Cass. civ., sez. I, sentenza 18/07/2003, n. 11228
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In forza del D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, con cui l'ufficio del pretore è stato soppresso e le relative competenze sono state trasferite al tribunale ordinario, giudice unico di primo grado, senza eccezione per le controversie in materia di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie, vengono a perdere rilevanza giuridica le questioni di competenza tra pretore e tribunale basate sulla precedente disciplina in materia. Ne consegue che la sopravvenuta competenza, per effetto di detto "ius superveniens", del tribunale, svolge effetti sananti in ordine alla sua originaria incompetenza, la quale non è più idonea ad inficiare la pronuncia emessa da detto tribunale, ed in fase di impugnazione della corte d'appello, tanto più che il principio di economia processuale, di cui è parte l'interesse (ora coperto dalla garanzia costituzionale di cui all'art. 111 Cost.) alla spedita definizione dei giudizi, vieta qualsiasi inutile reiterazione di attività processuali, e quindi preclude l'emanazione di una pronuncia che, nel cassare la sentenza perché emanata da un giudice incompetente, abbia l'effetto di rimettere le parti davanti allo stesso giudice divenuto "medio tempore" competente. (Principio espresso in relazione ad una controversia avente ad oggetto lo scioglimento di una comunione tacita familiare in agricoltura, per la quale era stato adito, erroneamente, il tribunale, anziché il pretore in funzione di giudice del lavoro, il quale era competente, conformemente a quanto si verificava per l'impresa familiare, vertendosi in tema di rapporti di collaborazione tra i diversi componenti della famiglia e ricorrendo il carattere della parasubordinazione nell'attività svolta).
Testo completo
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. L G - Presidente -
Dott. P V - Consigliere -
Dott. L M G - rel. Consigliere -
Dott. M G V A - Consigliere -
Dott. G G - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
S
sul ricorso proposto da:
D'A A, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAZZARO SPALLANZANI 36, presso l'avvocato V B, rappresentato e difeso dall'avvocato U R, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
T V, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 140, presso l'avvocato A M F, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1925/00 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 02/06/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/04/2003 dal Consigliere Dott. M G L;
udito per il resistente l'Avvocato F, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. O F che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PESSO
Con sentenza del 17 aprile 1984 - 25 marzo 1985 il Tribunale di Latina rigettava la domanda proposta da Viviana T con atto di citazione notificato il 28 luglio 1975 nei confronti del coniuge separato Aldo D'Annibale, con la quale era stato chiesto il riconoscimento dell'esistenza tra le parti di una comunione tacita familiare, la declaratoria dell'avvenuto scioglimento della comunione stessa e la divisione dei beni comuni in parti uguali. L'appello proposto dalla T era accolto dalla Corte di Appello di Roma con sentenza non definitiva del 12 giugno - 22 ottobre 1990, la quale accertava essersi instaurato tra i coniugi un regime di comunione tacita familiare, con decorrenza dal loro matrimonio, celebrato nell'ottobre 1957, fino alla separazione, avvenuta nel maggio 1973, e conseguentemente dichiarava la T comproprietaria in ragione della metà di tutti i beni mobili e immobili acquistati dal D'Annibale durante tale periodo e destinati all'esercizio dell'impresa agricola familiare dal medesimo gestita. Osservava in motivazione la Corte di merito che nella specie apparivano sussistenti tutti gli elementi costitutivi della comunione tacita familiare, tenuto conto che, pacifica l'appartenenza delle parti alla stessa famiglia e la comunione di tetto e di mensa, nonché la reciproca assistenza morale e materiale, dall'espletata prova testimoniale era emerso che all'inizio della vita matrimoniale la coppia era del tutto impossidente e che successivamente con i risparmi accumulati erano stati acquistati gli immobili, le partecipazioni ed i mobili indicati nell'atto introduttivo, tutti intestati al D'Annibale;che la T non aveva mai abbandonato il lavoro dei campi, ma pur dedicandosi alle cure domestiche ed alla crescita dei figli aveva continuato a lavorare insieme al marito, partecipando a tutte le attività agricole, e così contribuendo alla formazione di un peculio diretto non solo a soddisfare i bisogni del nucleo, ma anche ad incrementare l'azienda, e quindi le sostanze del consorzio familiare. Specificava sul punto che la volontà di collaborare con le proprie energie lavorative e di mettere in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali derivanti dalla gestione dell'impresa familiare era desumibile principalmente dalla unicità del peculio, comprovata dal fatto che la T, nonostante il lavoro prestato, non aveva alcuna disponibilità di danaro, tanto che era solita acquistare a credito quanto era necessario per i bisogni della famiglia.
N poteva indurre a diverse conclusioni l'intestazione al marito, con il consenso della moglie, di tutti gli immobili ed i mobili acquistati, tenuto conto che l'uomo era l'unico gestore dell'impresa e che soltanto a lui facevano capo i diritti e gli obblighi relativi.
Con separata ordinanza la medesima Corte dettava i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio, disponendo l'espletamento di una consulenza tecnica di ufficio per l'individuazione e la valutazione dei beni caduti in comunione e la formazione delle quote, nonché per l'accertamento delle rendite incamerate dal D'Annibale dalla data dello scioglimento della comunione tacita familiare. Con sentenza del 27 marzo - 2 giugno 2000 la Corte territoriale, fatto proprio il piano di riparto redatto dal consulente tecnico, in difetto di contestazioni sostanziali delle parti, assegnava alla T in proprietà esclusiva mq. 64.490 del terreno destinato a vigneto sito in Aprilia, determinava in L. 5.900.000 il controvalore in danaro, riferito all'anno 1973, della quota di spettanza della predetta dei beni mobili non più esistenti e condannava il D'Annibale al pagamento di detta somma, rivalutata in L. 63.550.000, con gli interessi legali dalla data della domanda, da calcolare sull'importo originario, rivalutato annualmente sulla base degli indici ISTAT, assegnava al D'Annibale in proprietà esclusiva i restanti beni.
Avverso entrambe le sentenze ha proposto ricorso per Cassazione il D'Annibale deducendo tre motivi illustrati con memoria, cui ha resistito con controricorso la T.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 38 c.p.c, nella formulazione anteriore al 30 aprile 1995, 4 della
legge 26 novembre 1990 n. 353, 409 c.p.c, 2140 c.c., si deduce che la competenza a pronunciare sulla domanda di scioglimento della comunione tacita familiare apparteneva al pretore del lavoro e che l'incompetenza del tribunale adito era ed è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado, in forza della originaria formulazione dell'art. 38 c.p.c. Il motivo deve essere disatteso. È certamente esatto che le controversie aventi ad oggetto i diritti patrimoniali riconosciuti ai partecipanti alla comunione tacita familiare rientra(va)no nella competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro, conformemente a quanto si verifica(va) per l'impresa familiare, vertendosi in tema di rapporti di collaborazione tra i diversi componenti della famiglia e ricorrendo il carattere della parasubordinazione nell'attività svolta (v. Cass. 1998 n. 4816;1997 n. 5875;1989 n. 921;nonché, in tema di impresa familiare, Cass. 1997 n. 8033;1996 n. 6060;1996 n. 5531;
1995 n. 11374;1994 n. 8685;1991 n. 5973).
Si è osservato nelle richiamate pronunce che la riconducibilità dell'ora abrogato istituto della comunione tacita allo schema ed alla disciplina dell'impresa familiare non trova deroga con riguardo alla circostanza che il lavoro del componente della famiglia è prestato in una comunione che persegue la finalità di realizzare il beneficio dei singoli componenti, atteso che la collaborazione personale fornita, in modo continuativo e coordinato, dai singoli appartenenti alla comunione consente di ravvisare il rapporto ipotizzato dall'art. 409 n. 3 c.p.c. È altrettanto esatto che ai fini della proposizione dell'eccezione di incompetenza non trova nella specie applicazione il nuovo testo del primo comma dell'art. 38 c.p.c, introdotto dall'art. 4 della legge 26 novembre 1990 n. 353, che ha opportunamente posto come limite temporale alla
rilevabilità della incompetenza per materia, per valore e per territorio nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c. la prima udienza di trattazione del giudizio di primo grado: atteso invero che la controversia ha avuto inizio prima del 30 aprile 1995 (v. art. 90 della legge n. 353 del 1990, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 534 del 1995, di conversione del decreto legge 18 ottobre 1995 n. 432, il quale ha disposto che ai giudizi pendenti alla data del 30
aprile 1995 si applicano le disposizioni vigenti anteriormente a tale data), va applicato il testo originario del primo comma di detto art. 38 c.p.c, ai sensi del quale l'incompetenza per materia può essere rilevata anche di ufficio in ogni stato e grado del processo.
E tuttavia va considerato che la Corte di Cassazione non può limitarsi a rilevare la violazione denunciata delle norme sulla competenza, ma deve statuire sulla competenza stessa ai sensi dell'art. 382 comma 2 c.p.c. Come è noto, in forza del decreto legislativo 19 febbraio 1998 n. 51 l'ufficio del pretore è stato
soppresso e le relative competenze sono state trasferite al tribunale ordinario, senza eccezione per le controversie in materia di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie, salvo che non si tratti di cause ricomprese tra quelle di cui al primo comma dell'art. 133: e pertanto nella specie dovrebbe dichiararsi la competenza del tribunale, ossia dello stesso giudice che ha pronunciato in difetto di competenza (v. sul punto per tutte S.U. 2000 n. 63;S.U. 1999 n. 812). Questa Suprema Corte, decidendo in analoga fattispecie, ha di recente disatteso la censura di violazione dell'art. 360 n. 2 c.p.c. nei confronti di sentenza emessa dal tribunale, anziché dal pretore competente per valore, sul rilievo che a seguito della soppressione dell'ufficio del pretore ogni questione di competenza tra pretore e tribunale fondata sulla precedente disciplina viene a perdere rilevanza e base giuridica (Cass. 2000 n. 2327). A non diversa soluzione deve pervenirsi nella fattispecie in esame:
soccorre al riguardo il principio di economia processuale, cui la Corte di Cassazione si è in numerose decisioni richiamata e che appare in particolare sotteso al consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi già nel vigore della precedente disciplina dell'art. 5 c.p.c. e condiviso dalla quasi unanime dottrina processualcivilistica, che attribuisce rilevanza alla giurisdizione e alla competenza sopravvenute in corso di causa, in quanto idonee a giustificare l'emanazione di una valida sentenza da parte del giudice originariamente adito privo di giurisdizione o di competenza, e che pertanto ritiene che detto giudice non possa dichiarare il proprio difetto di giurisdizione o la propria incompetenza, ma debba decidere nel merito, ove nel corso del giudizio sia sopravvenuto un valido criterio di collegamento tra la controversia e l'ufficio giudiziario adito, tale da attribuire al medesimo giudice, con efficacia sanante, la giurisdizione o la competenza di cui era originariamente carente (v. sul punto, tra le altre, Cass. 1997 n. 3474;1994 n. 9627;1991 n. 8983;1990 n. 1292). Come è noto, tale opzione ermeneutica ha trovato riconoscimento normativo nell'art. 8 della legge n. 218 del 1995 di riforma del diritto internazionale privato, il quale, dopo aver richiamato ai fini della determinazione della giurisdizione italiana l'art. 5 c.p.c, ha disposto che tuttavia la giurisdizione sussiste se i fatti
e le norme che la determinano sopravvengono nel corso del processo. Il principio di economia processuale, posto a tutela non solo del singolo utente della giustizia, ma anche dell'interesse pubblicistico alla spedita definizione dei giudizi, al quale certamente va attribuito un più incisivo rilievo, quale criterio generale di riferimento, a seguito della riforma dell'art. 111 Cost. sul giusto processo, appare chiaramente incompatibile con ogni inutile reiterazione di attività processuali ed ogni spreco di energie nello svolgimento della giurisdizione: esso sarebbe assurdamente violato da una pronuncia che, nel cassare la sentenza perché emanata da un giudice incompetente, rimettesse le parti dinanzi allo stesso giudice divenuto medio tempore competente. Deve pertanto ritenersi che la sopravvenuta competenza per effetto dello ius superveniens del Tribunale adito abbia svolto effetti sananti in ordine alla sua originaria incompetenza, e che pertanto detta incompetenza non sia più idonea ad inficiare la pronuncia emessa da detto Tribunale, ed in fase di impugnazione dalla Corte di Appello di Roma.
Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dei principi di diritto e delle norme di legge in relazione alla prova della costituzione della comunione tacita familiare agricola, arti 115 c.p.c, 8 e 9 delle disposizioni sulla legge in generale, 2727 e 2729, 2140 c.c., omissione, insufficienza e contraddittorietà di motivazione, si sostiene che gli elementi probatori offerti dalla T non potevano considerarsi idonei a dimostrare l'esistenza della comunione tacita familiare: si asserisce che dalle numerose testimonianze raccolte era emerso che il D'Annibale provvedeva a gestire l'azienda in proprio e con l'ausilio di alcuni operai senza alcuna interferenza da parte della moglie, che si limitava alla raccolta dell'uva e delle olive, e che la Corte di Appello ha dovuto far ricorso a presunzioni non solo inapplicabili, ma prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza e contrastanti con documenti scritti. Si aggiunge che la T non ha neppure provato gli usi locali, cui l'abrogato art. 2140 c.c. fa riferimento.
Si deduce altresì che sussisteva la prova che il danaro per l'acquisto dei beni intestati al solo D'Annibale proveniva da un'attività personale dal medesimo svolta al di fuori di ogni comunione con la moglie.
Anche tale motivo è infondato.
Ed invero la Corte di Appello nella propria sentenza non definitiva ha fondato il proprio apprezzamento circa l'esistenza di una comunione tacita familiare su una motivazione congrua e logica, ancorata non già, come sostenuto dal ricorrente, a mere presunzioni, ma alì analisi ed alla valutazione di precisi elementi probatori, emersi dalle testimonianze acquisite e ritenuti idonei a dimostrare la presenza di tutti i requisiti previsti dall'abrogato art. 200 c.c.: in particolare la Corte di merito ha posto in evidenza l'esistenza di una struttura associativa familiare caratterizzata dalla comunanza di tetto e di mensa, dal vincolo di coniugio tra i membri di essa, dalla reciproca assistenza morale e materiale, dalla formazione progressiva di un unico peculio gestito dal D'Annibale e destinato indivisibilmente alle esigenze della famiglia ed alla acquisizione di beni nell'interesse del consorzio familiare, dal costante impegno della donna nel lavoro dei campi e nella partecipazione a tutte le attività agricole, in aggiunta al lavoro domestico ed alla cura dei figli. Tale apprezzamento in fatto, in quanto sorretto da adeguata motivazione, non è suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dei principi di diritto e delle norme di legge relative all'acquisto di beni in comune e alla loro divisione, artt. 2140, 2932, 1350 c.c., omissione, insufficienza e contraddittorietà di motivazione, si deduce che la domanda di divisione dei beni era da ritenere inammissibile, potendo ravvisarsi - in ipotesi - soltanto un obbligo di trasferimento dei beni acquistati con i proventi comuni, il cui inadempimento da luogo unicamente ad un'azione risarcitoria da parte degli altri membri della comunione.
Anche tale motivo deve essere rigettato. Ed invero il riferimento svolto dal ricorrente al consolidato orientamento di questa Suprema Corte secondo il quale nella comunione tacita familiare il bene acquistato dal singolo partecipante con i proventi comuni, in difetto di una norma che determini l'acquisto automatico da parte della collettività, forma oggetto unicamente di un obbligo di trasferimento dal singolo acquirente agli altri partecipanti alla comunione, che non è suscettibile di esecuzione specifica, ma, ove non adempiuto, può dar luogo soltanto ad una azione risarcitoria (v. sul punto Cass. 1990 n. 9677;1981 n. 835;1978 n. 2242), appare non pertinente rispetto all'oggetto della controversia, atteso che la T ha proposto - come già rilevato - una domanda diretta ad ottenere l'accertamento della comunione e del suo scioglimento e la divisione dei beni acquisiti (v. sul punto Cass. 1987 n. 2165). Il ricorso deve essere in conclusione rigettato.
Il D'Annibale va conseguentemente condannato al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione, nella misura liquidata in dispositivo.