Cass. civ., sez. I, sentenza 28/05/2003, n. 8553

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Quando l'imprenditore si avvale per la propria attività di un apparato organizzato di mezzi e di personale, anche gli ausiliari subordinati (commessi), cui sono affidate mansioni esecutive che li pongono a contatto con i terzi, hanno un (limitato) potere di rappresentanza, pure in mancanza di specifico atto di conferimento e possono compiere, ai sensi dell'art. 2210, primo comma, cod. civ., gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di cui sono incaricati, salve le limitazioni contenute nell'atto di conferimento della rappresentanza. Ne consegue che, in ipotesi di contratto di fideiussione sottoscritto dal cliente di una banca su apposito modulo e dinanzi ad un impiegato dell'istituto di credito, lo stato soggettivo di cui all'art. 1391 cod. civ., che rileva ai fini della conoscibilità dell'errore, va verificato con riguardo all'impiegato che tratta la pratica e non con riferimento al legale rappresentante della banca.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., sez. I, sentenza 28/05/2003, n. 8553
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 8553
Data del deposito : 28 maggio 2003
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. G A - Presidente -
Dott. C A - rel. Consigliere -
Dott. P U R - Consigliere -
Dott. M M R - Consigliere -
Dott. R R - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

S
sul ricorso proposto da:
ENRIONE PATRIZIA, elettivamente domiciliata in

ROMA VIA LAZIO

20/C, presso l'avvocato C C, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato G B, giusta mandato in calce al ricorso;



- ricorrente -


contro
C R T S, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PIER LUIGI DA PALESTRINA

63, presso l'avvocato M C, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati P E F, G M F, giusta mandato a margine del controricorso;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 1358/98 della Corte d'Appello di TORINO, depositata il 28/12/98;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2003 dal Consigliere Dott. A C;

udito per il ricorrente l'Avvocato C, del quale si da atto ai soli fini della presenza poiché è arrivato in ritardo e precisamente dopo l'intervento del difensore del controricorrente;

udito per il resistente l'Avvocato C G per delega dell'Avvocato Contaldi Mario che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marco PIVETTI che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Presidente del Tribunale di Ivrea, con decreto ingiuntivo emesso su ricorso della Cassa di Risparmio di Torino s.p.a. e notificato il 17 gennaio 1991, intimò a Patrizia E di pagare al detto istituto bancario la somma di L. 165.542.903 (oltre accessori), in quanto l'intimata era fideiussore della madre Adua M, a sua volta fideiussore di Mover S.n.c., quest'ultima debitrice principale in forza di linee di credito revocate.
La E propose opposizione, sostenendo di avere rilasciato fideiussione per la madre unicamente a garanzia di un prestito personale (personalfido) di 20 milioni, erogato alla M dalla banca ed ormai rimborsato. L'opponente affermò di avere in tal senso manifestato ed inteso manifestare alla Cassa di Risparmio di Torino (d'ora in avanti, C.R.T.) la propria volontà negoziale, con esclusione di altri debiti contratti dalla madre.
La banca si costituì adducendo che la E si era vincolata con fideiussione "omnibus", a garanzia di ogni debito che la M avesse verso la C.R.T., compresi quelli derivanti da fideiussioni da lei a sua volta prestate.
Il Tribunale d'Ivrea, con sentenza del 19 settembre 1997, ritenne anzitutto che la fideiussione fosse nulla per indeterminatezza dei soggetti a favore dei quali l'impegno fideiussorio era previsto. Aggiunse che, come si desumeva anche da prove testimoniali assunte, la E aveva inteso prestare fideiussione a favore della madre unicamente a garanzia del personalfido da quest'ultima ottenuto, in concomitanza col quale la fideiussione era stata rilasciata. La C.R.T. propose appello, lamentando in primo luogo l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto l'invalidità della fideiussione per indeterminatezza dei soggetti indirettamente garantiti. Richiamò il contenuto del contratto di fideiussione, sostenendo che il Tribunale, in violazione del divieto posto dall'art. 2722 c.c., aveva utilizzato deposizioni testimoniali per desumere, in contrasto con la pattuizione letterale scritta, che la fideiussione era limitata alla sola garanzia per il personalfido di 20 milioni. Con riferimento al prospettato errore ostativo della E, asseritamente convinta di aver sottoscritto un impegno fideiussorio limitato alla specifica obbligazione suddetta, l'appellante rilevò che non vi era prova concludente, neppure alla stregua delle deposizioni testimoniali assunte, che il preteso errore fosse stato essenziale e riconoscibile.
La E si costituì, ribadendo di avere inteso prestare fideiussione unicamente per il prestito di 20 milioni erogato dalla banca alla M, e sottolineando come tale circostanza, concretante un errore causa d'invalidità del contratto, rendesse superflua la questione sulla validità della fideiussione "omnibus". A quest'ultimo riguardo l'appellata sostenne che, comunque, non ricorreva una fideiussione per debiti futuri, in quanto al momento del rilascio di essa gli impegni della M verso la banca, derivanti da fideiussioni in favore di Mover s.n.c., già sussistevano.
La Corte di appello di Torino, con sentenza depositata il 28 dicembre 1998, in riforma della sentenza appellata rigettò l'opposizione proposta dalla E avverso il citato decreto ingiuntivo e compensò tra le parti le spese giudiziali di entrambi i gradi.
La Corte territoriale - premesso che la fideiussione era stata rilasciata il 7 novembre 1988 e quindi sotto il vigore del testo precedente dell'art. 1938 c.c., la cui modifica (effettuata con l'art. 10 della legge n. 154 del 1992) non aveva efficacia retroattiva - osservò che, con riferimento alla situazione anteriore a tale modifica, il principio secondo cui la fideiussione "omnibus" era valida risultava consolidato. Peraltro, nel caso di specie, al momento del rilascio della fideiussione de qua l'impegno della M a garanzia dei debiti della società Mover già esisteva, sicché non si poteva neppure ipotizzare che l'assunzione di un impegno fideiussorio, diretto a garantire anche quei debiti, fosse stato contrario a buona fede in quanto idoneo a sorprendere le aspettative e le previsioni del contraente. Infatti, la determinazione per relationem dell'oggetto della fideiussione era rivolta, nella fattispecie, ad obbligazioni già in essere e note al fideiussore e, dunque, poteva consentire - ancor più di una fideiussione per obbligazioni soltanto future - un'adeguata ponderazione del contraente in ordine ai propri interessi. Pertanto la Corte di merito accolse il primo motivo dell'appello, finalizzato a contestare la ritenuta nullità della fideiussione. La Corte ritenne, poi, che anche le censure, relative all'assenza d'intento negoziale, da parte della E, nel prestare fideiussione illimitata, fossero fondate.
Quanto all'affermata inesistenza di un accordo negoziale sulla clausola "omnibus", osservò che l'esistenza di un impegno fideiussorio della E verso la C.R.T., a garanzia anche dei debiti a sua volta assunti a titolo di fideiussione dal debitore garantito, risultava in modo univoco dal testo della scrittura in data 7 novembre 1988, in atti. Rilevò che la banca giustamente censurava la sentenza impugnata per aver tratto argomenti contro la clausola scritta da deposizioni testimoniali inammissibili, e perciò non utilizzabili, ai sensi dell'art. 2722 cod. civile. Era vero che il divieto, essendo posto nell'interesse della parte, andava eccepito e non poteva esser fatto valere dopo l'assunzione della prova. Ma nel caso in esame la prova era stata ammessa ed assunta non per contrastare con testimoni il tenore di un patto scritto contestuale, bensì a sostegno di un addotto stato soggettivo di errore del contraente. Soltanto dopo l'assunzione del mezzo istruttorio la prova era stata utilizzata nella sentenza di primo grado per ritenere, in contrasto col tenore scritto del documento bancario, l'inesistenza di una volontà negoziale sulla clausola "omnibus".
In ordine all'asserita invalidità della fideiussione a causa dell'errore ostativo in cui la E sarebbe incorsa, la doglianza della banca - volta a contestare la riconoscibilità del (presunto) errore nonché l'inesistenza di prove sul punto - risultava del pari fondata.
Al riguardo la Corte territoriale ritenne che gli elementi in atti non consentissero di opinare che la banca, in persona del funzionario legale rappresentante, fosse stata consapevole, o comunque avesse il dovere di esserlo alla stregua della diligenza media, del fatto che la E non intendeva configurare come "omnibus" la fideiussione da lei rilasciata. Si doveva riconoscere che il comportamento dell'impiegato addetto a ricevere la fideiussione non era stato improntato a trasparenza;
e si poteva, al limite, ipotizzare che le circostanze in cui il rilascio della fideiussione era avvenuto fossero state tali da ingenerare l'asserito errore della E e da renderlo percepibile, alla stregua dei criteri di normale avvedutezza, da parte del dirigente bancario che fece firmare il modulo. Non era provato, però, che il detto impiegato avesse poteri di rappresentanza dell'istituto. La condizione soggettiva di mala fede o di riconoscibilità dell'errore, dunque, non doveva essere apprezzata con riferimento a quanto percepito da tale soggetto, bensì sulla base di quanto conoscibile dal legale rappresentante della banca che provvide in un secondo tempo a perfezionare, per conto di essa, il contratto fideiussorio, con l'accettazione della proposta negoziale consacrata nel modulo sottoscritto dalla E.
Nulla provava che tale organo, dotato di legale rappresentanza, si fosse trovato nelle condizioni di cui all'art. 1431 c.c., cioè in presenza di circostanze idonee a far rilevare l'errore a persone di normale diligenza. Contro tale pronunzia Patrizia E ha proposto ricorso per Cassazione, affidato ad unico articolato motivo, illustrato con memoria.
La C.R.T. s.p.a. ha resistito con controricorso e, a sua volta, ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico mezzo di cassazione la ricorrente adduce "violazione dell'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. in relazione agli artt. 1428-1431- 1391 c.c. - insufficiente, contraddittoria motivazione su punto essenziale della sentenza - vizio di ultrapetizione - extrapetizione - violazione dell'art. 360 n. 3 e 5 in relazione all'art. 2697 c.c.". Richiamato il contenuto della sentenza impugnata (nella parte relativa all'errore in cui la ricorrente medesima sarebbe incorsa), ella sostiene che le affermazioni relative all'organo dotato della normale rappresentanza della banca sarebbero contrarie al principio dettato dall'art. 1391 c.c. ed affermato anche da questa Corte, secondo cui nei negozi giuridici conclusi da una persona giuridica, pubblica o privata, per valutare gli stati soggettivi rilevanti delle parti si dovrebbe fare riferimento alla persona fisica che ha posto in essere l'atto riferibile alla persona giuridica in virtù del nesso di rappresentanza organica, sicché i detti stati soggettivi potrebbero essere provati con i mezzi ordinari, comprese le presunzioni.
La sentenza impugnata avrebbe accertato, in linea di fatto, che le circostanze del rilascio della fideiussione erano state tali da ingenerare l'asserito errore della signora E e da rendere l'errore medesimo percepibile (alla stregua di criteri di normale avvedutezza) da parte del dipendente bancario che le fece firmare il modulo di fideiussione. Inoltre avrebbe accertato la sussistenza, in capo al detto dipendente bancario, dello stato soggettivo di riconoscibilità dell'errore in cui la ricorrente sarebbe incorsa. Per conseguenza, sarebbe viziata per non aver rilevato l'invalidità del negozio in base agli artt. 1427 e ss. c.c., non essendo sostenibile che la banca non s'identifichi, nei rapporti con i terzi, con i propri dipendenti cui è affidato il compito di trattare con i clienti e di "gestire" le pratiche.
Il capo della sentenza in questione, però, sarebbe censurabile anche sotto altri profili.
La Corte di merito, infatti, avrebbe rilevato il difetto di prova sul punto che l'impiegato avesse poteri di rappresentanza della banca, trascurando di considerare che la C.R.T. non aveva sollevato alcuna eccezione in proposito, ne' aveva addotto la carenza dei poteri rappresentativi in capo al proprio dipendente. L'argomento della Corte, quindi, da un lato sarebbe in contrasto col principio secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione soltanto i fatti allegati e provati dalle parti, dall'altro violerebbe i principi in tema di ripartizione dell'onere della prova. In sostanza, l'asserita carenza di poteri rappresentativi costituirebbe di fatto una mera ipotesi, formulata dalla Corte torinese e posta a fondamento della decisione, ancorché in difetto di qualsiasi eccezione, allegazione e prova da parte dell'istituto bancario.
Il ricorso è fondato, nei sensi in prosieguo indicati. La sentenza impugnata ha riconosciuto (il che implica un accertamento e non una mera ipotesi) che il comportamento dell'impiegato addetto a ricevere la fideiussione "non fu propriamente improntato a trasparenza", ed al riguardo ha riportato la deposizione del teste A (già dipendente della banca addetto alla pratica), il quale ha riferito che "era prassi sottoporre alla firma dei fideiussori i moduli contenenti la clausola 'omnibus' senza avvertire gli interessati delle conseguenze dell'impegno che andavano ad assumere", nonché la deposizione della teste M, la quale ha riferito "che il personale della banca lasciò intendere che la fideiussione serviva a garantire il finanziamento di 20 milioni" (v. sentenza, pag. 7). La Corte di merito non ha mosso alcuna critica a tali risultanze, limitandosi ad ipotizzare sulla loro base ("tanto premesso") che "le circostanze del rilascio della fideiussione siano state tali da ingenerare l'asserito errore nella signora E e da rendere il detto errore percepibile, alla stregua dei criteri di normale avvedutezza, da parte del dipendente bancario che le fece firmare il modulo di fideiussione". Essa, tuttavia, ha omesso di verificare tale ipotesi, ritenendo non provato che il detto impiegato avesse poteri di rappresentanza della banca, ed affermando che la condizione soggettiva di mala fede o di riconoscibilità dell'errore non doveva essere apprezzata con riferimento a quanto percepito da tale soggetto, bensì sulla base di quanto fosse conoscibile dal legale rappresentante della banca che, per conto di questa, provvide a perfezionare in un secondo tempo il contratto fideiussorio. Questo ragionamento è viziato sia in punto di diritto sia per insufficienza di motivazione.
In ordine al primo profilo, non è esatto che lo stato soggettivo idoneo a far ravvisare l'errore rilevante dovesse essere apprezzato "alla stregua di quanto conoscibile dal legale rappresentante della banca".
Quando l'imprenditore (nel caso in esame, si tratta di una società per azioni operante nel settore del credito) si avvale per la propria attività di un apparato organizzato di mezzi e di personale, anche gli ausiliari subordinati (commessi), cui sono affidate mansioni esecutive che li pongono in contatto con i terzi, hanno un (limitato) potere di rappresentanza pure in mancanza di specifico atto di conferimento (cfr. Cass., 18 ottobre 1991, n. 11039). Il principio base, enunciato dall'art. 2210 (1^ comma) c.c., è che essi possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di cui sono incaricati, salve le limitazioni contenute nell'atto di conferimento della rappresentanza. Nel caso di specie, risulta dalla sentenza impugnata che il rapporto negoziale si svolse con un impiegato della banca che fece firmare alla E il modulo di fideiussione. La circostanza è confermata dalla stessa resistente la quale, nel controricorso (pag. 8-9), sostiene che il contratto non si perfezionò davanti all'impiegato bensì in un secondo momento, per opera di organo dotato di legale rappresentanza, diverso dagli impiegati di sportello (cioè, per l'appunto, dagli ausiliari subordinati) che avevano raccolto la firma dell'attuale ricorrente.
In questa sede, però, non è in discussione il momento di conclusione del contratto, bensì la fase di formazione del rapporto che si sviluppò unicamente tra la E e il personale della banca, personale che, come risulta incontroverso, svolse le operazioni di cui era incaricato (eventuali sconfinamenti andavano allegati e provati dalla banca). In tale ambito esso, per quanto sopra detto, aveva poteri di rappresentanza dell'imprenditore, sicché, ai sensi dell'art. 1391 c.c., lo stato soggettivo ai fini della conoscibilità dell'errore andava verificato con riguardo all'impiegato che trattò la pratica e non già con riferimento al legale rappresentante della banca.
L'errore di diritto qui riscontrato ha dato luogo al vizio di motivazione, in quanto la sentenza impugnata ha trascurato di valutare i dati fattuali che pure aveva richiamato.
Nel controricorso, poi, la resistente pone l'accento sull'art. 2722 c.c., affermando che i giudici del merito avrebbero accertato che la
E non avrebbe assolto all'onere probatorio che le incombeva, nè avrebbe potuto farlo con la prova testimoniale, essendo questa inammissibile alla stregua della citata norma. La sentenza impugnata, però, ha chiarito che la prova testimoniale era inammissibile al fine di contrastare il tenore di un patto scritto contestuale, e sotto questo profilo ha dato ingresso alla censura della banca, che aveva criticato la pronunzia del Tribunale per aver tratto argomento dalla prova orale contro la clausola recante l'impegno fideiussorio.
La stessa sentenza ha messo in rilievo che in primo grado la prova per testi era stata ammessa non già per contrastare il patto scritto, "bensì a sostegno della addotta ricorrenza di uno stato soggettivo di errore del contraente" ed ha aggiunto che, in questa prospettiva, "la difesa della CRT non aveva titolo ad eccepire l'inammissibilità della prova ai sensi dell'art. 2722 c.c.". La sentenza impugnata, quindi, ha ritenuto che per dimostrare l'errore la prova testimoniale fosse ammissibile, e la conferma di ciò si trae dal rilievo che, in prosieguo, ha richiamato le deposizioni dei testi A e M, sia pure trascurando (erroneamente) di valutarle.
Il punto non ha formato oggetto di ricorso incidentale e, dunque, non è suscettibile di riesame.
Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa va rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che si uniformerà ai principi sopra enunciati e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di Cassazione.

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