Cass. pen., sez. II, sentenza 31/12/2020, n. 37911

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Sul provvedimento

Citazione :
Cass. pen., sez. II, sentenza 31/12/2020, n. 37911
Giurisdizione : Corte di Cassazione
Numero : 37911
Data del deposito : 31 dicembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

a seguente SENTENZA sui ricorsi proposti nell'interesse di: D C G, nato a Milano il 24.7.1973, P D, nata a Milano il 25.10.1980, contro la sentenza della Corte di Appello di Torino del 20.3.2019;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. P C;
udito il PM, nella persona del sostituto procuratore generale dott. G R, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Asti, con sentenza dell'11.10.2017 resa nei confronti di G D C e di D P, aveva riconosciuto il primo responsabile dei fatti di estorsione aggravata e, entrambi, dei fatti di usura descritti nei capi di imputazione ed in danno di tale L P;
di conseguenza, ritenuto per il D C il vincolo della continuazione tra le diverse violazioni di legge e ad entrambi le circostanze attenuanti generiche stimate equivalenti alla aggravante e, per il D C, anche alla recidiva, applicata infine la diminuente per la scelta del rito, aveva condannato quest'ultimo alla pena finale di anni 4, mesi 5 e giorni 10 di reclusione ed Euro 4.000 di multa e, la P, alla pena di anni 1 di reclusione ed Euro 4.000 di multa, oltre che, entrambi, al pagamento delle spese processuali applicando altresì al D C la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni;

2. la Corte di Appello di Torino, in parziale riforma della decisione del Tribunale, ha eliminato per il D C la aggravante contestata sul delitto di estorsione rideterminando perciò la pena inflittagli in quella di anni 4, mesi 5 e giorni 10 di reclusione ed Euro 2.666 di multa;
ha confermato, nel resto, la sentenza impugnata condannando la P al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio;

3. ricorrono per cassazione i difensori del D C e della P lamentando:

3.1 l'Avv. P A M, nell'interesse di G D C:

3.1.1 mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla statuizione di responsabilità per il delitto di usura: rileva che la responsabilità del ricorrente per il delitto di usura è stata affermata in mancanza di ogni prova circa la entità degli interessi praticati, elemento indispensabile trattandosi di reato-contratto configurabile soltanto qualora gli interessi risultino superiori ai parametri cui rinvia l'art. 4 comma 2 della legge 108 del 1996;
sottolinea che nel caso di specie manca ogni certezza sia del prestito originariamente effettuato, che nemmeno il P era stato in grado di ricordare, che del tasso di interesse applicato;
segnala la fallacia del ragionamento della Corte di Appello che ha inteso provare il reato di usura sulla scorta delle somme versate dal P al D C senza tuttavia acquisire la prova della somma inizialmente mutuata;
rileva che la sentenza impugnata non accenna minimamente alle dichiarazioni rese dalla madre e dal padre della persona offesa circa i rapporti amicali tra i due e l'ammontare della somma che il ricorrente avrebbe prestato al figlio, di gran lunga superiore a quella indicata nel capo di imputazione;
segnala, ancora, che nessun cenno è stato fatto in sentenza in merito alle dichiarazioni del teste Pepe, sempre in ordine ai rapporti tra l'imputato e la persona offesa, tali da rendere del tutto illogica la ricostruzione fornita da quest'ultimo;
sottolinea dunque la contraddizione tra quanto riferito dal P e quanto dichiarato dal padre in merito alla somma mutuata al figlio;

3.1.2 erronea applicazione dell'art. 192 cod. proc. pen. con riferimento alla interpretazione delle dichiarazioni della persona offesa e vizio di motivazione sulla sua attendibilità: segnala le ulteriori incertezze palesate dal P nella sua deposizione, non essendo stato costui in grado di ricordare chi gli avesse presentato il D C, dove si sarebbero incontrati per la prima volta e quante volte si sarebbero successivamente visti;
rileva, ancora, come la Corte di Appello avesse definito come lievi imprecisioni circostanze invece essenziali ai fini della ricostruzione del fatto quali, in particolare, l'entità della somma mutuata dal D C non risultando perciò che esse si riferissero a fatti non essenziali;

3.1.3 erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 629 cod. pen. quanto al capo A) della rubrica e, in particolare, alla ingiustizia del profitto: rileva che la fondatezza dei rilievi esposti nei due motivi precedenti avrebbe dovuto portare a ritenere l'insussistenza del delitto di estorsione stante la mancanza dell'elemento del profitto ingiusto;
sottolinea ancora come la somma mutuata al P fosse ben superiore rispetto a quanto da costui affermato con la conseguenza secondo cui le condotte poste in essere dal D C per il recupero del suo credito si fondavano su una pretesa legittima e non miravano ad acquisire un profitto ingiusto;

3.1.4 difetto di motivazione con riferimento all'art. 99 cod. pen.: rileva il difetto di motivazione con cui la Corte ha applicato la recidiva a soli fini punitivi e sul solo presupposto della gravità dei reati da lui posti in essere el pertanto, con un ragionamento inferenziale viziato;

3.2 l'Avv. P A M nell'interesse di D P, vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla richiesta di riqualificazione del fatto di cui al capo B) nella ipotesi di cui all'art. 384 cod. pen. e conseguente affermazione della non punibilità della ricorrente: richiama il motivo di appello con cui era stata evocata la struttura del reato di usura come delitto a schema duplice con la conseguenza per cui il concorso di persone intervenute nel momento successivo alla conclusione del patto usurario è configurabile nella sola ipotesi in cui il concorrente abbia ricevuto l'incarico di recuperare ed effettivamente abbia recuperato le somme oggetto del reato rispondendo, altrimenti, del diverso delitto di favoreggiamento;
segnala che la mera consapevolezza, in capo alla P, del carattere illecito della condotta non può integrare, di per sé, un contributo concorsuale effettivo risolvendosi, semmai, in una connivenza non punibile;
segnala che lo stesso invio di messaggi da parte della ricorrente non è stata considerata condotta idonea ad integrare il concorso del diverso delitto di estorsione da cui infatti è stata assolta;
di qui, secondo la difesa, il vizio di motivazione che affligge la sentenza impugnata che avrebbe invece dovuto ritenere, semmai, la fattispecie del favoreggiamento personale non punibile in quanto consumata nell'ambito di un rapporto "more uxorio". CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi sono inammissibili in quanto articolati su censure manifestamente infondate ovvero, comunque, non consentite in questa sede.
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