Cass. civ., SS.UU., sentenza 09/10/2008, n. 24883

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In materia di agevolazioni ai fini delle imposte sui redditi, l'art. 10, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 460 del 1997, sul riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) - a norma del quale si intende che vengono perseguite finalità di solidarietà sociale quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano dirette ad arrecare benefici a "persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari" - dev'essere interpretato nel senso che è sufficiente che ricorra almeno una delle predette condizioni di svantaggio, non rilevando ad escludere il fine solidaristico che le prestazioni siano fornite dietro pagamento di un corrispettivo, sempre che non vi sia prova del perseguimento anche di un fine di lucro attraverso la distribuzione degli utili ovvero il loro impiego per la realizzazione di attività diverse da quelle istituzionali o a queste connesse. (Nella specie, le Sezioni Unite, facendo applicazione del suddetto principio, hanno rigettato il ricorso proposto dall'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di merito che aveva accolto il ricorso contro la cancellazione dall'Anagrafe unica delle Onlus, di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 460 del 1997).

L'interpretazione dell'art. 37 cod. proc. civ., secondo cui il difetto di giurisdizione "è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo", deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo ("asse portante della nuova lettura della norma"), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell'affievolirsi dell'idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All'esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l'ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 38 cod. proc. civ. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l'affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l'unico tema dibattuto sia stato quello relativo all'ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito "per saltum", non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito. (Nella specie, le Sezioni Unite hanno giudicato inammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 329, comma 2 cod. proc. civ.).

Sul provvedimento

Citazione :
Cass. civ., SS.UU., sentenza 09/10/2008, n. 24883
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 24883
Data del deposito : 9 ottobre 2008
Fonte ufficiale :

Testo completo

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. C V - Primo Presidente -
Dott. V A - Presidente di sezione -
Dott. V G - Consigliere -
Dott. M A - rel. Consigliere -
Dott. S G - Consigliere -
Dott. R R - Consigliere -
Dott. L T M - Consigliere -
Dott. A G - Consigliere -
Dott. T F - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, A D ERATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI

12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;



- ricorrenti -


contro
FONDAZIONE OPERA DON BARONIO - ONLUS, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ANTONIO BERTOLONI

29, presso lo studio dell'avvocato P S, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato N C, giusta procura speciale del notaio Dott. P G di Cesena, rep. 156589 del 16/05/07, in atti;



- controricorrente -


avverso la sentenza n. 72/04/05 della Commissione Tributaria regionale di BOLOGNA, depositata il 09/07/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/05/08 dal Consigliere Dott. Antonio MERONE;

uditi gli avvocati Daniela GIACOBBE dell'Avvocatura Generale dello Stato, Salvo PETTINATO;

udito il P.M., in persona dell'Avvocato Generale Dott.

NARDI

Vincenzo, che ha concluso, previa declaratoria, in via preliminare, della giurisdizione del Giudice tributario e del difetto di legittimazione attiva del Ministero delle Finanze, rigetto, nel merito, del ricorso.
FATTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DEL RICORSO


1.1. La Fondazione Opera Don Baronio ha impugnato, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bologna, il provvedimento con il quale l'Agenzia delle Entrate (nonostante il parere contrario espresso dall'Agenzia delle ONLUS) ha disposto la cancellazione della fondazione stessa dall'Anagrafe Unica, di cui al D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 11, essendo emerso, a seguito di verifica, che l'attività
svolta non era diretta a favore di soggetti anziani in condizioni di assoluto e grave disagio e che mancava la condizione del perseguimento esclusivo delle finalità di solidarietà sociale di cui al citato D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. b). A sostegno dell'originario ricorso, la Fondazione eccepiva:
a) che ai sensi del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 1, lett. a, nn. 1, 2 e 4, le ONLUS sono tali se svolgono attività di assistenza sociale e socio-sanitaria, a prescindere dalle condizioni di svantaggio dei destinatari delle stesse, purché sussista il fine solidaristico;

b) che l'attività svolta dalla Fondazione è rivolta a persone anziane, le quali per condizioni psicologiche, familiari e sociali o per particolari esigenze di assistenza hanno difficoltà a rimanere nel proprio nucleo familiare e che le prestazioni sono erogate da strutture che operano in regime di convenzione con l'Azienda USL di Cesena, consentito soltanto per "attività di assistenza sociale e socio-sanitaria";

c) che, comunque l'Agenzia delle Entrate non aveva tenuto conto del parere contrario alla cancellazione, espresso dall'Agenzia per le ONLUS.
La CTP ha accolto il ricorso e la Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna ha rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate.


2. Avverso quest'ultima decisione propongono ricorso per cassazione il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate, i quali denunciano:
a) il difetto di giurisdizione del giudice tributario, adito in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19, in quanto il provvedimento di cancellazione della Fondazione dall'albo delle ONLUS non rientra tra quelli espressamente indicati dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e non attiene ad un rapporto tributario, ma incide
sullo status giuridico complessivo dell'ente, al quale sono collegati anche, ma non solo, effetti fiscali che, comunque, nella specie non sono in discussione;

b) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 460 del 1997, artt. 10 e 11, anche sotto il profilo del vizio di motivazione, in
quanto erroneamente la CTR ha ritenuto che la solidarietà sociale può manifestarsi anche nei confronti di persone benestanti, che hanno bisogno di assistenza per le più disparate situazioni personali di disagio (che non siano perciò necessariamente di natura economica), considerando irrilevanti le circostanze;

- che gli ospiti delle strutture gestite dalla fondazione erano tenuti a pagare una cospicua retta per il loro mantenimento, senza alcun ausilio pubblico;

- che gli utili realizzati non venivano utilizzati per abbattere il costo delle rette;

- che la fondazione aveva partecipato alla costituzione di una società commerciale (s.r.l.).
La Fondazione resiste con controricorso con il quale eccepisce il difetto di legittimazione attiva del Ministero dell'Economia e delle Finanze, la tardività della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito e la inammissibilità del secondo motivo, inteso ad ottenere una diversa valutazione dei fatti già esaminati con congrua motivazione dai giudici di appello. Nel merito deduce che la circostanza che l'attività veniva svolta con criteri di economicità e che da essa derivassero avanzi di gestione era irrilevante, perché il fine di lucro non si identifica con l'economicità della gestione. Con ordinanza del 27 luglio 2007, la quinta sezione civile di questa Corte, alla quale il ricorso è stato originariamente assegnato, rilevata la sussistenza di una questione di giurisdizione, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l'assegnazione a queste SS.UU..
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. DIRITTO E MOTIVI DELLA DECISIONE


2.1. Preliminarmente, va dichiarato inammissibile il ricorso del Ministero dell'Economia e delle Finanze, che non era parte nel giudizio di appello (Cass. SS.UU. 3116/2008, 3118/2008).

2.2. Ancora in via preliminare, bisogna esaminare la questione di giurisdizione, sulla quale la giurisprudenza di merito, in assenza di pronunce di questa Corte, appare oscillante (propendono per la giurisdizione del giudice amministrativo: TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 22.3.2004;
idem 13.12.2005, nn. 577 e 552, TAR Lazio, sez. 2^, 16.11.2004, n. 13087;
propendono per la giurisdizione del giudice tributario: TAR Sicilia Palermo, sez. 1^, 9.7.2007, n. 1772, TAR Marche 14.4.2004, n. 169, CTP Ancona, sez. 3^, 27.9.2004, n. 106, CTR Lombardia, sez. 19^ 28.2.2007, n. 13). Ancor prima, però occorre pronunciarsi sulla ammissibilità della eccezione di difetto di giurisdizione del giudice tributario, sollevata da una parte (l'Agenzia delle Entrate) la quale, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza di merito senza nulla eccepire circa la potestas iudicandi del giudice che l'ha pronunciata, essendosi limitata a contestare la sussistenza dei requisiti necessari per l'iscrizione della fondazione nell'albo delle ONLUS. È noto, però, che l'art. 329 c.p.c., comma 2, dispone che "L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate". Se i giudici tributar avessero espressamente affermato la propria giurisdizione (su istanza di parte o di ufficio) contestualmente alla decisione di merito, la mancata impugnazione della relativa statuizione, avrebbe determinato l'effetto dell'accettazione della stessa da parte dell'appellante e/o del passaggio in giudicato (esplicito) del relativo capo della sentenza con l'effetto preclusivo di cui all'art. 324 c.p.c., nonostante il disposto dell'art. 37 c.p.c., comma 1, in forza del quale "Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo".
Infatti, a partire da Cass. SS.UU. 28.4.1976 n. 1506, (anticipata da Cass. sez. 1^, 8.9.1970 n. 1298, sulle orme di Cass. SS.UU. 22.7.1960 n. 2084) si è consolidato il principio secondo cui, qualora il giudice decida espressamente sia sulla giurisdizione sia sul merito e la parte impugni solo sul merito, è precluso al giudice di appello e alla Cassazione il rilievo d'ufficio della questione di giurisdizione e alla parte interessata non è consentito introdurla in sede di legittimità se non l'abbia proposta anche in appello, essendosi formato il giudicato interno sulla questione (tra le tante: Cass. SS.UU. 28.3.2006 n. 7039, Sez. L.

8.8.2003 n. 12002, SS.UU.

9.7.1997 n. 6229
). Tale giudicato interno, secondo numerose pronunce (v. Cass. sez. un.

8.8.2001 n. 10961
, Sez. L. 12.4.1984 n. 2377, SS.UU. 24.2.1982. n. 1151, SS.UU. 17.11.1978 n. 5330, SS.UU. 1506/1976), si forma per effetto di un fenomeno di acquiescenza, ai sensi dell'art.329 c.p.c., comma 2;
altre pronunce, invece, pur giungendo alla
medesima conclusione, non fanno leva sull'art. art. 329 c.p.c., comma 2, ma sulla preclusione derivante dal giudicato (Cass. SS.UU.
23.6.1983 n. 4295
).

2.3. Nella specie i giudici di merito non hanno dedicato un capo della sentenza alla questione della giurisdizione. Ma non per questo si può ritenere che la questione non sia stata affrontata e decisa. Qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della potestas iudicandi;
tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione sollevata di ufficio, avviene comunque de plano (implicitamente) e acquista "visibilità" soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice adito venga negata. In linea di principio, se la questione della giurisdizione non viene sollevata in alcun modo, significa che non vi è nessuna necessità che il giudice "mostri le proprie credenziali". Ma, il fatto che la decisione non sia "visibile", non significa che sia inesistente. Il giudice che decide il merito ha anche già deciso di poter decidere. La progressione logica che porta al giudizio di merito presuppone la soluzione delle questioni di giurisdizione e di competenza, anche quando la decisione sulla potestas iudicandi implica la preventiva ricostruzione del rapporto sostanziale dedotto in giudizio e del quadro normativo di riferimento. La dottrina meno recente riteneva che in materia di giurisdizione non sussistesse un ordine logico precostituito, posto che gli elementi della fattispecie influiscono sulla identificazione del giudice competente. Quella stessa dottrina riteneva che il giudicato sulla giurisdizione si formava soltanto se sul punto fosse stata sollevata una autonoma questione pregiudiziale, oggetto di specifico contraddittorio tra le parti (pregiudiziale tecnica e non soltanto logica). La tesi era che, se la questione non veniva espressamente sollevata, la stessa non poteva considerarsi risolta (come se la mancata formalizzazione della questione annullasse l'ordine logico della formulazione del giudizio). È sbagliato, osservava ancora quella dottrina, ritenere che i dubbi non sollevati siano stati risolti in modo implicito: il giudice che non dubita non decide, ovvero decide senza riflettere e, quindi, è inaffidabile.
Può anche accadere che un giudice privo di giurisdizione si ritenga competente senza porsi per nulla il problema, ma si tratta di casi certamente marginali ai quali può porre rimedio la "vigilanza" delle parti. Eventuali accordi illeciti tra le parti (intesi a radicare la giurisdizione per ragioni di comodo presso un giudice incompetente e non particolarmente solerte) non possono essere contrastati negando valore al giudicato implicito: non basterebbe neanche il giudicato esplicito. Di regola, però, se nessuno pone la questione di giurisdizione e il giudice pronuncia la sentenza di merito, significa che la potestas iudicandi è pacifica, nessuno la contesta e perciò non merita un apposito dibattito. La tesi secondo la quale soltanto in caso di dubbio espresso possa riconoscersi la forza certificatrice del giudicato appare illogica, perché esclude tale vis proprio quando la questione non presenta alcun margine di incertezza e viene decisa de plano. Sarebbe come dire che la verità di un fatto evidente è meno certa di un fatto originariamente dubbio, o come affermare che il giudicato sul merito si forma soltanto in relazione alle circostanze di fatto che abbiano formato oggetto di prova e non invece in relazione ai fatti notori o non contestati. L'assunto secondo il quale soltanto le decisioni che scaturiscono da un apposito dibattito partecipano degli effetti previsti dall'art.324 c.p.c., oltre ad offrire il fianco alla incongruenza logica sopra
evidenziata (per cui soltanto la certezza che sia figlia del dubbio merita il sigillo del giudicato e non invece le "certezze" di cui nessuno abbia mai dubitato) si pone anche in evidente contrasto con le regole dell'economia processuale, perché ciascuna parte, quand'anche nessuno dubitasse della potestas iudicandi del giudice adito, se volesse proseguire il giudizio senza il rischio di imprevedibili regressioni successive, sarebbe costretta a provocare un contraddittorio sul punto. Senza considerare che, in linea di principio, la certezza del giudicato talora deriva non dall'accertamento dei fatti ma soltanto dalla impossibilità di accertarli, in quanto sopperisce la regola di giudizio dell'onere della prova: il dubbio resta nonostante la decisione. Ne deriva che, sul piano del valore di verità, appare più affidabile la decisione che non sia passata attraverso il travaglio del dubbio, che non quella che sia frutto del contraddittorio risolto iuxta alligata et probata e non in base al principio di verità materiale. In realtà, non bisogna confondere la successione cronologica delle attività di cognizione del giudice, con il quadro logico della decisione complessiva adottata in esito alle attività cognitive, all'interno del quale si collocano i passaggi impliciti o espliciti che portano alla decisione finale (una sorta di stratificazione da assestamento). Questi passaggi, che nel giudizio monocratico non sono scanditi da un apposito rituale, sono plasticamente raffigurati nella prescrizione dell'art. 276 c.p.c., comma 2, in forza del quale il collegio, sotto la direzione del presidente, "decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa" (la disposizione, richiamata dagli artt. 131 e 141 disp. att. c.p.c., riguarda anche i giudizi di appello e di cassazione). Vi è dunque un preciso obbligo di legge di decidere prima ("gradatamente") le questioni pregiudiziali (logiche o tecniche) e poi ("quindi") il merito. Pertanto, non si può affermare che, in mancanza di una specifica statuizione, la questione di giurisdizione (presente in ogni causa) non sia stata affrontata. Se il giudice ha deciso il merito, in forza del combinato disposto dell'art. 276 c.p.c., comma 2, e art. 37 c.p.c. (che impone la verifica di ufficio della potestas iudicandi), si deve ritenere che abbia già deciso, in senso positivo, la questione pregiudiziale della giurisdizione. La regola della decisione per gradi appartiene alla natura stessa del processo e la si ritrova espressamente sancita anche nella disciplina del processo penale. L'art. 527 c.p.p., comma 1, dispone infatti, analogamente all'art. 276 c.p.c., che il
collegio, sotto la direzione del presidente, decide separatamente le questioni preliminari e ogni altra questione relativa al processo;

soltanto se l'esame del merito non risulti precluso sono poste in decisione le questioni di fatto e di diritto concernenti l'imputazione.
Anche l'art. 279 c.p.c., comma 2, e art. 187 c.p.c., commi 2 e 3, indicano quale sia la progressione naturale che il giudice deve seguire nel decidere le questioni, nella quale quelle di merito vengono sempre dopo quelle attinenti alla giurisdizione. In definitiva, la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza o la impugnano ma non eccepiscono il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dall'art.329 c.p.c., comma 2, e dall'art. 324 c.p.c.. Naturalmente, queste
considerazioni valgono anche in relazione al processo tributario, al quale si applicano le norme del codice di procedura civile, per quanto non previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992 (art. 1, comma 2, e art. 49): "Anche al processo tributario - caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità della difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonché dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili - è applicabile il principio generale
di non contestazione che informa il sistema processuale civile (con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non abbisognevoli di prova i fatti non espressamente contestati), il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 cod. proc. civ., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta
una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e di probità previsto dall'art. 88 cod. proc. civ., il quale impone alle parti di collaborare fin dall'inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.. Nè assumono alcun rilievo, in contrario, le peculiarità del
processo tributario, quali il carattere eminentemente documentale dell'istruttoria e l'inapplicabilità della disciplina dell'equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo" (Cass. 1540/2007). Ne deriva che in ogni processo vanno individuati "due distinti e non confondibili oggetti del giudizio, l'uno (processuale) concernente la sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della causa e l'altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no della domanda" (Cass. 2002/ 6737). Stante l'obbligo del giudice di accertare l'esistenza della propria giurisdizione prima di passare all'esame del merito o di altra questione ad essa successiva, può legittimamente presumersi che ogni statuizione al riguardo contenga implicitamente quella sull'antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull'esistenza della giurisdizione, in difetto della quale non avrebbe potuto essere adottata.
Anche la giurisprudenza più recente ha, d'altronde, concordato sul punto, pur precisando che la impugnazione della statuizione sul merito riaprirebbe il dibattito pure sulla questione di giurisdizione, sia perché la rimetterebbe comunque in discussione e sia perché non sarebbe ipotizzabile il passaggio in giudicato di una pronuncia implicita quando è ancora sub iudice quella espressa che la contiene. Nessuna delle due anzidette ragioni risulta realmente decisiva.
Non la prima, perché colui che si limita a chiedere la riforma della decisione di merito non rimette affatto in discussione anche la giurisdizione ma, al contrario, con il suo comportamento la riconosce, aderendo e/o prestando acquiescenza alla pronuncia implicita su di essa.
E nemmeno la seconda, perché l'accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo che è pienamente capace di passare in giudicato anche nel caso in cui il giudice si sia pronunciato solo implicitamente sul punto: "Una volta che il giudice di primo grado abbia in modo espresso pronunciato sulla giurisdizione, tale questione non può più formare oggetto di rilievo d'ufficio nell'ulteriore corso del processo, ma solo di motivo di impugnazione;

sicché analogamente, ove il giudice d'appello, pur ancora dalle parti investito della questione di giurisdizione, abbia omesso di pronunciarsi in via pregiudiziale, rendendo direttamente (ed unicamente) la decisione di merito, è precluso nel giudizio di cassazione l'esame d'ufficio della questione medesima ove nessuna delle parti abbia più censurato tale pronuncia con specifico motivo di ricorso per Cassazione, con conseguente passaggio in giudicato della stessa nella parte in cui il giudice d'appello ha ritenuto la sua giurisdizione" (Cass. 34/1999).

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