Cass. civ., sez. V trib., sentenza 01/03/2019, n. 6117
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In tema di imposte sui redditi, il trattamento di fine rapporto relativo ad annualità di retribuzione corrisposte per lavoro prestato all'estero è escluso dalla base imponibile ex art. 3, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 917 del 1986, trattandosi di retribuzione differita che matura anno per anno in relazione al lavoro prestato ed all'ammontare degli emolumenti corrisposti, essendo a tal fine irrilevante la circostanza che il contribuente abbia la residenza in Italia. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non conforme al principio enunciato la circolare del Ministero delle Finanze n. 95 del 18 ottobre 1997 che, posta a fondamento della sentenza impugnata, aveva considerato la norma indicata inapplicabile all'indennità di fine rapporto percepita dal lavoratore per prestazioni svolte all'estero per conto di una società italiana ivi operante).
In tema di imposte sui redditi, il trattamento di fine rapporto relativo ad annualità di retribuzione corrisposte per lavoro prestato all'estero è escluso dalla base imponibile ex art. 3, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 917 del 1986, trattandosi di retribuzione differita che matura anno per anno in relazione al lavoro prestato ed all'ammontare degli emolumenti corrisposti, essendo a tal fine irrilevante la circostanza che il contribuente abbia la residenza in Italia. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non conforme al principio enunciato la circolare del Ministero delle Finanze n. 95 del 18 ottobre 1997 che, posta a fondamento della sentenza impugnata, aveva considerato la norma indicata inapplicabile all'indennità di fine rapporto percepita dal lavoratore per prestazioni svolte all'estero per conto di una società italiana ivi operante).
Massima tratta dal CED della Cassazione
Sul provvedimento
Testo completo
Z.R. proponeva appello avverso la sentenza della Commissione Tributaria provinciale di Roma con la quale erano stati rigettati i tre ricorsi riuniti con i quali lo stesso contribuente aveva separatamente impugnato tre avvisi di accertamento ai fini Irpef, relativi agli anni d'imposta 1997, 1998 e 1999, con cui l'Agenzia delle Entrate aveva ritenuto imponibili i redditi percepiti dal contribuente all'estero.
I giudici di primo grado, riconoscendo che lo Z. negli anni in contestazione era fiscalmente residente in Italia, dove risiedeva la sua famiglia e dove condivideva la proprietà di un appartamento con la moglie, avevano disatteso la tesi difensiva del contribuente il quale aveva sostenuto che dovesse trovare applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 3, commi 1 e 3, lett. c), - disposizione normativa rimasta in vigore fino al 31/12/2000 in forza della L. n 16 del 1998, art. 38, - che escludeva dall'imposizione i redditi derivanti da lavoro dipendente prestato all'estero.
La Commissione regionale rigettava l'appello, osservando che al contribuente risultava contestato il mancato assoggettamento ad imposizione del T.F.R. percepito nell'anno 1997 per il lavoro svolto in favore della società I. s.p.a. e che, come indicato nella circolare n. 95 del 18/10/1977, non era prevista alcuna esclusione dalla tassazione per l'indennità di fine rapporto, anche se percepita per lavori prestati nei confronti di società italiane operanti all'estero.
Relativamente ai compensi percepiti negli anni 1998 e 1999, riteneva non applicabile l'esenzione prevista dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 3, comma 3, lett. c), prevista per i redditi da lavoro dipendente e non estensibile, in mancanza di espressa previsione normativa, ai redditi derivanti da prestazioni qualificabili come collaborazione coordinata e continuativa, in quanto carenti del vincolo di subordinazione, avendo peraltro lo stesso Z. dichiarato che il lavoro svolto nel 1998 non era qualificabile come lavoro dipendente, tanto che veniva di volta in volta stipulato un contratto di collaborazione esterna.
Con riguardo, poi, alla residenza fiscale, affermava che dalle indagini svolte dalla Guardia di Finanza era emerso che il centro degli affari e degli interessi del contribuente era sempre stato in Italia, considerato che la sua famiglia non si era mai trasferita, che le utenze risultavano a lui intestate, che i compensi percepiti risultavano accreditati su conti correnti italiani e che lo stesso contribuente, durante la verifica fiscale, aveva dichiarato di non avere mai pagato alcuna imposta sul reddito nei paesi in cui aveva svolto l'attività lavorativa ed in quelli in cui avevano sede le società con le quali aveva intrattenuto rapporti di lavoro, nè aveva mai presentato dichiarazioni dei redditi.
Ricorre per la cassazione della suddetta sentenza Z.R., con sei motivi, cui resiste l'Agenzia delle Entrate mediante controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso (erroneamente indicato in ricorso con il numero 2), deducendo violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2, ed all'art. 43 c.c., il ricorrente lamenta che l'Amministrazione finanziaria ha fondato la pretesa fiscale sul presupposto che, nonostante egli fosse anagraficamente residente all'estero e iscritto all'A.I.R.E., dovesse essere considerato fiscalmente residente in Italia e che i giudici della Commissione regionale, confermando detto assunto, hanno interpretato in modo riduttivo il concetto di residenza fiscale e quello di domicilio, facendo riferimento ad elementi meramente fattuali, senza tenere conto della sussistenza dell'elemento soggettivo, desumibile da fatti e atti concludenti.
Ad avviso del ricorrente, i giudici di secondo grado hanno ignorato che egli aveva sempre manifestato la volontà di risiedere all'estero e che la mancanza di una "stabile dimora" in Italia dipendeva dal fatto che i suoi legami familiari si erano via via allentati, proprio per effetto della attività che egli svolgeva e che lo costringeva a spostarsi in Paesi molto lontani, sicchè una corretta applicazione delle norme di diritto civile, alle quali facevano riferimento le norme fiscali per individuare le nozioni di residenza fiscale e di domicilio civile ai fini dell'assoggettamento ad imposizione in Italia dei redditi di lavoro prodotti all'estero, avrebbe condotto a conclusioni diverse.
Formula, quindi, il seguente quesito di diritto: "nel presupposto che un soggetto cittadino italiano residente all'estero, ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 43 c.c. e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2, può essere considerato fiscalmente residente in Italia se ivi conservi il suo domicilio civilisticamente inteso, per il cui riconoscimento è tuttavia necessario un duplice accertamento che riguarda non solo il fatto oggettivo della sua permanenza ma anche l'elemento soggettivo che implica la sussistenza di una volontà dell'interessato espressamente rivolta a mantenere in Italia il centro dei propri affari ed interessi morali, sociali ed economici, dica la Corte che la sentenza con la quale sia stata riconosciuta la residenza fiscale in Italia di un soggetto per averlo ritenuto civilisticamente domiciliato in Italia solo sulla base di elementi di fatto e senza alcuna indagine sull'elemento psicologico volto ad individuare una sua volontà in tal senso manifestata è da ritenere illegittima per violazione del combinato disposto di cui ai predetti art. 43 c.c. e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2, per non avere indagato sull'elemento psicologico dell'interessato e non essersi pronunciata sulla provata mancanza della sua volontà a stabilire in Italia il proprio domicilio civilisticamente inteso quale centro dei propri affari e dei propri interessi perchè risultante stabilmente e volontariamente trasferito all'estero".
2. Con il secondo motivo (erroneamente indicato in ricorso con il n. 3), il ricorrente censura la sentenza per carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e lamenta che i giudici di secondo grado, con una sintetica motivazione fondata su elementi di fatto, hanno statuito che egli è residente in Italia, senza prendere in considerazione l'elemento psicologico e le prove fornite volte a dimostrare la intenzione chiaramente manifestata di voler stabilire all'estero il centro dei suoi affari e dei suoi interessi morali, sociali ed economici.
3. Rilevato, preliminarmente, che l'art. 366-bis c.p.c., non è applicabile nella fattispecie ratione temporis, trattandosi di disposizione abrogata dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, che si applica alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge, il primo ed il secondo motivo, riguardanti l'accertamento della residenza fiscale, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati, non sussistendo nè la violazione di legge nè il vizio di motivazione.
3.1. In tema di imposte sui redditi, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, comma 2, individua, perchè sussista la residenza fiscale nello Stato, tre presupposti, indicati in via alternativa: il primo, formale, rappresentato dall'iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, gli altri due, di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del c.c.;
ne consegue che l'iscrizione del cittadino nell'anagrafe dei residenti all'estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorchè il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonchè delle proprie relazioni personali (Cass. n. 13803 del 7/11/2001;
Cass. n. 10179 del 26/6/2003;
Cass. n. 14434 del 15/6/2010;
Cass. 24246 del 18/11/2011;
n. 29576 del 29/12/2011;
n. 678 del 16/1/2015).
3.2. L'interpretazione appena richiamata del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, risulta in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui " ai fini della determinazione del luogo della residenza normale, devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell'interessato in un luogo determinato, sia la loro durata, e, qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, della Dir. 83/182/CEE, art. 7, n. 1, comma 2, riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali. Nell'ambito della valutazione dei legami personali e professionali dell'interessato, tutti gli elementi di fatto rilevanti devono essere presi in considerazione, vale a dire,