Cass. pen., sez. I, sentenza 08/01/2021, n. 00460

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. I, sentenza 08/01/2021, n. 00460
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 00460
Data del deposito : 8 gennaio 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

iato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso proposto da: 1) M G A, nato a Taviano il 28/01/1964;
Avverso la sentenza emessa il 15/10/2019 dalla Corte militare di appello di Roma;
Sentita la relazione del Consigliere A C;
Sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale L M F, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 05/07/2018 il Tribunale militare di Napoli condannava G A M alla pena di due mesi di reclusione militare per il reato di cui agli artt. 227, commi primo e secondo, 47, comma primo, n. 2, c.p.m.p., commesso a Taranto in epoca prossima al 06/10/2015. 2. Con sentenza emessa il 29/05/2019 la Corte militare di appello di Roma, decidendo sull'impugnazione proposta dall'imputato, confermava la decisione appellata, condannando l'appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali.

3. I fatti di reato, nella loro consistenza materiale, devono ritenersi incontroversi, riguardando la diffamazione militare aggravata commessa dall'imputato nei confronti del generale G C, nel contesto di una missiva indirizzata dal ricorrente alla persona offesa, quale comandante della Legione Carabinieri Puglia, che i Giudici militari di merito ritenevano concordemente connotata da modalità espositive diffamatorie ed esorbitanti dal diritto di critica, pur riconosciuto ai militari. Tale condotta illecita, in particolare, traeva origine dalla missiva datata 06/10/2015, con cui l'imputato, nella sua qualità di appuntato scelto, in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di Avetrana, richiamando la procedura di trasferimento che lo riguardava, offendeva la reputazione del generale G C, che accusava, quale comandante della Regione Carabinieri Puglia, di «voler raggiungere a tutti i costi un interesse privato e di non perseguire il legittimo interesse della Pubblica Amministrazione [...]», aggiungendo che la persona offesa «con azioni continuate, artifizi, raggiri e simulazioni, sia prima che dopo, è riuscita a creare nel tempo pregiudizi nei miei confronti all'interno del procedimento amministrativo da me attivato [...]». Sulla scorta di tale ricostruzione dei fatti di reato, l'imputato G A M veniva condannato alle pene di cui in premessa.

4. Avverso tale sentenza l'imputato G A M, a mezzo dell'avv. Biagio Palamà, ricorreva per cassazione, deducendo cinque motivi di ricorso. Con il primo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava pronunciata in violazione degli artt. 260 e 289 c.p.m.p., non chiarendo per quali ragioni il reato contestato a M era procedibile d'ufficio - in presenza di una richiesta di procedimento formulata tardivamente ex art. 260 cod. proc. pen. - e non tenendo conto del fatto che gli elementi probatori utilizzati per formulare il giudizio di colpevolezza espresso nei confronti dell'imputato erano stati acquisiti in violazione dell'art. 289 c.p.m.p., che non consente alla persona offesa di contribuire all'istruzione del procedimento che lo riguarda, al di fuori dei casi previsti dagli artt. 34 e 35 c.p.m.p. Con il secondo motivo e il quinto motivo di ricorso, che appaiono prospettati in termini sovrapponibili dalla difesa del ricorrente, si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che imponevano di ritenere insussistenti i presupposti per l'esperimento della prova liberatoria richiesta nell'interesse dell'imputato, così come prefigurata dalla sentenza della Corte costituzionale 23 settembre 2009, n. 273, ai cui principi la Corte militare di appello di Roma non si era conformata. Con il terzo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argonnentativo che desse esaustivamente conto degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 227 c.p.m.p., la cui insussistenza non consentiva la formulazione del giudizio di responsabilità penale nei confronti di M, che, con la sua missiva, si era limitato a esprimere delle critiche alla violazione delle regole previste dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, verificatasi nella sua procedura di trasferimento. Con il quarto motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la persona offesa non poteva trasmettere la missiva che gli era stata indirizzata da M per le vie burocratiche, ma avrebbe dovuto provvedere al suo sequestro, costituendo la comunicazione controversa corpo del reato. Le considerazioni esposte imponevano l'annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da G A M è inammissibile.

2. Deve ritenersi inammissibile il primo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava pronunciata in violazione degli artt. 260 e 289 c.p.m.p., non chiarendo per quali ragioni il reato contestato a M era procedibile d'ufficio - in presenza di una richiesta di procedimento trasmessa il 02/12/2015, senza l'osservanza dei termini prescritti dall'art. 260 cod. proc. pen. - e non tenendo conto del fatto che gli elementi probatori utilizzati per formulare il giudizio di colpevolezza espresso nei confronti dell'imputato erano stati acquisiti in violazione dell'art. 289 c.p.m.p., che non consente alla persona offesa di contribuire all'istruzione del procedimento che lo riguarda, al di fuori dei casi previsti dagli artt. 34 e 35 c.p.m.p. Si tratta di censure difensive che impongono una valutazione separata delle doglianze attraverso cui vengono articolate.

2.1. Deve anzitutto ritenersi inammissibile la doglianza relativa alla violazione dell'art. 260 c.p.m.p., atteso che la Corte militare di appello di Roma riteneva correttamente che, nel caso di specie, ricorreva l'ipotesi aggravata di cui all'art. 227, comma secondo, c.p.m.p., concretizzandosi la condotta diffamatoria dell'appuntato G A M nell'attribuzione di un fatto determinato al generale G C, che comportava l'applicazione della circostanza aggravante a effetto speciale oggetto di contestazione. Non è, invero, dubitabile che l'imputato intendeva attribuire alla persona offesa un fatto determinato, accusandola di non rispettare le regole procedurali previste per i trasferimenti dei Carabinieri della Regione Puglia, arrecando volutamente un nocumento al ricorrente, consistente nel mancato accoglimento della sua istanza, allo scopo di agevolare altri militari, favoriti dal comportamento illegittimo del generale Cataldo. Si tratta, dunque, di una condotta diffamatoria connotata da specificità, certamente rilevante ai sensi dell'art. 227, comma secondo, c.p.nn.p., rispetto alla quale non assumono un rilievo favorevole a M le successive giustificazioni, finalizzate ad alleggerire la sua posizione, ma ininfluenti rispetto all'inquadramento del comportamento criminoso in esame. Né è possibile dubitare del fatto che tale aggravante rientri nel novero delle circostanze a effetto speciale, atteso che il secondo comma dell'art. 227 c.p.m.p. comporta l'applicazione «della pena della reclusione militare da sei mesi a tre anni», in una misura superiore a un terzo della pena prevista per le ipotesi di cui al primo comma della stessa norma, punite «con la reclusione militare fino a quattro mesi». Ne discende che la soluzione processuale adottata dalla Corte militare di appello di Roma, ritenuti sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 227, commi primo e secondo, cod. pen., che comporta l'applicazione di una circostanza aggravante a effetto speciale, appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte, risalente ma consolidata, secondo cui: «Per riconoscere se è necessaria la richiesta di procedimento del comandante del corpo prevista dall'art. 260 c.p.m.p. come condizione di procedibilità per taluni reati militari punibili con pena non superiore a sei mesi, occorre aver riguardo al massimo della pena edittale stabilita per il reato. Tuttavia, qualora concorrano circostanze aggravanti che determino la misura massima della pena in modo autonomo e predeterminata per legge (c.(1. circostanza aggravanti ad effetto speciale) dovrà tenersi conto di tale pena ai fini di stabilire se sia necessaria o meno la richiesta di procedimento del comandante del corpo» (Sez. 1, n. 10815 del 16/06/1986, Mellace, Rv. 173940-01).
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