverso la predetta ordinanza C A propone ricorso per cassazione, mediante il proprio difensore, deducendo due motivi di impugnazione.

3. Deduce con il primo la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. in relazione all'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. Sarebbe violato il predetto articolo perchè la motivazione sarebbe fondata su indizi che non possono fondare il giudizio di penale responsabilità. Indizi costituiti dall'accertamento dell'Agenzia delle Entrate, in contrasto con il principio per cui le presunzioni tributarie non possono di per sé giustificare giudizi di penale responsabilità. Si aggiunge che travisando la prova i giudici avrebbero ritenuto che il ricorrente non avrebbe provato la provenienza degli assegni con i quali aveva provveduto al pagamento di un acconto per l'acquisto di un immobile, mentre invece alla luce della testimonianza di un teste della GDF sarebbe emerso che il ricorrente avrebbe prodotto gli assegni con i quali aveva pagato parte del prezzo del citato immobile, e che soltanto essi non erano stati ritenuti dalla Agenzia delle Entrate idonei a giustificare a fini fiscali l'accertamento in corso perché emessi dal compagno more uxorio della madre siccome soggetto non rientrante nel nucleo familiare del contribuente e siccome per giurisprudenza della Cassazione civile sezione tributaria a fini fiscali unici soggetti idonei a contribuire all'acquisto di un immobile sono i componenti del nucleo familiare del contribuente. Emergerebbe il vizio di violazione di legge atteso che sarebbe emersa solo una condotta di elusione fiscale e abuso del diritto ex art. 10 bis L. 212/2000. 4. Con il secondo motivo rappresenta la violazione degli artt. 4 Dlgs. 74/2000 e 10 bis L. 212/2000 in relazione all'art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. Avendo il C, usufruito per l'acquisto in precedenza citato, dell'importo di assegni del convivente more uxorio della madre, avrebbe fatto ricorso al cd. "mutuo garantito" i cui proventi non devono essere inseriti nella dichiarazione dei redditi annuale. Al pari di quelli ricevuti con un mutuo oneroso. Tali prospettazioni non sarebbero state valutate dalla corte di appello, limitatasi a considerare che il reato sarebbe stato integrato, senza che fosse necessaria alcuna altra attività fraudolenta rispetto a quanto sopra illustrato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è manifestamente infondato, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dei principi relativi alla utilizzabilità, in sede penale, degli esiti degli accertamenti operati in sede tributaria. Va premesso che non sussiste norma che vieti al giudice penale di avvalersi, ai fini, in generale, della prova della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati tributari, ivi compreso, evidentemente, quello, contestato in questa sede, di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, delle risultanze degli accertamenti operati in sede tributaria, in ragione del principio di atipicità dei mezzi di prova operante nel processo penale e di cui è espressione la previsione dell'art. 189 cod. proc. pen. (Sez. 3 - , n. 36207 del 17/04/2019 Rv. 277581 - 01);
resta salva peraltro, la necessità che tali elementi siano, ove necessario, in conformità delle peculiarità dei fatti giudicati e dei rilievi delle parti, fatti oggetto di un'autonoma valutazione che coniughi la valorizzazione di tali risultanze con i criteri in generale dettati dall'art. 192, cod. proc. pen. Nel contempo, è pur vero che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione dell'illecito, assumendo il valore di dati di fatto che, unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa, devono poter essere valutati liberamente dal giudice penale (ex multis: Sez.III, n. 7078/2013;
Id., n. 30890/2015;
Id., n. 7242/2018). Ma ciò non significa che qualsivoglia accertamento svolto in sede tributaria debba essere confuso con rilievi fondati su presunzioni legali di cui sopra, solo per i quali ultimi opera il principio immediatamente prima esposto, sussistendo, per i restanti, i criteri valutativi in tema di indizi o prove vigenti in via generale in sede penale. Nel caso di specie i giudici di merito hanno valutato un complesso di dati indiziari, esulanti da profili meramente presuntivi ex lege, ritenuti convergenti in maniera grave e precisa, verso il finale giudizio di responsabilità. In linea con tale impostazione, la corte di appello ha infatti precisato in sentenza come siano emersi, nell'anno di riferimento della dichiarazione di cui al capo di imputazione, spese certe per circa 15.000 euro e spese per investimenti per almeno 400.000 euro. A fronte di redditi dichiarati di soli 1200,00 euro circa. Ha quindi aggiunto che il ricorrente non ha fornito spiegazione nè della disponibilità della somma per "spese correnti" né di quella utilizzata per l'acquisto complessivo di un immobile pari a 650.000 (di cui 250.000 pagati previo accollo di un mutuo), essendosi lo stesso limitato a produrre gli assegni versati per l'acquisto, solo asserendo che essi conseguivano ad una somma versatagli dal convivente more uxorio della madre, ma senza fornire, né gli estratti di conto corrente dimostrativi della provenienza sul suo conto corrente della predetta provvista né altra documentazione dimostrativa del prospettato apporto economico assicurato dal citato convivente.t Così rinvenendo la sussistenza dell'ipotesi accusatoria secondo un percorso logico-giuridico fondato su elementi obiettivi di disponibilità di somme incompatibili con la dichiarazione dei redditi di cui all'imputazione e su asserzioni difensive rivelatesi meramente evanescenti, pur a fronte della loro dimostrabilità, ove realmente fondate. Si tratta di un ragionamento dimostrativo indiscutibilmente congruo e immune da vizi. Ne' appare in alcun modo fondata la tesi del travisamento della prova a fronte di dimostrate provviste fornite al ricorrente dal convivente more uxorio della madre, per l'acquisto dell'immobile, e non considerate dalla Agenzia delle Entrate in base ad un indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte. Anche sul punto è dirimente il richiamo, da una parte, al teste Carbonaro, che ha precisato come l'imputato non avrebbe fornito documentazione a supporto della tesi per cui i 400.000 euro versati per l'acquisto dell'immobile gli sarebbero stati forniti dal citato compagno della madre, e dall'altra la sottolineatura per cui la predetta carenza probatoria non sarebbe stata in alcun modo sanata, non avendo l'imputato prodotto alcuna documentazione a supporto della citata tesi. Rilievo quest'ultimo che ben si combina con la richiamata dichiarazione dell'ulteriore teste Granata, di cui all'allegato 3 del ricorso, che pur rammentando la produzione, da parte del ricorrente, di documentazione che tuttavia non sarebbe stata presa in considerazione dalla Agenzia delle Entrate siccome proveniente dal compagno della madre, ritenuto estraneo ai fini fiscali al nucleo familiare di appartenenza del C, non ha comunque descritto specificamente tale produzione, al fine di poter stabilire la piena aderenza alla tesi della provvista "esterna" di 400.000 euro, sostenuta dall'imputato. Ed a prescindere in ogni caso da ogni approfondimento giuridico circa la possibile rilevanza, sul piano difensivo, di una tale circostanza. C, a fronte di dichiarazioni testimoniali così generiche e non approfondite, nel senso dianzi evidenziato, in sede di controesame, neppure dalla difesa, né corroborate da una puntuale e completa produzione documentale di riscontro e specificazione, risulta del tutto coerente con il compendio probatorio la notazione motivazionale della assenza di estratti di conto corrente e di altra documentazione dimostrativa del prospettato apporto economico assicurato dal citato convivente. Va altresì osservato che la censura in esame oltre a non scardinare in alcun modo la motivazione censurata, è di per sé inammissibile in quanto nel richiamare la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. in relazione a vizi di motivazione, non ne specifica la tipologia di quello concretamente emergente. In termini di carenza, contraddittorietà o illogicità della motivazione.i E' noto, in proposito, che l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame». La disposizione, letta in combinazione con l'art. 581 c.p.p., per cui è onere del ricorrente enunciare tra l'altro i motivi del ricorso, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, evidenzia che non è ammessa l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso: consegue che il ricorrente deve specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata. (Sez. 2^, sentenza n. 31811 dell'8 maggio 2012, Rv. n. 254329). Più di recente, la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente ribadito tale indirizzo, laddove si è precisato che in tema di ricorso per cassazione, la denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581, comma primo, lett. c) e 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 Rv. 264535 - 01 Rugiano). Si tratta di vizi eterogenei non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento a un medesimo segmento del costrutto motivazionale che sorregge il provvedimento impugnato. I vizi della motivazione si pongono in rapporto di reciproca esclusione, posto che ove la motivazione manchi, essa non può essere, al tempo stesso, né contraddittoria, né manifestamente illogica;
di converso, la motivazione viziata non è mancante;
infine, il vizio della contraddittorietà della motivazione (introdotto dall' articolo 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha novellato l'articolo 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.) è nettamente connotato rispetto alla manifesta illogicità (cfr. sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 Rv. 264535 cit.).
Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi