Cass. civ., SS.UU., sentenza 17/11/2008, n. 27310
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In tema di riconoscimento dello "status" di rifugiato, anche nel vigore dell'art. 1 del d.l. n. 416 del 1989, convertito nella legge n. 39 del 1990, i principi che regolano l'onere della prova, incombente sul richiedente, devono essere interpretati secondo le norme di diritto comunitario contenute nella Direttiva 2004/83/CE, recepita con il dlgs n. 251 del 2007, nonostante l'inapplicabilità diretta "ratione temporis" delle disposizioni comunitarie, in quanto non ancora scaduto il termine di recepimento al momento della pronuncia della sentenza di secondo grado. Secondo il legislatore comunitario, l'autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria. Pertanto, in considerazione del carattere incondizionato e della precisione del contenuto di queste disposizioni , ed in virtù del criterio dell'interpretazione conforme elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, tali principi influenzano l'interpretazione di tutto il diritto nazionale anche se non di diretta derivazione comunitaria. Pertanto, seguendo il percorso ermeneutico indicato nella Direttiva anche nell'interpretazione dell'art. 1, quinto comma della legge n. 30 del 1990, applicabile al caso di specie, ai sensi del quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e "per quanto possibile" documentata, deve ravvisarsi un dovere di cooperazione del giudice nell'accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello "status" di rifugiato e una maggiore ampiezza dei suoi poteri istruttori officiosi, peraltro derivanti anche dall'adozione del rito camerale, applicabile in questi procedimenti anche prima dell'entrata in vigore dell'espressa previsione normativa contenuta nell'art. 35 del Dlgs n. 25 del 2008. (La Corte ha cassato la pronuncia di merito che non aveva ritenuto ammissibile la prova testimoniale richiesta dal ricorente in quanto non articolata per capitoli separati e reputando insufficienti le dichiarazioni del richiedente in ordine alla professione religiosa sciita e all'appartenenza alla minoranza curda, nonostante l'attestata conoscenza di tale idioma, aveva rigettato la domanda).
In tema di procedimento giurisdizionale applicabile alla domanda di riconoscimento dello "status" di rifugiato politico, negato dall'autorità amministrativa competente, il provvedimento che definisce i due gradi del giudizio di merito, anche nella vigenza della legge n. 39 del 1990, in considerazione della natura di accertamento giudiziale relativo allo "status" della persona, deve assumere forma di sentenza, così come previsto espressamente nella successiva disciplina procedimentale contenuta nell'art. 35 del dlgs n. 25 del 2008, di attuazione della Direttiva 2005/85/CE, non assumendo rilievo al riguardo l'adozione del rito camerale. Pertanto l'impugnazione davanti alla Corte di Cassazione va proposta mediante ricorso ordinario ai sensi dell'art. 360, primo comma, cod. proc. civ.
Nel procedimento giurisdizionale relativo al riconoscimento dello "status" di rifugiato politico, negato dall'autorità amministrativa competente (nella fattiscpecie la Commissione Centrale per il riconoscimento dello "status" di rifugiato), deve essere adottato il rito camerale, anche nel vigore dell'art. 1 del d.l. n. 416 del 1989 convertito nella legge n. 39 del 1990 in quanto l'indicazione contenuta nella norma, al sesto comma, relativa alla proposizione della domanda mediante "ricorso" giurisdizionale evidenzia, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, l'opzione del legislatore per il modello camerale, anche prima dell'espressa previsione normativa contenuta nell'art. 35 del dlgs n. 25 del 2008
Sul provvedimento
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. C V - Primo Presidente -
Dott. V P - Presidente di sezione -
Dott. P E - Presidente di sezione -
Dott. L M G - rel. Consigliere -
Dott. V G - Consigliere -
Dott. D'ALONZO Michele - Consigliere -
Dott. S G - Consigliere -
Dott. F F M - Consigliere -
Dott. S A - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
H A M, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BISAGNO 14, presso lo studio dell'avvocato C V, rappresentato e difeso dall'avvocato F S, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
M DELL'INTERNO;
- intimato -
sul ricorso n. 25740 - 2006 proposto da:
M DELL'INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
- ricorrente -
contro
H A M;
- intimato -
avverso la sentenza n. 659/2005 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 09/05/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2008 dal Consigliere Dott. LUCCIOLI MARIA GABRIELLA;
uditi gli avvocati FURLAN Simonetta, RUSSO Vittorio dell'Avvocatura Generale dello Stato;
udito il P.M. in persona dell'Avv. Gen. Dott. Nardi Vincenzo, che ha concluso, preliminarmente, previa riunione dei ricorsi e previo rigetto dell'eccezione di inammissibilità del principale dichiararsi giurisdizione dell'ago e l'applicabilità del rito camerale con rigetto del ricorso incidentale, nel merito accoglimento per quanto di ragione del 1 motivo del ricorso principale nonché del 2^ e 3^, assorbiti gli altri motivi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Firenze depositato il 15 ottobre 2002 il cittadino iracheno A M H impugnava la decisione della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato in data 13 giugno 2002 che aveva rigettato la sua istanza volta al riconoscimento di detto status, nonché il conseguente provvedimento del questore di Prato in data 2 luglio 2002 che aveva ritirato il suo permesso di soggiorno temporaneo per asilo e lo aveva invitato a lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni, chiedendo in via principale che fosse accertata la sussistenza dei requisiti per l'attribuzione dello status di rifugiato e che in subordine gli fosse riconosciuto il diritto di asilo nel territorio dello Stato, ai sensi dell'art. 10 Cost., comma 3, o in ulteriore subordine fosse affermato il suo diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, nonché del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 28.
Deduceva il ricorrente che in ragione della sua appartenenza alla etnia curda e della sua fede nella religione musulmana sciita, nonché dell'essersi unito ad un gruppo di oppositori al regime di Hussain Saddam era stato oggetto da parte dei militari iracheni, unitamente ad altri membri della sua famiglia, di persecuzioni, che lo avevano costretto a fuggire clandestinamente dal suo Paese e dopo varie vicende a raggiungere nel giugno 2001 l'Italia, dove la sua richiesta di asilo era stata ricevuta come domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Peraltro la Commissione centrale aveva respinto detta istanza sul rilievo che egli aveva addotto non già una situazione di pericolo per la propria incolumità personale, ma una situazione oggettiva e generalizzata di pericolo determinata dai conflitti armati esistenti in alcune zone dell'Iraq, non rilevante ai fini della Convenzione di Ginevra, e non aveva neppure raccomandato il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Con sentenza del 5 - 10 marzo 2003 il Tribunale di Firenze, ritenuto il proprio difetto di giurisdizione in ordine alla domanda di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, in accoglimento della domanda proposta in via principale annullava la decisione della Commissione centrale ed attribuiva all'istante lo status di rifugiato, ritenendo assorbita la domanda subordinata diretta al riconoscimento del diritto di asilo. Avverso tale sentenza proponeva appello, con atto di citazione notificato il 18 aprile 2003, il Ministero dell'Interno. Proponeva altresì appello in via incidentale A M H, chiedendo che subordinatamente all'accoglimento dell'appello principale si dichiarasse il suo diritto all'asilo politico o in ulteriore subordine si riconoscesse il suo diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Dopo aver disposto il mutamento del rito in quello camerale, con sentenza dell'11 febbraio - 2005 la Corte di Appello di Firenze, in accoglimento dell'appello principale ed in riforma dell'impugnata pronunzia rigettava sia la domanda principale che quelle subordinatamente proposte dal cittadino iracheno. In motivazione la Corte territoriale, dichiarata l'inammissibilità delle istanze istruttorie proposte dall'appellato, per non essere state capitolate le circostanze oggetto della invocata prova testimoniale, rilevava in relazione al merito che, pur condiviso il principio che nella materia in oggetto l'onere probatorio si pone in misura attenuata, atteso il ridotto grado di disponibilità obiettiva delle prove, nella specie non era stata offerto dall'istante alcun effettivo elemento a dimostrazione della sua appartenenza alla minoranza curda, stante la non idoneità a tali fini della circostanza che il medesimo aveva comunicato con l'interprete in lingua curda, ne' d'altro canto valendo la sussistenza di una situazione tendenzialmente persecutoria nei confronti dei curdi e degli sciiti da parte delle autorità irachene specificamente a dimostrare che l'istante fosse stato sottoposto, o corresse il pericolo di essere sottoposto, a persecuzioni in dipendenza della sua appartenenza alla minoranza curda o della sua professione della fede religiosa sciita.
Andava conseguentemente disattesa la richiesta subordinata di riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno umanitario di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998. artt. 19, comma 1, e art. 28, del relativo regolamento di cui al D.P.R. n. 394 del 1999, atteso che il richiamato art. 19, vietando il respingimento alla frontiera del soggetto nei confronti del quale è ipotizzabile la condizione di rifugiato politico, non richiede presupposti più ampi di quelli che presiedono al riconoscimento della condizione di perseguitato politico, e non può pertanto trovare applicazione ove tali presupposti non sussistano.
Altrettanto priva di fondamento era l'ulteriore richiesta di asilo politico in riferimento al disposto dell'art. 10 Cost., comma 3, non esistendo nell'ordinamento una legge di attuazione del principio costituzionale richiamato, al quale andava riconosciuta, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità, natura precettiva limitatamente al diritto dello straniero ad entrare in Italia per chiarire le proprie ragioni e natura meramente programmatica in relazione al diritto di restare una volta chiarita la sua provenienza da un regime meno libertario.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione A M H deducendo sei motivi illustrati con memoria. Ha resistito con controricorso il Ministero dell'Interno, che ha contestualmente proposto ricorso incidentale condizionato fondato su due motivi. Nell'imminenza della udienza odierna - fissata a seguito di rinvio dalla precedente udienza del 19 febbraio 2008, ordinato al fine di acquisire una relazione dell'Ufficio del Massimario sulle problematiche all'esame del Collegio - le parti hanno provveduto al deposito di ulteriori memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Con il primo motivo del ricorso principale, denunciando omissione ed insufficienza di motivazione, si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che l'istante non avesse fornito elementi di prova ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
Si osserva al riguardo che:
la Corte territoriale ha travisato il senso della dichiarazione resa nel primo grado di giudizio dalla interprete di lingua curda, la quale aveva affermato che il linguaggio del ricorrente è curdo, avendo la stessa interprete inteso segnalare che il curdo era la lingua madre del ricorrente, non già che il medesimo parlava il curdo, ed ha quindi erroneamente negato a tale indicazione l'idoneità a dimostrare l'appartenenza del soggetto alla minoranza curda stanziata in Iraq, in quanto tale soggetta - come peraltro dimostrato dalla documentazione prodotta - a persecuzioni e violenza in detto Stato. Si deduce ancora difetto di motivazione in relazione al pericolo prospettato dall'istante di essere sottoposto a persecuzione personale a causa dell'attività politica antigovernativa svolta nel suo Paese ed in conseguenza dell'avvenuto espatrio senza autorizzazione e della successiva richiesta di asilo all'estero.
Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 738 c.p.c., comma 3, e ss., e art. 345 c.p.c., comma 3, e ss., e artt. 359 e 184 c.p.c., si deduce l'errore della Corte di Appello per non aver
ammesso la prova orale richiesta. Si osserva al riguardo che il Ministero dell'Interno aveva impugnato la sentenza di primo grado con citazione;che la Corte territoriale all'udienza del 27 aprile 2004 aveva disposto il mutamento del rito;che nel procedimento camerale i poteri istruttori del Giudice non sono necessariamente legati all'iniziativa della parte, onde il Giudice è svincolato dai normali limiti di ammissibilità delle prove e non è tenuto ad osservare per la loro acquisizione forme e modalità predeterminate, potendo assumere informazioni ai sensi del richiamato art. 738 c.p.c., comma 3. Si aggiunge che nella specie l'A M H aveva richiesto nella comparsa di costituzione in appello di sentire dei testimoni della cui esistenza aveva avuto notizia soltanto dopo il giudizio di primo grado, riservandosi di formulare specifici capitoli di prova e di indicare eventualmente altri testi nel termine che aveva domandato gli fosse assegnato, e che pertanto la Corte territoriale avrebbe dovuto concedergli detto termine e solo successivamente decidere al riguardo, ovvero disporre direttamente l'ammissione dei testi. Si rileva ancora che, anche ritenendo nella specie applicabile l'art.345 c.p.c., comma 3, i mezzi di prova richiesti potevano entrare nel
giudizio, ai sensi dell'art. 184 c.p.c., nel testo all'epoca vigente, applicabile anche in appello.
Con il terzo motivo, denunciando violazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, del Protocollo relativo allo statuto dei rifugiati adottato a New York il 31 gennaio 1967 e della direttiva n.2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, si deduce che la
sentenza impugnata ha erroneamente interpretato ed applicato la normativa in materia di status di rifugiato in ordine all'onere della prova gravante sul richiedente: in particolare non ha considerato che la Convenzione di Ginevra ed il Protocollo di New York esigono che in materia di accertamento dei fatti rilevanti per la determinazione di detto status si tenga conto dei principi e metodi indicati dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (A.C.N.U.R.) nei paragrafi 195 - 205 del Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, e segnatamente del principio di cui al paragrafo 196, il quale prevede che, pur spettando secondo un principio generale di diritto al richiedente la prova a sostegno delle sue dichiarazioni, l'accertamento e la valutazione di tutti i fatti rilevanti faranno carico congiuntamente al richiedente ed all'esaminatore, che in alcuni casi... sarà compito dell'esaminatore utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda, infine che ove tale ricerca indipendente non sia coronata da successo, ovvero se talune dichiarazioni non siano suscettibili di prova, in tali casi, se il racconto del richiedente appare credibile, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio, a meno di valide ragioni in contrario. Si richiamano altresì al riguardo le disposizioni contenute nel quinto paragrafo dell'art. 4 della direttiva comunitaria 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, la cui entrata in vigore il 20 ottobre 2004 comportava per il Giudice un obbligo di conformarsi, pur non essendo alla data della pronuncia della sentenza ancora scaduto il termine per il recepimento: si osserva al riguardo che la Corte di Appello, in violazione dei suesposti principi, non ha tenuto conto che l'accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti facevano carico anche a se stessa, non ha utilizzato tutti i mezzi a disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda, non ha concesso al richiedente il beneficio del dubbio, non ha infine enunciato valide ragioni dirette a contrastare quanto dal medesimo dichiarato.
Con il quarto motivo, denunciando violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, e del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28, lett.
d), nonché del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, si censura la sentenza impugnata nel punto in cui, rigettando la domanda subordinata di accertamento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in conseguenza del negato riconoscimento dello status di rifugiato, ha affermato che il richiamato art. 19, vietando il respingimento alla frontiera del soggetto nei confronti del quale è ipotizzabile la condizione di rifugiato politico, non pone un riferimento a presupposti più ampi di quelli che presiedono al riconoscimento di tale condizione e non può trovare pertanto applicazione quando tali presupposti siano da escludere. Si osserva in contrario che non è corretto sul piano ermeneutico comparare norme internazionali di origine pattizia con norme di diritto interno in relazione alle definizioni ed ai termini utilizzati nelle une e nelle altre fonti;che gli elementi giustificativi del divieto di espulsione o respingimento di cui all'art. 19, sono più ampi di quelli posti dalla normativa internazionale per il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo l'applicazione della richiamata disposizione estesa alle persecuzioni per motivi di sesso e di lingua ed avendo il termine cittadinanza ivi contenuto una portata più ampia del termine nazionalità utilizzato nella Convenzione di Ginevra. Si aggiunge che, pur ove ritenuta corretta l'interpretazione dell'art. 19, fornita dalla Corte di merito, detta Corte ha errato nel non considerare che il ricorrente aveva chiesto di riconoscere il suo diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari anche ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e che sicuramente tale ultima previsione normativa non presuppone una fattispecie coincidente con quella postulata per il riconoscimento dello status di rifugiato. Si rileva a conforto di tale assunto che detta norma fa salva la ricorrenza di seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, e quindi di quelli che derivano dall'applicazione dell'art. 3 della CEDU, che vieta l'allontanamento di uno straniero verso un paese nel quale rischi di essere sottoposto a torture o a trattamenti disumani o degradanti, nonché della citata direttiva 2004/83/CE, la quale distingue il rifugiato dalla persona che, pur non possedendo i requisiti per essere riconosciuta tale, tuttavia necessita di protezione internazionale, rischiando di subire gravi danni nel caso di ritorno in patria.
Si rileva infine che la correttezza di tale interpretazione è ancora confermata, sul piano del diritto interno, dal D.L. n. 416 del 1989, art. 1 quater, comma 4, conv. nella L. n. 39 del 1990, introdotto
dalla L. n. 189 del 2002, art. 32, lett. b), e dal D.P.R. n. 303 del 2004, art. 15, comma 2, lett. c), secondo i quali la Commissione
territoriale, anche quando non abbia riconosciuto l'esistenza delle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, valutate le conseguenze di una espulsione alla luce degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali di cui l'Italia è firmataria, ed in particolare dell'art. 3 della CEDU, chiede al questore il rilascio di un permesso umanitario ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Con il quinto motivo, denunciando violazione dell'art. 10 Cost., comma 3, si deduce che la sentenza impugnata ha negato al ricorrente
il diritto di asilo sulla base di una errata interpretazione ed applicazione della norma costituzionale, fondata sull'assunto che la stessa abbia carattere precettivo solo per quanto riguarda il diritto dello straniero a entrare in Italia per chiarire le proprie ragioni, anziché esser respinto tout court alla frontiera, ma non per quanto riguarda l'aspetto più importante della norma stessa, e cioè il diritto a restare una volta chiarita la sua provenienza da un regime meno libertario del nostro: si sostiene che tale impostazione priva totalmente di efficacia precettiva il disposto costituzionale e si pone in netto contrasto con la nota pronuncia a S.U. n. 4674 del 1997, pur richiamata nella sentenza stessa, che ebbe a qualificare il diritto di asilo come un diritto soggettivo perfetto direttamente azionabile dinanzi al giudice, di contenuto diverso e più limitato rispetto al diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto avente ad oggetto esclusivamente la possibilità di essere ammesso e di soggiornare nel territorio italiano. Si contesta sul punto l'orientamento restrittivo espresso, in contrasto con la richiamata pronuncia a S.U., in recenti sentenze di questa Suprema Corte ( in particolare quelle n. 25028 del 2005 e n. 8423 del 2004), secondo le quali il diritto di asilo tutelato dall'art. 10 Cost., in assenza di una legge organica attuativa del dettato costituzionale, trova esplicazione nella disciplina normativa relativa al rifugio, ha ad oggetto esclusivamente il diritto di entrare nel nostro territorio al solo fine di accedere al procedimento di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ha un contenuto non più ampio di un permesso di soggiorno temporaneo valido per la durata di detto procedimento e non può essere azionato direttamente davanti al Giudice, perché strutturalmente finalizzato al riconoscimento di quello status.
Si aggiunge che dai lavori dell'Assemblea Costituente si desume chiaramente che il riconoscimento del diritto di asilo non postula requisiti ulteriori rispetto alla provenienza da un Paese ove è impedito nei fatti l'esercizio delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione e non può essere subordinato alla sussistenza di una persecuzione in patria.
Si solleva in subordine la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 416 del 1989, art. 1, conv. in L. n. 39 del 1990, della L. n. 523 del 1992, art. 1, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10, comma 4, e art. 19, comma 1, della L. n. 189 del 2002, artt. 31 e 32, del D.Lgs. n. 85 del 2003, art. 7, e del D.Lgs. n. 140 del 2005, art.2, secondo l'interpretazione risultante dalla richiamata sentenza n.
25028 del 2005 di questa Corte, per contrasto con l'art. 10 Cost., comma 3, in quanto dette norme, intese nel senso richiamato,
utilizzerebbero la locuzione domanda di asilo in termini fungibili con la domanda relativa al riconoscimento dello status di rifugiato. Con il sesto motivo, denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c., si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare la domanda subordinatamente proposta di accertamento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, pronunciando soltanto su quella relativa
al permesso di soggiorno ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art.19, comma 1, nonostante l'espressa impugnazione sul punto della
sentenza di primo grado.
Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato il Ministero dell'Interno deduce che la Corte di Appello avrebbe dovuto dichiarare il proprio difetto di giurisdizione in relazione alla domanda diretta ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, e del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28: osserva al riguardo che in materia di permessi di soggiorno per motivi umanitari lo straniero è titolare di un mero interesse legittimo, presupponendo l'accoglimento della relativa domanda valutazioni discrezionali
dell'Amministrazione. Con il secondo motivo di detto ricorso incidentale condizionato il Ministero, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 737 e 742 bis c.p.c., e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, violazione e falsa applicazione dell'art. 14
preleggi, in relazione all'art. 111 Cost, comma 7, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile alla controversia in esame il rito camerale: rileva al riguardo che la disciplina dello status di rifugiato trova titolo in leggi diverse dal D.Lgs. n. 286 del 1998, il quale peraltro, disciplinando modelli processuali ad hoc
per i vari tipi di provvedimenti, non può essere assunto quale paradigma per ogni disciplina processuale relativa alla condizione giuridica dello straniero, ed osserva quindi che il giudizio in oggetto doveva seguire il rito ordinario, potendo nel nostro ordinamento la cognizione su diritti soggettivi essere affidata al rito camerale solo con una espressa previsione legislativa. Precisa sul punto che l'interesse a tale motivo di ricorso trova ragione nella avvenuta formulazione di istanze istruttorie da parte dell'appellato nel giudizio di secondo grado, non consentendo l'applicazione del rito ordinario di riaprire l'istruttoria in appello e non essendo il giudice investito di poteri istruttori officiosi.
Va preliminarmente disattesa l'eccezione del Ministero dell'Interno di inammissibilità del ricorso principale proposto nelle forme del ricorso ordinario per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., formulata nell'assunto che quello impugnato sia un provvedimento di volontaria giurisdizione, eventualmente impugnabile soltanto ai sensi dell'art. 111 Cost., con la conseguente ammissibilità - in tesi - dei soli motivi di ricorso diretti a prospettare violazioni di legge. Ed invero le forma e la natura della pronunzia in oggetto, costituita da una sentenza emessa in materia attinente allo status delle persone, non consente di dubitare della proponibilità del ricorso ordinario per cassazione, e quindi della deducibilità di tutti i vizi enunciati nell'art. 360 c.p.c., comma 1. Queste Sezioni Unite hanno avuto di recente occasione di riaffermare che l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va effettuata sulla base della qualificazione data dal giudice con il provvedimento impugnato all'azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza, restando irrilevante il tipo di procedimento seguito (S.U. 2008 n. 2434;v. altresì Cass. 2007 n. 9867). Va altresì rilevato che la forma della sentenza, da adottare sia dal tribunale che dalla corte di appello, è stata espressamente indicata dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, di attuazione della direttiva 2005/85/CE (di recente modificato dal D.Lgs. 3 ottobre 2008, n. 159). I primi tre motivi del ricorso principale ed il secondo motivo di quello incidentale condizionato vanno trattati congiuntamente, in quanto investono, pur sotto differenti profili, le problematiche connesse al rito ed al regime probatorio applicabili nei giudizi per il riconoscimento dello status di rifugiato, che ha costituito oggetto della richiesta avanzata in via principale al Tribunale dall'A M H. Va al riguardo precisato che la vicenda in esame resta regolata ratione temporis, relativamente alla disciplina procedimentale e processuale, dal D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, art. 1, convertito in L. 28 febbraio 1990, n. 39, che
costituisce la prima fonte interna di diretta regolamentazione dello status di rifugiato, anche sotto il profilo procedimentale, dopo la legge di attuazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con L. 24 luglio 1954, n. 722, ed il successivo Protocollo di New York del 31 gennaio 1967. Ed invero detto art. 1, è rimasto in vigore anche dopo il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che all'art. 47, comma 2, lett. c), ha abrogato gli artt. 2 e ss., della normativa suindicata, ma non l'art. 1, afferente la materia oggetto di discussione. Nè trova applicazione nella specie - trattandosi di provvedimento reso dalla Commissione centrale in data 13 giugno 2002 - la disciplina dettata dalla successiva L. 30 luglio 2002, n. 189, recante Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo, la quale nell'art. 32, ha fatto seguire al richiamato D.L. n.416 del 1989, art. 1, così come convertito, gli artt. da 1 bis a 1
septies, recanti significative innovazioni sul piano del procedimento e su quello sostanziale, atteso che ai sensi della cit. L. n. 189 del 2002, art. 34, comma 3, le disposizioni di cui agli artt. 31 e 32, si
applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo regolamento di cui al D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, avvenuta il 20 aprile 2005.
Così richiamato il quadro normativo di riferimento, va osservato che l'indicazione contenuta nella cit. L. n. 39 del 1990, art. 1, comma 6, del ricorso giurisdizionale avverso la decisione di respingimento
del richiedente lo status di rifugiato consente di ravvisare, pur in difetto di una specifica regolamentazione del rito, l'opzione del legislatore per il modello camerale (v. sul punto Cass. 2006 n. 18353). La scelta della procedura della camera di consiglio è stata peraltro di recente ribadita nel richiamato D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, quale modello processuale più aderente alle esigenze di
celerità e di semplicità che la materia relativa al riconoscimento dello status di rifugiato sollecita.
Va pertanto ritenuto che correttamente la Corte di Appello ebbe a disporre il mutamento del rito da quello ordinario a quello camerale, con conseguente rigetto del secondo motivo del ricorso incidentale condizionato del Ministero dell'Interno.
Per quanto più specificamente attiene alle problematiche connesse alla disciplina della prova in tema di riconoscimento dello status di rifugiato, sulle quali la difesa del ricorrente si è soffermata nei richiamati motivi, va innanzi tutto ricordato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale devono considerarsi norme processuali, in quanto tali soggette al principio del tempus regit actum, quelle che attengono ai modi ed ai termini di assunzione delle prove. Va ancora ricordato che la L. n. 39 del 1990, art. 1, comma 5, ai sensi del quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata all'ufficio di polizia di frontiera, è stato generalmente interpretato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte in modo rigoroso, nel senso che la prova in discorso deve essere fornita dal soggetto istante, secondo i criteri generali di riparto posti dall'art. 2697 c.c., pur tenendo conto delle difficoltà determinate da un allontanamento sovente forzato e segreto, tali da rendere normalmente necessario il ricorso allo strumento presuntivo: si è al riguardo precisato che il pur limitato o attenuato onere probatorio, in ragione del ridotto grado di disponibilità obiettiva delle prove, riconosciuto dall'inciso in quanto possibile, non vale a configurare un diritto al beneficio del dubbio, ne' un obbligo dell'amministrazione di smentire con argomenti contrari le ragioni addotte dall'istante, ne' può indurre a ritenere sufficienti le attestazioni provenienti da terzi estranei al giudizio o i richiami al notorio circa situazioni politico - economiche di dissesto del Paese di origine o circa persecuzioni nei confronti di non specificate etnie di appartenenza;ciò vale a dire che il richiedente deve provare, quanto meno in via va presuntiva, il concreto pericolo cui andrebbe incontro con il rimpatrio, con preciso riferimento alla effettività ed alla attualità del rischio (v., tra le altre, Cass. 2007 n. 26822;2006 n. 18353;2005 n. 28775;2005 n. 26278;2005 n. 2091). Nei richiamati arresti si è altresì affermato che il richiedente deve dimostrare di essere credibile, assolvendo al relativo onere probatorio secondo le regole poste dal nostro ordinamento interno, mentre sono da considerare ininfluenti le indicazioni contenute nel Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato adottato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, volte a sollecitare l'esaminatore ad utilizzare i mezzi a sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda, trattandosi di indicazioni prive di valore normativo. Sul sistema probatorio in ordine ai requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato è intervenuta di recente la normativa comunitaria, dettando specifiche e dettagliate prescrizioni. Ed invero la direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, all'art. 4, comma 3, dispone che lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda di protezione internazionale e che l'esame della domanda stessa deve essere effettuato su base individuale, attraverso la valutazione: a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d'origine al momento dell'adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d'origine e relative modalità di applicazione;b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l'estrazione, il sesso e l'età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;d) dell'eventualità che le attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d'origine abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o a danno grave in caso di rientro nel paese;d) dell'eventualità che ci si possa ragionevolmente attendere dal richiedente un ricorso alla protezione di un altro paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino.
La elencazione minuziosa degli elementi verso i quali la valutazione deve indirizzarsi è associata alla previsione, contenuta nel cit. art. 4, comma 5, che quando gli Stati membri applicano il principio in base al quale il richiedente è tenuto a motivare la sua domanda di protezione internazionale e qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda;
b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi;c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone;d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto buoni motivi per ritardarla;e) è accertato che il richiedente è in generale attendibile. Ne risulta così delineata una forte valorizzazione dei poteri istruttori officiosi prima della competente Commissione e poi del Giudice, cui spetta il compito di cooperare nell'accertamento delle condizioni che consentono allo straniero di godere della protezione internazionale, acquisendo anche di ufficio le informazioni necessarie a conoscere l'ordinamento giuridico e la situazione politica del paese di origine. In tale prospettiva la diligenza e la buona fede del richiedente si sostanziano in elementi di integrazione dell'insufficiente quadro probatorio, con un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull'onere probatorio dettate dalla normativa codicistica vigente in Italia. Dette prescrizioni hanno trovato puntuale esplicazione nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, di attuazione della direttiva, che dopo aver previsto la proposizione di un'unica domanda di protezione internazionale ad oggetto indistinto, rimettendo all'autorità dello Stato di individuare la tipologia della misura di protezione adottabile, e fatto carico al richiedente di presentare, unitamente alla domanda o comunque appena disponibili, tutti gli elementi ed i documenti necessari a sorreggerla, affida all'autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell'istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale. In tale sistema normativo deve ragionevolmente escludersi, con riferimento alle prove testimoniali in ipotesi dedotte dal richiedente, che sia necessaria, per la loro ammissione, l'articolazione in capitoli separati e specifici o che la valutazione della loro ammissibilità e rilevanza si svolga secondo i criteri propri del codice di rito, dovendo per contro l'apprezzamento preventivo del Giudice tendenzialmente orientarsi per l'ammissibilità del mezzo istruttorio invocato in ogni caso in cui senza il suo espletamento il materiale istruttorio acquisito si profili insufficiente.
L'ampiezza dei poteri officiosi del giudice appare peraltro ribadita nel successivo D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, di attuazione della direttiva 2005/85/CE - recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato - (di recente modificato dal D.Lgs.3 ottobre 2008), il quale dispone all'art. 8, comma 3, che ciascuna
domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall'ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa, ponendo altresì a carico di detta Commissione il compito di assicurare che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative. Si pone nella specie la questione della influenza dell'innovativo regime in tema di prova dettato dalla normativa comunitaria sulla interpretazione, riferibile al momento della decisione della Corte di merito, della normativa interna preesistente, tenuto conto che la direttiva 2004/83/CE è entrata in vigore nelle more del giudizio di appello e che il termine del 10 ottobre 2006 per il suo recepimento è intervenuto in un momento successivo alla pronuncia della sentenza impugnata.
Ritengono le Sezioni Unite che le disposizioni comunitarie dirette a regolare, nei termini innanzi richiamati, il regime della prova, in ragione del loro carattere incondizionato e della precisione del loro contenuto, imponessero una interpretazione delle norme interne conforme al testo della direttiva stessa.
Va qui ricordato che secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia l'obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l'obbligo, loro imposto dall'art. 5 del Trattato (divenuto art. 10 CE), di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire tale adempimento valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell'ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il Giudice statale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e delle finalità della direttiva, onde garantire la piena effettività della direttiva stessa e conseguire il risultato perseguito da quest' ultima, così conformandosi all'art. 249, comma 3, del Trattato (v., tra le altre, sent. 13 novembre 1990, C - 106/89, Marleasing sa;sent. 25 febbraio 1999, causa C - 131/97, Carbonari;sent. 5 ottobre 2004, n. da C - 397/01 a C - 403/01, Pfeiffer;sent. 7 settembre 2006, n. da C - 187/05 a C- 190/05, Areios Pagos). Nella evoluzione della giurisprudenza comunitaria il principio della interpretazione conforme del diritto nazionale, pur riguardando essenzialmente le norme interne introdotte per recepire le direttive comunitarie in funzione di una tutela effettiva delle situazioni giuridiche di rilevanza comunitaria - quale strumento per pervenire anche nell'ambito dei rapporti interprivati alla applicazione immediata del diritto comunitario in caso di contrasto con il diritto interno, così superando i limiti del divieto di applicazione delle direttive comunitarie immediatamente vincolanti non trasposte nei rapporti orizzontali - non appare evocato soltanto in relazione all'esegesi di dette norme interne, ma sollecita il Giudice nazionale a prendere in considerazione tutto il diritto interno ed a valutare, attraverso l'utilizzazione dei metodi interpretativi dallo stesso ordinamento riconosciuti, in quale misura esso possa essere applicato in modo da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva.
Appare pertanto evidente l'errore della sentenza impugnata, che a fronte di una disposizione interna che ancorava l'onere della prova al canone della mera possibilità, lasciando spazio ad opzioni ermeneutiche aderenti ai criteri dettati dalla normativa comunitaria non attuata per essere ancora pendente il termine per il suo recepimento, ha ritenuto applicabili i principi generali del nostro ordinamento sulla ripartizione dell'onere della prova, negando qualsiasi rilievo, ai fini della dimostrazione della appartenenza del richiedente alla minoranza curda, alla circostanza accertata che il medesimo parlava la lingua curda e alla sua asserzione di professare la religione sciita, non dandosi carico di valutare la credibilità delle dichiarazioni da lui rese in ordine alle travagliate vicende vissute in Iraq ed alla sua militanza in un gruppo antigovernativo, non ammettendo le richieste istruttorie formulate perché non capitolate, senza peraltro considerare che il rito camerale correttamente adottato, regolato in via generale dall'art. 737 c.p.c. e ss., nella parte non disciplinata espressamente resta rimesso nel suo svolgimento alle direttive concretamente dettate dal Giudice, nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa. Al contrario, una interpretazione della norma interna conforme ai criteri dettati dalla direttiva innanzi richiamata imponeva di ravvisare un dovere di cooperazione del Giudice nell'accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, senza che il percorso ermeneutico da compiere nel rispetto di tali criteri potesse addurre a risultati incompatibili con quelli consentiti dal diritto interno.
L'accoglimento dei primi tre motivi del ricorso principale, al quale consegue la necessità del riesame, sulla base dei principi innanzi richiamati, della domanda avanzata in via principale dal ricorrente di riconoscimento dello status di rifugiato, comporta l'assorbimento degli altri motivi dello stesso ricorso, concernenti la domanda subordinatamente proposta dall'A M H di declaratoria del suo diritto di asilo, nonché l'altra domanda ulteriormente subordinata di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, o art. 19, comma 1, quale misura non
strumentale, ma autonoma rispetto all'invocato riconoscimento dello status di rifugiato. Resta pertanto assorbita anche la questione di giurisdizione relativa a quest'ultima domanda, sollevata nel primo motivo del ricorso incidentale condizionato.
La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, che pronuncerà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.