Cass. pen., sez. I, sentenza 24/01/2020, n. 02970

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. I, sentenza 24/01/2020, n. 02970
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 02970
Data del deposito : 24 gennaio 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da D M S, nato a Napoli il 15/9/1965, avverso l'ordinanza del Corte di appello di Lecce in data 19/2/2019;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere C R;
letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale F M, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza in data 19/2/2019, la Corte di appello di Lecce, in qualità di giudice dell'esecuzione, applicò, nei confronti di S D M, brigadiere in servizio nell'Arma dei Carabinieri, la sanzione militare accessoria della rimozione, disponendo l'annotazione dell'ordinanza sull'originale della sentenza della Corte di appello di Lecce in data 1/3/2017, irrevocabile il 13/9/2017, con la quale egli era stato, in precedenza, condannato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per concorso nei reati di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici e di porto illegale di armi. Secondo l'assunto della Corte pugliese, infatti, l'art. 33, comma 2, cod. pen. mil. pace prevede che la condanna pronunciata contro un militare in servizio per uno dei delitti di cui agli artt. 476 e 493 cod. pen. comporta, oltre alle pene accessorie comuni, anche la pena militare accessoria della rimozione, la quale, secondo tale ricostruzione, deve essere obbligatoriamente applicata. Ciò alla luce dell'art. 20 cod. pen. mil . pace, secondo cui tali sanzioni accessorie "conseguono di diritto alla condanna", nonché dell'art. 183 disp. att. cod. proc. pen., a mente del quale "quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge nella specie e nella durata, il pubblico ministero ne richiede l'applicazione al giudice dell'esecuzione se non si è provveduto con la sentenza di condanna".

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione lo stesso D M per mezzo del difensore di fiducia, avv. Francesco Castiello, deducendo quattro distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.. 2.1. Con il primo motivo, il ricorso prospetta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la violazione dell'art. 183 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui "quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge nella specie e nella durata, il pubblico ministero ne chiede l'applicazione al giudice dell'esecuzione se non si è provveduto con la sentenza di condanna". Nel caso di specie, infatti, la Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Lecce, pur avendo chiesto l'applicazione della rimozione al Giudice dell'esecuzione, avrebbe nondimeno concluso, all'udienza del 23/1/2019, dopo aver preso atto delle memorie depositate nell'interesse dell'interessato, sollecitando il rigetto della propria iniziale richiesta. Pertanto, il Collegio pugliese avrebbe dovuto considerare ormai venuto meno l'interesse della Parte pubblica all'applicazione della pena accessoria originariamente invocata;
e, quindi, avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità sopravvenuta del procedimento istaurato o, quantomeno, l'improcedibilità sopravvenuta del medesimo.

2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura, ex art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 1371 del codice dell'ordinamento militare (di seguito c.o.m.), nonché la mancanza della motivazione in relazione alla dedotta violazione del principio del ne bis in idem. Secondo l'art. 1371 c.o.n., "un medesimo fatto non può essere punito più di una volta con sanzioni di differente specie". Pertanto, il brigadiere D M non avrebbe potuto essere sanzionato con la rimozione, essendogli già stata inflitta la sanzione di stato della sospensione disciplinare dall'impiego per 2 mesi. L'ordinanza impugnata avrebbe omesso ogni motivazione sul punto, ritenendo che la doglianza fosse "afferente alla successiva fase dell'adozione del provvedimento di perdita del grado senza giudizio disciplinare". Inoltre, la decisione sarebbe illogica e contraddittoria, atteso che il Comando interregionale dei Carabinieri "Ogaden" non avrebbe dovuto richiedere alla Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Lecce l'applicazione di una ulteriore sanzione accessoria, essendo a conoscenza del fatto che era già stata emessa la sanzione di stato.

2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., della inosservanza o erronea applicazione dell'art. 1392 c.o.m., nonché della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla dedotta intempestività della richiesta formulata alla Procura generale territoriale, avendo l'Amministrazione cui faceva capo il brigadiere D M manifestato, già in data 18/4/2018, la volontà di non procedere all'avvio di alcun procedimento amministrativo, secondo quanto comunicato dal Capo di Stato maggiore, colonello D P;
tanto è vero che il Comando dei Carabinieri avrebbe fatto inutilmente decorrere il termine di 90 giorni entro cui l'eventuale procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere intrapreso. Sul punto, il Collegio di secondo grado avrebbe ritenuto che la questione avrebbe dovuto essere posta nella fase successiva dell'applicazione della sanzione accessoria, senza però motivare il percorso logico-giuridico seguito per giungere a tale conclusione.

2.4. Con un quarto motivo (peraltro non formalmente numerato e, tuttavia, concettualmente autonomo dal terzo motivo), la Difesa ripropone la questione di costituzionalità dell'art. 33, comma 2, cod. pen. mil . pace già dedotta nel corso dell'incidente di esecuzione. Si premette che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 268/2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 866, comma 1, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 sul presupposto che esso contemplasse un'ipotesi di estinzione automatica del rapporto di lavoro a seguito di condanna penale, senza previo giudizio disciplinare, in contrasto con il principio generale posto dall'art. 9, legge 7 febbraio 1990, n. 19, rispetto al quale la stessa Consulta aveva affermato, con sentenza n. 363 del 1996, la "illegittimità della destituzione di diritto", sottolineando "la necessità che si svolga il procedimento disciplinare al fine di assicurare l'indispensabile gradualità sanzionatoria, riconducendo alla loro sede naturale le relative valutazioni". Ciò in quanto l'automatismo del citato art. 866 si poneva, secondo la Corte costituzionale, in contrasto frontale sia con l'art. 3 Cost., equiparando situazioni affatto diverse, sia con il principio di proporzionalità di cui all'art. 5 Trattato UE, che vincola il legislatore interno in forza dell'art. 117, comma primo, Cost. e che impone che la determinazione sanzionatoria corrisponda ai requisiti della necessarietà, adeguatezza, proporzionalità in senso stretto, sia, infine, con il canone di buon andamento della Pubblica amministrazione e di quello secondo cui "l'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica". In definitiva, l'estinzione del rapporto di lavoro, nel caso di condanna per delitto non colposo comportante la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, potrebbe essere pronunciata solo a seguito di un provvedimento disciplinare nel rispetto delle garanzie del diritto di Difesa, restando escluso »jb l'automatismo decadenziale. Dovendo la sanzione disciplinare essere graduata, di regola, nell'ambito dell'autonomo procedimento a ciò preposto, secondo criteri di proporzionalità e adeguatezza al caso concreto, e non potendo pertanto costituire l'effetto automatico e incondizionato di una condanna penale (sentenze n. 234 del 2015, n. 2 del 1999, n. 363 del 1996, n. 220 del 1995, n. 197 de11993, n. 16 del 1991, n. 158 del 1990, n. 971 del 1988 e n. 270 del 1986), neppure quando si tratti di rapporto di servizio del personale militare (sentenze n. 363 del 1996 e n. 126 del 1995). Inoltre, la Difesa sottolinea che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, "le presunzioni assolute specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit, con la conseguenza che "l'irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (ex multis, sentenze n. 185 del 2015, nn. 232 e 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011 e n. 265 e 139 del 2010). (...) Dunque, a causa dell'ampiezza dei presupposti a cui viene collegata l'automatica cessazione dal servizio, le disposizioni impugnate non possono validamente fondare, in tutti i casi in esse ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneità o indegnità morale o, tanto meno, di pericolosità dell'interessato, tale da giustificare una sanzione disciplinare così grave come la perdita del grado con conseguente cessazione dal servizio. L'automatica interruzione del rapporto di impiego è, infatti, suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalità di casi, rispetto ai quali è agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata n'spetto allo scopo perseguito. Di qui, l'irragionevolezza delle disposizione oggetto di giudizio, e la conseguente violazione dell'art. 3 Cost. sotto questo profilo". In definitiva, l'automatismo decadenziale previsto dall'art. 33, comma 2, cod. pen. mil. pace risulterebbe macroscopicamente irragionevole in quanto violerebbe i canoni di eguaglianza, di ragionevolezza, di proporzionalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, producendo una estinzione indiscriminata del rapporto di lavoro sulla base di una presunzione assoluta, fondata su una generalizzazione che contrasterebbe con i principi di proporzionalità della sanzione e di uguaglianza, sottoponendo a una disciplina identica situazione differenti, in spregio dell'art. 3 Cost.. 3. In data 24/6/2019, è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stato chiesto il rigetto del ricorso.
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