Cass. civ., SS.UU., sentenza 16/01/2015, n. 642
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Nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato.
La sentenza la cui motivazione sia meramente riproduttiva di un atto di parte non comporta la dichiarazione di nullità, sempre che risultino chiare le ragioni che la sostengono e che le motivazioni, esposte in maniera univoca ed esaustiva, siano attribuibili alla volontà del giudice quale espressione ufficiale della volontà dello Stato.La sentenza è infatti un atto pubblico, espressione di una funzione pubblica, nella cui stesura non assume rilievo l'eventuale originalità dei contenuti o paternità delle modalità espressive utilizzate in motivazione, ben potendo la pronuncia riprodurre in tutto o in parte il contenuto di altre sentenze, ovvero di atti del processo, senza che si ponga un problema di tutela del diritto d'autore, come accadrebbe invece nel caso di un'opera letteraria od artistica. Massima redatta dal Ce.R.D.E.F.
Sul provvedimento
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio - Primo Presidente f.f. -
Dott. SALMÈ Giuseppe - Presidente Sezione -
Dott. RORDORF Renato - Presidente Sezione -
Dott. DI AMATO Sergio - Consigliere -
Dott. MAZZACANE Vincenzo - Consigliere -
Dott. CHIARINI Maria Margherita - Consigliere -
Dott. VIVALDI Roberta - Consigliere -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere -
Dott. DI IASI Camilla - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24161/2010 proposto da:
FALLIMENTO STAMPAGGIO LAMIERA SANMARCOEVANGELISTA (S.L.S.) S.R.L., in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIVITAVECCHIA 7, presso lo studio dell'avvocato PIERPAOLO BAGNASCO, rappresentato e difeso dall'avvocato CIARAMELLA GIUSEPPE, per delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende e difende;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 475/40/2009 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE - SEZIONE DISTACCATA di LATINA, depositata il 02/10/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2014 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;
uditi gli avvocati Giuseppe CARAMELLA, Antonio VOLPE dell'Avvocatura Generale dello Stato;
udito il P.M. in persona del Procuratore Generale Aggiunto Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l'accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbimento degli altri. CONSIDERATO IN FATTO
Stampaggio Lamiera Sanmarcoevangelista s.r.l. impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Frosinone l'avviso col quale, ritenuta l'omessa presentazione della dichiarazione per l'anno di imposta 2000 ed accertato pertanto induttivamente il reddito per l'anno in questione, l'Agenzia delle Entrate aveva recuperato Euro 665.612,08 per Irpeg, Euro 249.817,43 per Irap ed Euro 2.846.653,78 per Iva, oltre interessi e sanzioni per Euro 4.505.653,68. Il giudice adito rigettava il ricorso e la Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, con sentenza n. 475/40/09 pubblicata il 2.10.2009, rigettava l'impugnazione proposta dalla società, confermando la sentenza di primo grado.
In particolare nella citata sentenza i giudici d'appello, premesso di fare proprie le argomentazioni esposte dall'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate, hanno rilevato che l'accertamento nei confronti della società era stato effettuato perché, alla stregua del disposto del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, era stata considerata omessa la dichiarazione dei redditi per l'anno di imposta in contestazione in quanto redatta su modello non conforme a quello previsto dalla legge, non inviata telematicamente e priva della sottoscrizione del legale rappresentante della società.
I predetti giudici hanno inoltre evidenziato la pretestuosità del rilievo della società - secondo la quale al momento della presentazione i nuovi modelli non erano disponibili -, sottolineando il carattere non esclusivamente formale della prescrizione di utilizzare un modello specificamente predisposto e di procedere all'invio telematico, ed hanno altresì rilevato: che, considerata la chiarezza della norma, non si ravvisavano i presupposti dell'errore scusabile;
che, essendo stata omessa la dichiarazione e non essendo stata fornita risposta ai questionari inviati ne' essendo state fornite agli uffici finanziari le notizie richieste nell'ambito dei loro poteri istruttori, l'Ufficio era legittimato a determinare il reddito complessivo sulla base delle notizie e dei dati dei quali aveva comunque avuto conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalla dichiarazione e dalle scritture contabili in quanto esistenti ed avvalersi di presunzioni anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza;
che non sussisteva alcuna preclusione all'accertamento dell'anno 2000 per intervenuto condono in quanto il condono non si era perfezionato. Infine, i giudici d'appello hanno precisato che il reddito complessivo era stato determinato ricostruendo i ricavi della gestione ordinaria sulla base dei costi diretti di produzione rilevati dal bilancio di esercizio e dalla copia della dichiarazione consegnata all'Ufficio, evidenziando che i ricavi della gestione ordinaria inseriti in bilancio non erano assolutamente rispondenti alla situazione reale dell'azienda, non risultando peraltro convincente la motivazione fornita nella relazione dell'amministrazione sulla gestione - attribuente la riduzione del valore della produzione rispetto all'anno precedente al solo aumento del costo del personale - in quanto essa, seppur condivisibile, non spiegava il comportamento della società, consistente nell'incremento della produzione e nell'assunzione di nuovo personale in un momento in cui, come dedotto nella relazione, si riscontrava aumento dei costi delle materie prime e diminuzione dei prezzi delle lavorazioni.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre il Fallimento della società.
L'Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. RITENUTO IN DIRITTO
1. Il ricorso per cassazione della curatela fallimentare è affidato a ventuno motivi, col primo dei quali, deducendo, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per violazione dell'art. 132 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, si afferma che la
decisione impugnata sarebbe priva di motivazione, essendo quella esposta in sentenza meramente apparente in quanto costituita esclusivamente dalla integrale riproduzione delle controdeduzioni depositate dall'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate nel giudizio d'appello, senza alcuna autonoma valutazione da parte del giudicante e comunque in assenza di una anche sintetica esplicitazione delle ragioni della totale adesione del medesimo alle tesi dell'Agenzia delle Entrate.
Il collegio della quinta sezione civile di questa Corte, dinanzi al quale la causa è stata chiamata, considerato che la decisione del suesposto motivo (il cui esame risulta necessariamente pregiudiziale) comporta la considerazione di principi di rilevanza anche costituzionale, "con possibili ricadute per eadem ratio pure al di fuori del processo tributario, nei processi civili e penali (nonché nei giudizi disciplinari su comportamenti similari)", con ordinanza interlocutoria n. 1531 del 2014 ha invocato - ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 2, - l'intervento di queste sezioni unite sulla
questione relativa alla censurabilità (o meno) della sentenza la cui motivazione sia costituita esclusivamente dalla mera riproduzione di un atto di parte.
La censura proposta col motivo sopra riportato è infondata. Il termine "sentenza" - nella sua accezione di scritto esponente le ragioni di una decisione giurisdizionale - sconta (molto più di altri termini giuridici) gli effetti di non univoche suggestioni culturali che sono andate via via crescendo proporzionalmente all'incremento delle funzioni e delle valenze anche extraprocessuali assunte negli ultimi decenni dalla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, finendo per costituire (anche nell'immaginario collettivo) non soltanto l'esposizione delle ragioni di una decisione, ma pure (spesso innanzitutto) la "prova" e la "misura" (in positivo e in negativo) della quantità e qualità del lavoro del giudice. Sempre più frequentemente infatti la sentenza, con i suoi contenuti, tempi e modalità di intervento, sembra costituire (anche) la risposta a domande eterogenee che sono fuori del singolo processo, divenendo ambiguo e simbolico terreno di confronto intorno al quale soprattutto si misura l'aspettativa di giustizia nonché il modello di giudice (e di processo) che volta a volta si intende promuovere o stigmatizzare.
Sentenza (intesa come motivazione della decisione) è dunque uno di quei termini il cui utilizzo richiederebbe, in funzione della maggiore precisione del discorso, un preventivo "inventario di senso", o, meglio, una preventiva operazione di "disambiguazione" culturale.
In questa sede tuttavia, pur avvertendosi - nell'impostazione della questione e nelle argomentazioni addotte in ricorso - il peso della denunciata ambiguità culturale di fondo, una indagine siffatta non può che essere solo indirettamente lambita dall'analisi dei temi proposti dal ricorso, da condursi prescindendo dalla dimensione "suggestiva" della problematica in esame, al fine di fare chiarezza su di essa esclusivamente alla stregua della disciplina giuridica vigente, sul piano sostanziale e processuale.
2. Con riguardo alla disciplina civilistica del diritto d'autore, è sufficiente rilevare che la sentenza non è un'opera dell'ingegno di carattere creativo appartenente "alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all'architettura, al teatro e alla cinematografia" e pertanto, a norma dell'art. 2575 c.c., non può essere oggetto del diritto d'autore nelle due espressioni (morale e patrimoniale) considerate dal legislatore. E ciò perché, al di là di quanto effettivamente creativo ed originale sia eventualmente riscontrabile nei contenuti e nelle modalità espressive utilizzate in una sentenza, essa non viene in considerazione per l'ordinamento come opera letteraria bensì quale espressione di una funzione dello Stato, come d'altro canto accade per gli atti amministrativi e legislativi nonché per gli atti dei rispettivi procedimenti prodromici.
Ne consegue che, con riguardo alla disciplina civilistica: la sentenza può essere citata, riportata, ripresa e richiamata in altri scritti senza che si ponga alcun problema di diritto d'autore (nè sotto il profilo patrimoniale ne') sotto il profilo morale, ossia con riferimento alla rivendicazione della paternità dell'opera;
nella sentenza non assume rilievo l'eventuale "originalità" dei contenuti e/o delle relative modalità espressive;
nella sentenza può essere riportato, ripreso, richiamato in tutto o in parte il contenuto