Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 27/03/2004, n. 6155

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Massime1

L'erogazione dell'assegno per il nucleo familiare previsto dall'art. 2 del D.L. 13 marzo 1988, n. 69, convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153, presuppone - alla stregua della funzione previdenziale assunta dall'istituto rispetto alla originaria funzione di mera integrazione del salario - l'effettivo svolgimento di attività lavorativa, come si evince dalla disciplina generale sugli assegni familiari di cui al d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, e successive modificazioni ed integrazioni, richiamata dal terzo comma del predetto art. 2, la quale - ad eccezione di alcune particolari situazioni specificamente indicate (malattia, infortunio etc.) - commisura la entità degli assegni relativi a ciascun periodo di paga alle e ad un numero minimo di ore lavorate; ne consegue che, al di fuori delle predette situazioni particolari (e di quelle specificamente contemplate da altre disposizioni, quali i periodi di cassa integrazione e di mobilità e quelli di permesso o aspettativa per motivi politici o sindacali), gli assegni non spettano per i periodi (nella specie, compresi fra la data di sospensione dell'attività produttiva e quella di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore) in cui, pur essendo formalmente in essere il rapporto, sia tuttavia carente la prestazione lavorativa in conseguenza della insussistenza del sinallagma funzionale del contratto (nella quale ipotesi, d'altra parte, non sorge neanche il diritto alla retribuzione, che, per il principio generale di corrispettività, è anch'esso collegato alla prestazione lavorativa, eccetto i casi di illegittima interruzione o unilaterale sospensione del rapporto, nei quali l'obbligo retributivo è riconducibile agli effetti risarcitori della condotta inadempiente del datore di lavoro). Nè l'esclusione del diritto agli assegni, limitatamente a tali periodi, suscita dubbi di illegittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., con riguardo alla diversità di trattamento rispetto alla indicate situazioni particolari, atteso che in queste ultime la scelta del legislatore - di equiparare determinati periodi di inattività lavorativa alla prestazione effettiva - trova giustificazione nella esigenza sociale di sostegno temporaneo di alcune categorie di lavoratori in dipendenza di programmi di risanamento dell'attività produttiva soggetti al controllo della p.a. (cassa integrazione, mobilità) oppure è riconducibile alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, in relazione ad eventi che comportano "ex lege" l'inattività (malattia, infortunio, maternità)e alla necessità del ripristino delle energie lavorative e del godimento della vita familiare e sociale (ferie, riposi) ovvero in relazione all'esercizio di diritti politici e sindacali (permessi e aspettative per ricoprire cariche pubbliche elettive e sindacali) e all'assolvimento di doveri civici (richiamo alle armi).(Nella specie, in applicazione del principio di cui alla massima, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il diritto del ricorrente alla corresponsione dell'assegno in questione per il periodo controverso, non attribuendo alcun rilievo alla circostanza che tale diritto fosse stato riconosciuto da circolari emanate dall'INPS, non potendo tali circolari derogare a disposizioni di legge, ne' al fatto che i crediti per le retribuzioni del periodo in questione fossero stati ammessi al passivo fallimentare, atteso che, a parte la non configurabilità di un collegamento esclusivo del diritto all'assegno con quello alla retribuzione, comunque non invocabile nella specie, il ricordato provvedimento giudiziale era vincolante solo ai fini dell'accollo, gravante "ex lege" sull'INPS, come Fondo di garanzia ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992, del debito retributivo del datore di lavoro insolvente, ma non acquistava alcuna efficacia nel giudizio in cui l'INPS era evocato come soggetto direttamente obbligato alla prestazione previdenziale.)

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. IV lav., sentenza 27/03/2004, n. 6155
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 6155
Data del deposito : 27 marzo 2004
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. R E - Presidente -
Dott. B B - Consigliere -
Dott. M F - Consigliere -
Dott. E S M - Consigliere -
Dott. M U - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D A, elettivamente domiciliato in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati D C, B C, giusta delega in atti;



- ricorrente -


contro
INPS - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA VIA DELLA FREZZA

17, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto rappresentato e difeso dagli avvocati F J, G F, G B, giusta delega in calce alla copia notificata del ricorso;

- resistente con mandato -
avverso la sentenza n. 540/01 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 14/06/01 - R.G.N. 1995/2000;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 18/11/03 dal Consigliere Dott. U M;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. I D che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L'odierno ricorrente, ex dipendente della società New Play Basket, dichiarata fallita in data 20 settembre 1994, si rivolgeva al Tribunale di Treni in funzione di giudice del lavoro per ottenere il riconoscimento del diritto, negato dall'INPS in via amministrativa, a percepire gli assegni per il nucleo familiare per il periodo intercorso dal febbraio 1994 sino alla data del fallimento, in relazione al quale aveva ottenuto l'ammissione al passivo dei crediti per le corrispondenti retribuzioni.
L'Istituto, costituendosi in giudizio, resisteva a tale pretesa eccependo che nel predetto periodo il lavoratore era rimasto solo formalmente in forza presso la società, senza compiere, peraltro, alcuna attività di lavoro, sicché difettavano i requisiti previsti dall'art. 59 d.P.R. n. 797 del 1955 per la corresponsione degli assegni in questione.
L'adito Tribunale accoglieva la domanda e, per l'effetto, dichiarava il diritto del ricorrente a percepire i predetti assegni per il periodo 8 febbraio-20 settembre 1994 e condannava l'INPS a corrispondere le somme dovute a tale titolo, oltre ad accessori di legge e spese giudiziali.
Tale decisione veniva riformata dalla Corte d'appello di Bari, che - con la sentenza in epigrafe specificata - accoglieva il gravame interposto dall'Istituto e respingeva la domanda attorca, compensando le spese dei due gradi di giudizio.
I giudici d'appello osservavano che erano insussistenti i requisiti richiesti dall'art. 59 cit., in quanto, se pure il rapporto di lavoro si era protratto dall'8 febbraio al 20 settembre 1994, tuttavia il lavoratore non aveva effettuato in tale periodo neanche un giorno di lavoro, cui potere ancorare un proporzionale diritto agli assegni, mentre il riconoscimento di tale diritto presupponeva l'effettività del lavoro svolto;
non poteva valere, in senso contrario, la circolare dell'INPS a 106 del 1999, sia perché questa non aveva rilevanza esterna, sia perché essa, comunque, prevedeva la corresponsione degli assegni, in mancanza della prestazione, soltanto in situazioni in cui alla sospensione dell'attività lavorativa fosse seguita la successiva ripresa o almeno questa fosse concretamente ipotizzabile, mentre, nella specie, l'attività era cessata definitivamente sin dall'interruzione del lavoro, dacché erano stati anche asportati i macchinali e gli attrezzi aziendali (così come era emerso da una visita ispettiva che aveva dato luogo alla revoca della cassa integrazione).
Per la cassazione di tale decisione ricorre il lavoratore deducendo due motivi di impugnazione.
L'Istituto ha depositato procura speciale rilasciata ai difensori. MOTIVI DELLA DECISIONE


1 - Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 59 d.P.R. n. 797 del 1955. Sulla premessa di fatto che la società datrice di lavoro nel mese di febbraio 1994 aveva sospeso unilateralmente ogni attività produttiva e che il lavoratore aveva ottenuto in sede fallimentare l'ammissione al passivo dei crediti per le relative retribuzioni e per il t.f.r. maturato alla data del fallimento, nonché dall'INPS il pagamento delle integrazioni salariali ordinarie e, ai sensi del decreto legislativo n. 80 del 1992, del t.f.r. e delle ultime tre retribuzioni, si deduce che il
rapporto lavorativo era senz'altro continuato sino a tutto il 20 settembre 1994 e si sostiene che, pertanto, gli assegni erano dovuti sino alla medesima data, a prescindere dalla involontaria mancanza della prestazione, in quanto l'art. 59 cit. richiede la continuità del rapporto intesa come diritto alla retribuzione anche in assenza di prestazione;
il che, peraltro, secondo il ricorrente, sarebbe anche riconosciuto esplicitamente nelle specifiche determinazioni del Consiglio di amministrazione dell'INPS, aventi efficacia vincolante per gli organi periferici dell'Istituto.
n secondo motivo denuncia omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Si lamenta che il giudice di appello, nel ritenere imprescindibile la prestazione di attività lavorativa ai fini della erogazione degli assegni, abbia trascurato di considerare che ciò determinerebbe una ingiustificata discriminazione in danno dei lavoratori che, non potendo svolgere la prestazione per cause indipendenti dalla loro volontà, si vedrebbero privati degli assegni, diversamente da quanto è normativamente previsto per altre situazioni analoghe.
2.- Tali motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.
2.1.- L'assegno per il nucleo familiare, del quale il ricorrente chiede il pagamento per il periodo febbraio-settembre 1994, trova la sua disciplina nell'art. 2 della legge 13 maggio 1988 n. 153 (di conversione, con modificazioni, del decreto legge 13 marzo 1988 n. 69), che ha provveduto al definitivo riordino della materia dopo
alcuni limitati interventi di riforma (v. art. 5, 6, 7 d.l. n. 17 del 1983, convertito in l. n. 79 del 1983;
art. 20 l. n. 730 del 1983;

art. 231. n. 41 del 1986).
In base a tale nuova disciplina, che si innesta nella disciplina generale degli assegni familiari contenuta nel d.P.R. 30 maggio 1955 n. 797 (testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari), e
successive modificazioni e integrazioni (v. l. n. 1038 del 1961;
l. n. 36 del 1967;
d.l. n. 30 del 1974, convertito in l. n. 114 del 1974;
l. n. 161 del 1975), l'assegno per il nucleo familiare
sostituisce, per il settore privato, gli assegni familiari per i lavoratori in attività e le quote di maggiorazione per i pensionati, nonché ogni altro trattamento di famiglia comunque denominato (permanendo la prestazione denominata "assegni familiari" con riferimento a limitate e specifiche categorie di lavoratori autonomi, cui gli assegni sono stati estesi con particolari disposizioni di legge), e, per il settore pubblico, le quote di aggiunta di famiglia previste per i dipendenti di tale settore.
Il tratto caratterizzante della nuova prestazione è che essa compete in misura differenziata a seconda del numero dei componenti e del reddito complessivo del nucleo familiare, sicché è proprio quest'ultimo, globalmente considerato, ad esserne beneficiario sulla base di un apprezzamento concreto del bisogno economico rapportato al livello reddituale complessivo.
Riguardo agli aspetti non disciplinati direttamente, restano in vigore le norme contenute nel citato t.u. sugli assegni familiari approvato con d.P.R. n. 797 del 1955, secondo quanto dispone il terzo comma dell'art. 2 della legge n. 153 del 1988;
pertanto, con
riferimento ai presupposti oggettivi e alle modalità di erogazione della prestazione, che interessano nella controversia in esame, trovano applicazione - del predetto testo unico - gli art. 1 (tranne per la parte in cui si indicano come beneficiari i "capifamiglia", che risulta incompatibile con l'attuale destinazione degli assegni all'intero nucleo familiare), 12 e 59 (come sostituito dall'art. 15 della citata legge n. 1038 del 1961). In particolare, della prima di
tali norme assume rilievo la generale enunciazione, contenuta nel primo comma, secondo cui gli assegni spettano a coloro che "prestino lavoro retribuito alle dipendenze di altri";
dell'art. 12 rileva che gli assegni "sono dovuti qualunque sia il numero delle giornate prestate nei periodi fissati per la corresponsione", mentre dell'art. 59, infine, rileva la dettagliata disciplina dettata per l'erogazione della prestazione, secondo cui "entro ciascun periodo di pagamento della retribuzione gli assegni base corrispondenti spettano per intero, qualunque sia il numero di giornate di lavoro prestate, qualora permanga la continuità del rapporto di lavoro ed il lavoratore abbia compiuto nel mese almeno 104 ore lavorative se operaio e 130 se impiegato" (primo comma) e "qualora la durata del lavoro compiuto nel mese risulti inferiore ai limiti suddetti, spettano tanti assegni giornalieri quante sono le giornate di lavoro effettivamente prestate" (secondo comma).
Come si evince dal tenore letterale di tali disposizioni, la corresponsione degli assegni presuppone lo svolgimento effettivo della prestazione, dato che la misura di essi varia a seconda del lavoro effettivamente prestato, con la conseguenza che, come ad una misura minima (ma necessaria) della prestazione nel periodo di paga corrisponde il pagamento degli assegni nella misura intera e ad una misura inferiore (ma ugualmente necessaria) a quella minima corrisponde il pagamento di un singolo assegno per ogni giornata di lavoro, così alla assoluta carenza di prestazione (e cioè ad una "misura zero" di essa) non può che corrispondere l'assenza di alcun assegno.
Il collegamento con la prestazione effettiva è confermato, poi, dalla previsione normativa (nello stesso t.u. e in altre specifiche disposizioni) di situazioni nelle quali il mancato svolgimento dell'attività di lavoro è equiparata alla prestazione effettiva. In relazione a tali situazioni, infatti, è evidente la eccezionalità di disciplina rispetto alla regola generale, atteso che la previsione sarebbe superflua ove si configurasse un collegamento esclusivo fra il diritto all'assegno e la retribuzione, sì da far ritenere la corresponsione dell'assegno in carenza di prestazione effettiva, ma in presenza di retribuzione, come un'ipotesi normale all'interno del suddetto collegamento esclusivo. Di tale eccezionalità, poi, si trovano espliciti riscontri nella stessa formulazione normativa relativa ad ipotesi derogative della disciplina ordinaria: è significativo, sotto tale profilo, che "in caso di assenza dal lavoro per malattia, gli assegni sono dovuti per tutto il periodo in cui è corrisposto per legge o per contratto collettivo il sussidio di malattia o la retribuzione" (art. 16, primo comma, del t.u.) e che i permessi e le aspettative previste dagli art. 23, 31 e 32 dello Statuto dei lavoratori "sono considerati come periodi di effettivo lavoro ai fini dell'applicazione delle norme sugli assegni familiari" (art. 16 ter del cit. d.l. n. 30 del 1974, aggiunto dalla legge di conversione n. 114 del 1974). E il carattere eccezionale di siffatte previsioni è stato già rilevato, del resto, da questa Corte, che, proprio con riguardo all'ipotesi dell'assenza per malattia, ha sottolineato la specialità della relativa disposizione, da cui consegue che il requisito della effettuazione di un determinato numero minimo di ore lavorate deve invece ritenersi riferito, in via generale e salvo specifiche eccezioni normativamente contemplate, ad ogni altea ipotesi di mancato espletamento della prestazione lavorativa (v. Cass. 20 gennaio 1987 n. 483). 2.2.- La necessità di tale presupposto discende altresì da considerazioni sistematiche.
L'istituto degli assegni familiari, benché sorto, in ambito contrattuale, come istituto retributivo inteso alla integrazione del salario degli operai dell'industria a compensazione della riduzione dell'orario di lavoro (v. l'accordo interconfederale 11 ottobre 1934, poi recepito nel r.d.l. n. 1632 del 1936, che era stato preceduto dal contratto collettivo del 1933 per i lanieri del Biellese e da altri accordi sindacali riconducibili alla crisi post-bellica), ha subito graduali trasformazioni, nel contesto di un processo evolutivo sfociato nella riconduzione di singoli istituti contrattuali (aventi specifici scopi di tutela per determinate categorie di lavoratori) nel sistema generale della sicurezza sociale, ed ha infine assunto una funzione eminentemente previdenziale, che è stata assolta dapprima (nel menzionato testo unico del 1955) mediante una tutela apprestata in favore del lavoratore in ragione dei suoi carichi di famiglia (sulla falsariga delle aggiunte di famiglia previste per i dipendenti pubblici: v. legge n. 1047 del 1929 per i dipendenti statali, legge n. 1161 del 1942 per i dipendenti degli enti locali), estesa gradualmente a vari settori del lavoro privato ed ai pensionati (v. i provvedimenti di riforma anteriori al 1988 sopra indicati), e quindi (v. art. 2 della legge n. 153 del 1988) mediante una tutela specifica per il nucleo familiare, diretta, in attuazione dell'art. 31 Costituzione, a garantire un sufficiente reddito alle famiglie che ne siano complessivamente sprovviste. In tale funzione, in coerenza con i criteri generali del sistema della sicurezza sociale nel quale l'assegno in questione dunque s'inserisce, mentre la tutela per le famiglie dei pensionati si realizza mediante l'integrazione della pensione (ex art. 38, secondo comma, Cost.), quella per le famiglie dei lavoratori in servizio trova attuazione con un'integrazione della retribuzione rapportata al lavoro prestato (ex art. 36 Cost.), non potendosi, neanche indirettamente, considerare più vantaggioso per i soggetti in attività il godimento della prestazione previdenziale rispetto allo svolgimento di un lavoro (cfr. Cass. 12 novembre 2003 n. 17048). 2.3.- Mette conto rilevare, peraltro, che la tesi della qualificazione dell'assegno in questione come parte integrante e inscindibile della sola retribuzione, quantunque sia ulteriormente smentita dal fatto che l'assegno non può essere considerato ai fini del calcolo dei minimi retributivi previsti dai contratti collettivi e del trattamento di fine rapporto (art. 25 del t.u.), ne' concorre a formare la base imponibile dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (art. 2, comma 11, della legge n. 153 del 1988), non determinerebbe in alcun caso l'effetto, voluto dal ricorrente, di un'automatica corresponsione dell'assegno.
La retribuzione, infatti, è comunque collegata alla prestazione effettiva del lavoro, non soltanto ai fini della sua commisurazione (ai sensi dell'art. 36 Costituzione), ma anche per la stessa configurazione del relativo diritto, il quale non sorge ex se in ragione della esistenza e del protrarsi del rapporto, ma presuppone - per la natura sinallagmatica del contratto di lavoro - la corrispettività delle prestazioni. Tale principio si è ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, dacché, con riferimento agli intervalli non lavorati intercorsi tra più contratti a termine, si è escluso che la conversione ex lege in un unico contratto a tempo indeterminato comporti il diritto a retribuzione per l'intero periodo, compresi i predetti intervalli in cui non vi è stata prestazione di lavoro (cfr. Cass. Sez. Un. 5 marzo 1991 n. 2334;
Cass. 21 dicembre 1998 n. 12752;
Cass. 8 dicembre 2002 n. 14381;
cfr., altresì, con riferimento agli intervalli non lavorati nei rapporti a tempo parziale, Cass. Sez. Un. 6 febbraio 2003 n. 1732). In tali casi, la Corte ha avuto modo di rilevare che solo nell'ipotesi del licenziamento illegittimo e delle relative conseguenze il legislatore ha inteso attribuire diritti retributivi al lavoratore malgrado la non avvenuta prestazione lavorativa, prevedendo analiticamente il risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione (in tali termini, cfr Cass. Sez. Un. n. 2334 del 1991, nonché Id. 27 luglio 1999 n. 508, con riferimento alle diverse conseguenze risarcitone nel regime di tutela reale e in quello di tutela obbligatoria), e ciò in ragione del fatto che nel caso di licenziamento illegittimo l'equiparazione della mera utilizzabilità delle energie lavorative del prestatore alla loro effettiva utilizzazione (cfr. Cass. 23 ottobre 2000 n. 13953) consegue, oltre che alla ricostituzione del rapporto e al ripristino della lex contractus, all'accertamento giudiziale dell'illegittimità del comportamento datoriale, e cioè dell'imputabilità al datore di lavoro della mancata prestazione lavorativa (e ciò vale a spiegare, peraltro, il fatto che il risarcimento debba essere ridotto nella misura di quanto percepito per la prestazione lavorativa svolta nel periodo considerato presso altri datori di lavoro - aliunde perceptum - e non, invece, per quanto percepito a titolo diverso, per esempio a titolo di trattamento pensionistico: cfr. Cass. Sez. Un. 13 agosto 2002 n. 12194). Sulla base di queste considerazioni, è evidente che nella vicenda del lavoratore ricorrente il diritto alla retribuzione deve ritenersi escluso in relazione ai mesi nei quali - come accertato dalla Corte territoriale e come riferito dallo stesso ricorrente - non vi fu alcuna prestazione da parte del lavoratore, pur se il rapporto ebbe a protrarsi formalmente sino alla data del fallimento (circostanza, quest'ultima, che - contrariamente a quanto dedotto in ricorso - è stata anch'essa accertata nella sentenza d'appello: v. pag. 3), laddove, similmente all'ipotesi dei periodi non lavorati dei contratti a termine, l'obbligo retributivo, che non può discendere dalla mera sussistenza del rapporto, non consegue peraltro all'applicazione delle regole generali in materia di risarcimento da inadempimento contrattuale. Non rileva, al riguardo, che il lavoratore avesse ottenuto l'ammissione al passivo fallimentare dei crediti retributivi relativi al periodo in contestazione e il pagamento da parte dell'INPS delle ultime tre retribuzioni e del t.f.r., poiché il provvedimento giudiziale intervenuto fra la curatela e il lavoratore in relazione ai predetti crediti è vincolante solo ai fini dell'accollo che grava ex lege sull'Istituto (come Fondo di garanzia), ai sensi del decreto legislativo n. 80 del 1992, ma non spiega efficacia nel presente giudizio che verte su un
diverso oggetto e in cui l'INPS è evocato non come accollante del debito retributivo dell'imprenditore insolvente, bensì come soggetto direttamente obbligato alla prestazione previdenziale. Non può ritenersi, d'altra parte, che il diritto alla retribuzione derivasse da un persistente obbligo del lavoratore di tenersi a disposizione, oppure da un rifiuto datoriale di ricevere la prestazione, dato che le modalità di cessazione dell'attività aziendale - così come accertate nella sentenza impugnata (ove la revoca della cassa integrazione viene ricondotta all'oggettiva circostanza della acciaiata definitività della cessazione del lavoro) - rivelano, in più che una sospensione unilaterale del rapporto idonea a fondare l'obbligo retribuivo dell'imprenditore (cfr. Cass. 19 dicembre 1998 n. 12735), una situazione di consolidata e protratta crisi aziendale, ancorata anche al ricorso alla cassa integrazione e alla successiva revoca di questa (alle quali circostanze pare riconnettersi il pur generico riferimento del ricorrente all'avvenuta corresponsione di "integrazioni salariali ordinarie"), la quale situazione porta ad escludere l'eventualità di un persistente sinallagma funzionale del contratto e a configurare, piuttosto, un definitivo svuotamento dei contenuti sostanziali del rapporto.
Consegue da tutto ciò che, in ogni caso, alla carenza di prestazione lavorativa non può conseguire la corresponsione degli assegni in questione, sia perché questi presuppongono lo svolgimento di una pur minima attività di lavoro, sia perché, comunque, nella predetta ipotesi di carenza di prestazione lavorativa non si configura un diritto alla retribuzione.
2.4.- Resta da valutare, infine, se il diritto agli assegni possa derivare da un riconoscimento dello stesso Istituto previdenziale, così come preteso dal ricorrente.
Tale eventualità deve escludersi, nessun rilievo potendo assumere, a tali fini, le circolari dell'INPS richiamate in ricorso, le quali non solo non possono derogare alle disposizioni di legge, ma neanche possono influire nell'interpretazione delle medesime disposizioni;
e ciò anche se si tratti di atti provenienti dal Consiglio di amministrazione dell'Istituto e del tipo c.d. normativo, che restano comunque atti di rilevanza interna all'organizzazione dell'ente. Inoltre, anche a prescindere datale assorbente rilievo, va osservato che il riconoscimento del diritto agli assegni, contenuto in particolare nelle circolari trascritte in ricorso, in un caso presuppone il recepimento di una "evoluzione normativa e giurisprudenziale" evidentemente superata, alla stregua del contesto sopra descritto, e nell'altro si riferisce a situazioni aziendali diverse da quelle qui in esame, nelle quali - come puntualmente rilevato dai giudici d'appello - la carenza di attività produttiva si presenta come provvisoria, sì da potersi presumere una pronta ripresa della stessa prestazione lavorativa (mentre nel caso di specie si tratta, come s'è visto, di cessazione definitiva dell'attività), e presuppone comunque la prestazione di un minimo di ore di attività lavorativa.
2.5.- L'esclusione del diritto agli assegni in tale situazione di carenza di prestazione lavorativa (la quale, per quanto considerato sub 2.3., non è assimilabile alle ipotesi di illegittima interruzione o di unilaterale sospensione del rapporto), non suscita dubbi di illegittimità costituzionale, in relazione all'art. 3 Cost., con riguardo alla diversità di trattamento rispetto ad altre
situazioni, in cui tale diritto è invece riconosciuto. È agevole rilevare che in queste ultime la scelta del legislatore - di un'equiparazione alla prestazione effettiva - si fonda su presupposti oggettivi che non sono assimilabili alla mera cessazione dell'attività aziendale, che ricorre nella specie. Ciò vale, anzitutto, in relazione all'integrazione salariale (art. 61. n. 1115 del 1968) e alla mobilità (art. 7, comma 10, l. n. 223 del 1991), poiché in tali casi la predetta equiparazione s'inserisce, in settori produttivi interessanti un numero rilevante di lavoratori, nel contesto di un programma di risanamento della funzionalità aziendale soggetto all'approvazione e al controllo della pubblica amministrazione e risponde alla peculiare finalità di sostenere, temporaneamente, lavoratori per i quali dopo un periodo di sospensione o di contrazione dell'attività si prospetta la piena ripresa del lavoro o che a seguito della definitiva eccedenza rispetto al piano di riorganizzazione dell'attività produttiva siano in attesa di diverse opportunità occupazionali ovvero del pensionamento. In altre situazioni, poi, siffatta equiparazione è riconducibile alla tutela di beni costituzionalmente garantiti, o in dipendenza di eventi che comportano ex lege l'inattività lavorativa (infortunio, malattia, maternità) o in relazione all'esigenza di ripristino delle energie lavorative e di godimento della vita familiare e sociale (ferie, riposi) o, infine, in conseguenza dell'esercizio di diritti politici e sindacali (permessi e aspettative per ricoprire cariche sindacali o cariche pubbliche elettive) e dell'assolvimento di doveri civici (richiamo alle armi). Trattandosi, com'è evidente, di situazioni particolari che giustificano una diversità di disciplina, non può configurarsi alcuna discriminazione rispetto ad altri lavoratori, fra cui il ricorrente, per i quali non sono riscontrabili le medesime esigenze di tutela.
3.- Deriva da tutto ciò che il ricorso va rigettato.
Non deve provvedersi sulle spese del giudizio, in difetto di alcuna attività difensiva da parte dell'Istituto intimato (che si è limitato al deposito di procura: cfr. Cass. 4 febbraio 1994 n. 1153;

16 maggio 1994 n. 4780;
4 novembre 1995 n. 11499).

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