Cass. civ., SS.UU., sentenza 10/12/2003, n. 18838

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La mancata menzione, nella decisione del Consiglio Nazionale Forense, del contenuto delle conclusioni del pubblico ministero non è causa di nullità della pronunzia, ne' concretizza un vizio di motivazione della decisione l'omessa giustificazione dell'eventuale dissenso rispetto a tali conclusioni.

Il praticante ammesso all'esercizio del patrocinio che svolga attività stragiudiziale è vincolato ad osservare i doveri deontologici esistenti per gli avvocati che svolgono la stessa attività, stante la parificazione, sotto il profilo disciplinare, tra praticante ed avvocato operata dall'art. 57 del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37, recante norme integrative ed attuative del regio decreto - legge 27 novembre 1933, n. 1578 sull'Ordinamento professionale forense. Da tanto deriva che anche per il praticante ammesso all'esercizio del patrocinio sono da ritenere operanti i doveri di legge e deontologici relativi all'esercizio della professione forense alla cui osservanza è tenuto l'avvocato il quale presti opera di consulenza legale, e tra questi il divieto di esercizio della professione per il tramite di una società di capitali ed il divieto di utilizzare forme di pubblicità non consentite.

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 10/12/2003, n. 18838
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 18838
Data del deposito : 10 dicembre 2003

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. I G - Primo Presidente f.f. -
Dott. O G - Presidente di sezione -
Dott. C A - Consigliere -
Dott. L E - rel. Consigliere -
Dott. N G - Consigliere -
Dott. V M - Consigliere -
Dott. L P M - Consigliere -
Dott. M M R - Consigliere -
Dott. E S - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P N, A M, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

ORIANI

32, presso lo studio dell'avvocato M Z, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato L B, giusta delega a margine del ricorso;



- ricorrenti -


contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, CONSIGLIO DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRESCIA;



- intimati -


avverso la decisione n. 189/02 del Consiglio nazionale forense di ROMA, depositata il 06/12/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/10/03 dal Consigliere Dott. E L;

udito l'Avvocato L B;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele PALMIERI che ha concluso per il rigetto del ricorso, assorbita l'istanza di sospensione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Brescia, il 25 luglio 1994, deliberava l'apertura di un procedimento disciplinare nei confronti della Dott.ssa Nicla P, iscritta nel registro dei praticanti procuratori di Milano, e della Dott.ssa Monica A, iscritta nel registro dei praticanti procuratori di Brescia, per i capi di incolpazione di seguito trascritti.
La P: 1) perché assumeva la carica di amministratore delegato con poteri di ordinaria amministrazione in una società di capitali (studio P s.r.l.), con sede in Brescia, via Callegari n. 4;
2) perché svolgeva attività di consulenza ed assistenza stragiudiziale quale amministratore della menzionata società di capitali (Studio P s.r.l.) e comunque valendosi di essa, pertanto con modalità incompatibili con l'esercizio dell'attività professionale forense;

3) perché non comunicava al registro professionale di appartenenza l'esistenza di una causa di incompatibilità alla propria iscrizione consistente nell'esercizio di attività commerciale e, in particolare, nell'assunzione della carica di amministratore delegato della suddetta Studio P s.r.l.;
4) perché non comunicava al registro professionale di appartenenza il venir meno del necessario requisito della residenza entro il circondario;
5) perché utilizzava forme di pubblicità non consentite, in particolare mediante l'inserzione "Studio P consulenza su contratti internazionali" figurante sull'elenco degli abbonati del telefono di Brescia con caratteri diversi da quelli ordinari. Fatti avvenuti in Brescia a partire dal 31.3.1993.
La A: 1) perché assumeva la carica di amministratore in una società di capitali (Studio P s.r.l. con sede in Brescia, via Callegari n. 4) e svolgeva attività di consulenza e assistenza stragiudiziale tenendo pertanto un comportamento non compatibile con l'esercizio dell'attività professionale forense;
2) perché utilizzava forme di pubblicità non consentite, in particolare mediante l'inserzione "Studio P consulenza su contratti internazionali" figurante sull'elenco degli abbonati del telefono di Brescia con caratteri diversi da quelli ordinari. Fatti avvenuti in Brescia a partire dal 31.3.1993.
Il detto Consiglio, con deliberazione del 14 marzo 1995 (e depositata il 25 febbraio 1999), dichiarava la Dott.ssa P responsabile di tutti gli addebiti contestati e le applicava la sanzione disciplinare della sospensione dal registro dei praticanti e dall'elenco degli abilitati al patrocinio per mesi dodici;
assolveva la Dott.ssa A dall'addebito n. 1 (limitatamente al fatto di avere assunto la carica di amministratore in una società di capitali) e la dichiarava colpevole della restante parte dell'addebito n. 1 e dell'addebito n. 2, applicandole la sanzione disciplinare della sospensione dal registro dei praticanti e dall'elenco degli abilitati al patrocinio per mesi sei.
Le Dott.sse P ed A, con atto del 27 marzo 1999, proponevano ricorso al Consiglio nazionale forense. Questo, dopo avere chiesto ed acquisito informazioni dai Consigli dell'Ordine di Brescia e di Milano, con la decisione del 18 ottobre 2001 (depositata il 6 dicembre 2002), confermava la dichiarazione di responsabilità per gli addebiti, salvo che per il capo n. 4 ascritto alla P, in ordine al quale riteneva rilevante la legge sopravvenuta 21 dicembre 1999 n. 526 (art. 16);
riduceva, però, la durata della sospensione a mesi sei per la Dott.ssa P ed a mesi tre per la Dott.ssa A. Le Dott.sse P e A hanno proposto ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi. Il Consiglio dell'Ordine di Brescia non ha svolto attività difensiva davanti a questa Corte.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo le due ricorrenti deducono "omessa motivazione circa la difformità con le conclusioni prese dal P.M. presente all'udienza dell'8 giugno 2000" davanti al Consiglio nazionale forense, in cui il P.M. aveva "concluso per l'assoluzione della Dott.ssa A e per una sanzione non superiore all'avvertimento per la Dott.ssa P", conclusioni che non sono state menzionate, ne' prese in considerazione dalla decisione impugnata.
Il motivo di ricorso è infondato.
Nell'epigrafe della decisione impugnata si da atto che il P.M. dell'udienza conclusiva ha chiesto la riduzione della sospensione a mesi sei per la P ed a mesi quattro per la A. Tali conclusioni superano e rendono irrilevanti le conclusioni, di diverso contenuto, prese in una precedente udienza dall'organo requirente (rappresentato da un diverso magistrato), conclusioni che pertanto non dovevano essere trascritte nella decisione conclusiva. In ogni caso, la mancata menzione del contenuto delle conclusioni del P.M. non è causa di nullità della pronunzia impugnata, ne' la difformità rispetto alle stesse concretizza un vizio di motivazione della sentenza, la quale, in linea generale, non è tenuta a giustificare l'eventuale dissenso rispetto alle conclusioni del pubblico ministero.
2.- Con il secondo motivo le ricorrenti deducono "insufficiente motivazione circa il punto dell'intervenuta prescrizione dell'illecito disciplinare", osservando che la decisione impugnata, se ha correttamente affermato che l'azione disciplinare è stata esercitata dal Consiglio dell'Ordine di Brescia prima del compiersi del termine di prescrizione quinquennale previsto dall'art. 51 del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, non ha esaminato l'altro aspetto del
motivo di ricorso al Consiglio nazionale forense, in cui si sosteneva che i fatti, risalenti al 1991, si erano prescritti per essersi il detto quinquennio verificato prima del deposito della deliberazione del Consiglio dell'Ordine di Brescia (25 febbraio 1999), "per non parlare della decisione del Consiglio nazionale forense (18 ottobre 2001)", dovendosi escludere la possibilità di atti interruttivi della prescrizione quinquennale ovvero, una volta ammessi i detti atti interruttivi, dovendosi porre un limite massimo nell'allungamento del termine prescrizionale, analogamente alla disciplina della prescrizione penale.
Il motivo di ricorso è infondato.
Il Consiglio nazionale forense ha osservato non solo che l'azione disciplinare era stata esercitata dal Consiglio dell'Ordine di Brescia "ben prima dello spirare del quinquennio dai fatti costituenti illecito disciplinare" (anche ad accettare che essi risalissero al 1991, anziché al 1993, secondo la contestatazione), ma anche che tale termine prescrizionale è poi soggetto ad atti interruttivi, secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità.
Ed in effetti la giurisprudenza di queste Sezioni unite è contraria alle tesi giuridiche sostenute nel ricorso. L'orientamento pacifico di questa Corte (v., di recente, Sez. un. 10 maggio 2001 n. 187;
13 febbraio 1999 n. 58
) è che alla prescrizione dell'azione disciplinare, prevista in cinque anni dall'art. 51 dell'Ordinamento professionale forense, si applica la disciplina del codice civile, ed in particolare l'art. 2945 c.c., onde essa può essere interrotta. Gli atti interruttivi, se verificatisi nel procedimento di natura amministrativa davanti al Consiglio territoriale, hanno effetto istantaneo, e perciò, secondo la regola del primo comma dell'art. 2945 c.c., dal momento dell'interruzione inizia un nuovo periodo di
prescrizione. Nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio nazionale forense opera, invece, l'effetto interruttivo permanente previsto dal secondo comma dello stesso art. 2945.
Applicandosi al caso di specie il richiamato orientamento giurisprudenziale, l'azione disciplinare contro le due ricorrenti, esercitata il 25 luglio 1994, non poteva essersi prescritta alla data (25 febbraio 1999) di deposito della delibera del Consiglio dell'Ordine di Brescia che ha applicato la sanzione disciplinare, perché, anche a prescindere dall'esame degli atti compiuti nel corso della fase amministrativa, deve attribuirsi efficacia interruttiva quanto meno all'atto di esercizio dell'azione disciplinare, che contraddice l'inerzia su cui si fonda l'istituto della prescrizione. Il ricorso al Consiglio nazionale forense, presentato il 27 marzo 1999 dalle due professioniste, concretizza, poi, l'inizio della fase giurisdizionale, onde ha prodotto l'effetto interruttivo permanente della prescrizione, previsto dal secondo comma dell'art. 2945 c.c.. Correttamente, pertanto, la decisione impugnata ha escluso che si sia verificata la prescrizione dell'azione disciplinare affermata con il secondo motivo di ricorso.
3.- Con il terzo motivo le ricorrenti deducono "omessa, insufficiente e in parte contraddittoria motivazione circa la effettività della professione forense". Le ricorrenti sostengono che "non hanno mai esercitato attività forense in nessuna maniera neppure occasionale", essendo "state semplicemente iscritte al registro dei praticanti abilitati senza però mai gestire nemmeno una pratica avanti ad alcuna pretura". Esse "hanno dato vita e si sono poi associate ad una società a responsabilità limitata in un primo tempo denominata Studio P s.r.l. e successivamente Studio consulenze giuridiche s.r.l.", per svolgere un'attività di consulenza legale che, contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione impugnata, non è riservata alla professione forense. Le ricorrenti sostengono di avere "violato unicamente il dovere di richiedere la cancellazione dall'albo dei praticanti abilitati per una sopraggiunta causa di incompatibilità", violazione che avrebbe dovuto indurre il Consiglio dell'Ordine a cancellarle dal detto albo (cancellazione che, peraltro, esse avevano chiesto e non ottenuto, "quando si sono rese conto della loro situazione di incompatibilità").
Il motivo di ricorso è infondato.
Secondo l'art. 57 del R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, recante norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 sull'Ordinamento professionale forense, "sono sottoposti a procedimento disciplinare i praticanti che si rendono colpevoli di fatti non conformi alla dignità ed al decoro della professione forense, oppure qualora esercitino il patrocinio a termini dell'art. 8 del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, di abusi o mancanze
nell'esercizio del patrocinio stesso". Il richiamato art. 8 prevedeva, all'epoca dei fatti per cui è causa (prima della soppressione delle preture), che i praticanti, dopo un anno dalla iscrizione nel relativo registro, sono ammessi ad esercitare il patrocinio davanti alle preture del distretto nel quale è compreso l'ordine circondariale che ha la tenuta del registro suddetto. Le due ricorrenti erano iscritte nel registro dei praticanti ed ammesse all'esercizio del patrocinio davanti alle preture. La decisione impugnata ha accertato che esse, costituendo la società di capitali indicata nel motivo di ricorso ed agendo come amministratori della stessa società, hanno "esercitato attività stragiudiziale finalizzata alla successiva assunzione di incarichi in sede giudiziale", compiendo attività della "fase prodromica alla instaurazione di una lite giudiziale". Non risulta dalla decisione impugnata che esse abbiano compiuto anche attività processuali. Dal trascritto art. 57 si desume la parificazione dei praticanti agli avvocati per quanto attiene alla disciplina, essendo essi tenuti agli stessi doveri: di mantenere "la dignità" ed "il decoro" professionale e di evitare "abusi o mancanze" nell'esercizio della professione (doveri formulati in termini uguali per gli avvocati dall'art. 38 dell'Ordinamento professionale). Detta parificazione si estende al compimento, da parte del praticante, della attività di consulenza legale e in generale di natura stragiudiziale (quale considerata nella tariffa forense), onde, nell'espletamento di tale attività, egli, per il solo fatto di essere iscritto nel registro dei praticanti, è tenuto ad osservare la normativa deontologica prevista per gli avvocati.
Il motivo di ricorso, attribuendo rilevanza al fatto che non sia stato accertato dalla decisione impugnata il compimento, da parte delle due praticanti ammesse all'esercizio del patrocinio forense, di alcun atto giudiziario, nega in sostanza tale parificazione, ritenendo che il praticante possa svolgere attività stragiudiziale senza essere vincolato ad osservare i doveri deontologici esistenti per gli avvocati che svolgono la stessa attività. L'assunto delle ricorrenti non tiene conto della parificazione che, sotto il profilo della disciplina, l'art. 57 citato ha posto tra l'avvocato ed il praticante, onde quest'ultimo non può ritenersi esonerato dall'osservanza dei doveri che incombono sull'avvocato. E, d'altro canto, il cliente che si rivolge al praticante ammesso all'esercizio del patrocinio (a norma dell'art. 8 dell'ordinamento professionale), sia pure per il compimento soltanto di un'attività stragiudiziale, legittimamente confida nel fatto che tale attività venga svolta nell'osservanza delle norme di legge e deontologiche esistenti per gli avvocati. Va tenuto conto che, secondo l'ultimo comma del citato art. 8, l'ammissione del praticante all'esercizio del patrocinio è subordinata alla prestazione, da parte del medesimo, del giuramento di adempiere "con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia" ai doveri inerenti alla professione forense, doveri che concernono ovviamente sia l'attività giudiziale che quella stragiudiziale.
Non viene qui in rilievo, allora, il problema, trattato nella decisione impugnata con affermazioni criticate nel ricorso, se l'attività di consulenza legale sia o meno riservata agli avvocati. Qui rileva, piuttosto, l'affermazione, di indubbia esattezza, che l'avvocato che presta l'opera di consulenza legale è tenuto ad osservare i doveri di legge e deontologici relativi all'esercizio della professione forense, e tra questi il divieto di esercizio della professione per il tramite di una società di capitali ed il divieto di utilizzare forme di pubblicità non consentite. E tali divieti sono operanti anche per i praticanti ammessi all'esercizio del patrocinio, come ha correttamente affermato la decisione impugnata. Quanto al rilievo, espresso nel ricorso, che le violazioni di cui le ricorrenti sono state ritenute responsabili avrebbero giustificato l'accertamento, da parte del Consiglio dell'Ordine di Brescia, della incompatibilità prevista dall'art. 3 dell'Ordinamento professionale, con la conseguente cancellazione delle stesse dal registro dei praticanti, tale incompatibilità non esclude, fino a quando la cancellazione non venga disposta, la rilevanza disciplinare degli illeciti ritenuti sussistenti dalla decisione impugnata. 4.- Con il quarto motivo le ricorrenti, deducendo "omessa motivazione circa l'elemento soggettivo dell'illecito", rilevano che tale elemento è stato accertato dalla decisione impugnata solo con riferimento all'omessa cancellazione dall'albo dei praticanti abilitati, e non anche per gli altri illeciti, in relazione ai quali l'elemento soggettivo non sussiste, perché le ricorrenti ritenevano che l'attività svolta dalla società da loro costituita "fosse una libera prestazione di servizi" e che fossero "libere nello svolgimento di tale attività dalle norme relative all'attività forense".
Il motivo di ricorso è infondato.
L'affermazione della esistenza, in capo alla Dott.ssa P ed alla Dott.ssa A, quanto meno della colpa in ordine a tutte le violazioni disciplinari ritenute sussistenti si desume implicitamente, ma chiaramente, dalla decisione impugnata, la quale ha ridotto le sanzioni applicate alle due ricorrenti, in considerazione della loro "giovane età" e della "mancanza di esperienza", che, se ha potuto rendere possibile un loro errore nella individuazione dei doveri derivanti dalla loro iscrizione nel registro dei praticanti e dalla loro ammissione al patrocinio (preceduta dall'apposito giuramento), non priva questo eventuale errore del carattere colposo;
il che, in linea di diritto, è sufficiente per l'affermazione della responsabilità disciplinare. 5.- Con il quinto motivo le ricorrenti deducono "omessa motivazione sulla valutazione in concreto delle conseguenze della pur riconosciuta mancanza di esperienza delle ricorrenti", la quale avrebbe dovuto indurre ad escludere gli illeciti disciplinari, tenuto conto anche del fatto che il precedente Consiglio dell'Ordine di Brescia si era interessato dello Studio P nel 1991 senza prendere alcuna iniziativa, sulla base del convincimento che l'attività svolta dalla Dott.ssa P fosse diversa da quella dell'avvocato o del praticante procuratore abilitato. Il motivo di ricorso è infondato.
La sentenza impugnata ha ritenuto correttamente che le due praticanti ammesse al patrocinio non potevano svolgere attività di consulenza ed assistenza stragiudiziale senza osservare i doveri imposti agli avvocati (come si è chiarito in relazione al terzo motivo di ricorso), con la conseguente sussistenza dell'elemento oggettivo degli illeciti disciplinari. Ha, poi, tenuto conto espressamente della "mancanza di esperienza delle incolpate", ritenendo che essa non eliminasse quanto meno la colpa nel conportamento delle stesse (come si è detto in relazione al quarto motivo), ma rendesse gli illeciti meritevoli di una sanzione meno grave di quella applicata dal Consiglio territoriale.
Non sussiste, quindi, il vizio di omessa motivazione lamentato nel ricorso.
6.- In conclusione, il ricorso, contenendo censure infondate, va rigettato.
Poiché la parte intimata non si è costituita, manca il presupposto per la pronunzia sulle spese del giudizio di Cassazione.

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